PARIGI
Il dibattito
aperto sulla prima pagina di “Odissea” all’indomani
dai gravi fatti di Parigi, continua con questi due riflessioni
di Russo e Piscitello. Scritti che ci invitano alla prudenza e alla vigilanza:
la posta in gioco, come sappiamo, è altissima.
Altri interventi seguiranno e ne daremo conto volta a volta.
dai gravi fatti di Parigi, continua con questi due riflessioni
di Russo e Piscitello. Scritti che ci invitano alla prudenza e alla vigilanza:
la posta in gioco, come sappiamo, è altissima.
Altri interventi seguiranno e ne daremo conto volta a volta.
GUERRA E TERRORISMO, LE DUE FACCE DELLA
STESSA
MEDAGLIA.
MEDAGLIA.
di Cataldo
Russo
Parlare
di terrorismo non è facile. È uno di quegli argomenti che dovrebbe metterci in
subbuglio le viscere e farci riflettere sulle nostre fragilità e, forse, anche
sulle nostre colpe. C’è sempre stata una correlazione fra guerra e terrorismo.
Anzi, credo proprio che siano le due facce della stessa medaglia, soprattutto
quando si capisce che c’è una grande disproporzione, sia per quel che concerne
gli armamenti sia il numero dei soldati, fra chi, in nome di un diritto
(quale?) pretende di imporre agli altri il silenzio e l’obbedienza e chi non è
disposto ad accettare ingerenze, ma non ha mezzi idonei per contrastarle. Mi
sorprende sentire con quanta disinvoltura, forse anche incoscienza, si parli
dell’argomento. Non c’è stato canale
televisivo e radiofonico che non abbia organizzato ore e ore di talk show
sull’argomento, con centinaia di pseudo esperti, per lo più tuttologi, che si
sono affannati, con un pensiero così corto che non andava oltre il loro naso, a
spiegare il fenomeno e a suggerire la soluzione, la più rapida e la più
radicale possibile. Anche sulla carta
stampata e sulla rete se n’ è parlato tanto. E anche in questo caso si sono
sprecate le ricette fatte in casa su
come affrontare e risolvere il problema alla radice.
In verità, quello che ho
ascoltato non si è distinto un granché dalle normali discussioni che si fanno
sul calcio il giorno dopo la partita, quando tutti si scoprono allenatori e
dicono che si sarebbe dovuto fare così o colà. Solo che la posta in gioco
questa volta non era una partita di calcio ma vite umane, stroncate senza un
motivo in un venerdì novembrino; un venerdì che
doveva essere scandito da una cena, una pizza, una passeggiata, una
partita di calcio internazionale, una performance teatrale, un concerto, un
ballo. Insomma, le cose che di solito si fanno un venerdì sera, quando non si
vede l’ora di togliersi gli indumenti di lavoro per tuffarsi nella vita sociale
e ludica.
Otto
terroristi, nati e cresciuti in Francia e in Belgio -questo a mio avviso è il
nocciolo vero della questione, capire perché la serpe ci è nata nel seno- hanno
sparato con fredda determinazione uccidendo persone la cui colpa era di
trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Condoleezza Rise, 66° Segretario di Stato degli Stati Uniti
sotto l’amministrazione del guerrafondaio George W. Bush, ha affermato in una intervista: “Ci troviamo in un mondo
in cui la possibilità del terrorismo, unita alla tecnologia, potrebbe farci
pentire di aver agito”. Sono parole pronunciate non da una persona qualsiasi,
ma da un Segretario di Stato di quel Presidente Bush che, pur di bombardare
l’Iraq, non esitò un istante a costruire prove false per giustificare la guerra
che aveva pianificato in ogni dettaglio. Peccato che alle parole della Rice non
siano seguiti i fatti, ma la guerra.
Persino Bettino Craxi,
parlando del terrorismo degli anni di piombo e dello stragismo, disse: “È
nostra profonda convinzione che nessun sistema di prevenzione o di repressione
del terrorismo potrà assicurarci la vita libera e pacifica alla quale
aspiriamo, se esso non sarà combattuto con l’azione politica e diplomatica là
dove esso nasce”.
Il rigurgito
terroristico che si sta manifestando a macchia di leopardo, se non proprio
farci pentire per quello che abbiamo fatto in Afghanistan, Iraq, Libia,
Tunisia, e in molti stati africani, dovrebbe, quanto meno, indurci a ripensare
sul nostro modo di agire. Dovrebbe farci chiedere se la nostra strategia di
voler esportare la democrazia con le armi, non crei poi quel substrato che
determina rancore, odio, voglia di vendetta. Questi terroristi sono ragazzi,
come ho detto, nati e cresciuti nell’Europa delle diseguaglianze, della
disoccupazione, delle discriminazioni. Sono ragazzi che non si accontentano del
poco, dei piccoli passi, del risalire la china lentamente, ma vogliono tutto e
subito. Per loro vale molto di più vivere
un giorno da leone che non 100 anni da pecore.
Da trent’anni a
oggi una parte dell’Occidente, con l’America in prima fila, ha creduto che con
le guerre lampo, le azioni chirurgiche, le bombe intelligenti si potessero
insediare in stati considerati strategici, governi fantoccio. Non è stato così e non lo sarà in futuro,
perché le guerre, qualunque siano le giustificazioni,
determinano quel substrato di odio che permette al terrorismo di attecchire.
La storia ci ha abituati a
fronteggiare situazioni riconducibili alle guerre convenzionali, dove eserciti
mossi da interessi e motivazioni diverse, si fronteggiano secondo tattiche
ormai cristallizzate sui manuali di guerra. Il terrorismo invece sfugge a
qualsiasi logica, ci coglie di sorpresa, gioca sull’impreparazione, sul nostro
senso di sicurezza.
In questi giorni gli
specchi infidi dei nostri sensi di colpa e della paura vedono terroristi
dappertutto. Basta una busta dimenticata perché scatti l’allarme, perché
inizino le perquisizioni e le limitazioni delle nostre libertà. Il terrorismo è
si guerra, ma guerra di nervi. È questo che i terroristi vogliono: logorarci.
Se fossimo un po’ più avveduti e meno spavaldi e sicuri, dovremmo capire che
tutte le volte che mandiamo missioni militari a interferire nelle situazioni
interne di certi paesi non facciamo
altro che “svegliare il cosiddetto cane che dorme”, cioè il terrorismo.
In tutta questa storia ho
sentito poche persone che si sono chieste perché un giovane o una giovane di
vent’anni dovrebbe, a un certo momento della propria vita, scegliere di
immolarsi? Qual è il meccanismo perverso che si inceppa nella testa? Lo fa solo
per far piacere a un Dio, cui diamo i nostri sentimenti e la nostra sete di
sangue, o per risentimenti e rancori verso una società che sembra avviarsi
sempre di più verso l’esclusione anziché verso l’inclusione?
La vera tragedia di oggi è
costatare che un giovane di soli vent’anni
possa arrivare all’assurdo di
azionare il congegno che lo farà esplodere in mille pezzi convinto che
sta compiendo una missione salvifica del gruppo e della religione di
appartenenza.
La tragedia di Parigi,
quindi, evidenzia i prodromi di una follia, una follia che è insita nelle sette
religiose, che poi altro non sono che l’estremizzazione ad uso e consumo delle
religioni. L’Isis agisce in nome e per conto dell’Islam perché non riesce ad
elaborare un progetto politico serio e credibile. L’Isis uccide gratuitamente e
terrorizza perché è un substrato di violenza e slogan, di malsana concezione
religiosa e di assenza di un progetto politico e di cultura democratica.
Il terrorismo è uno stato
patologico dell’uomo di fronte all’ingiustizia o a ciò che viene percepita
tale. Dategli un ago a un terrorista e con quello farà la sua guerra. Dategli
una ragnatela e con quella si costruirà il cappio.
Non sono le missioni degli
eserciti, né le guerre lampo o le bombe intelligenti che possono favorire il
seme della tolleranza e della democrazia, ma un risveglio delle coscienze in
senso laico. Solo una sana rivoluzione laica, illuminista, non mossa dal
rancore e dal desiderio di decapitare teste coronate, può effettivamente controbilanciare il fanatismo religioso che
toglie ai giovani, con la promessa di falsi paradisi, il diritto vero ad
autodeterminarsi, emanciparsi e di urlare forte: libertè, fraternitè, egalitè.
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