Distanza e imminenza
dell’enciclica Laudato Si’
di Giovanni Bianchi
Lo strumento
Lo strumento
culturale e politico che abbiamo a disposizione per affrontare questa fase non
solo complessa ma anche attraversata dall’orrore quotidiano, resta l’enciclica
di papa Francesco Laudato Si’. E se
la pistolettata di Sarajevo esplosa a Parigi dai terroristi di Daesh pare aver
mandato in frantumi le correnti categorie del politico e sospingerci in uno
scenario di guerra ancora una volta mondiale, le pagine dell’enciclica riescono
tuttavia a consegnarci una chiave di interpretazione. Può parere un paradosso,
ma si tratta di non sottrarsi al bisogno di innanzitutto capire che ci
attanaglia e che, se evaso, ci consegna all’angoscia.
Due sono gli
interrogativi preliminari. Da dove guarda il Papa? E, prima ancora, da dove
guardiamo noi? Noi guardiamo -non si fatica ad intenderlo- dal luogo più
strabico per leggere una lettera enciclica dedicata all’ecologia integrale. Proprio perché noi leggiamo necessariamente
dopo la strage di Parigi. E questo siamo costretti a fare non per essere à la page, ma perché Parigi è il luogo
obbligato dal quale trovare un punto di vista. Proprio perché ci costringe a
misurare da subito una distanza. L’ecologia è infatti una scienza della pace, e
non della guerra. Ricordo una vicenda che mi vide partecipe e protagonista.
Erano i primi anni Duemila e nel Parlamento
italiano riuscimmo a costituire un gruppo totalmente trasversale
-dall’estrema
destra all’estrema sinistra- con il compito di aumentare il tasso ecologico
della nostra Costituzione.
La carta del
1948 infatti si limita a evocare l’esigenza della tutela del paesaggio. Un po’ poco per una fase storica, la nostra,
che si industria a ridurre le emissioni di anidride carbonica e a inseguire le
energie verdi. Nonostante la comune buona volontà dovemmo desistere. Perché?
Perché non ci riuscì di trovare un linguaggio che fosse all’altezza di quello
scritto dai costituenti. Era come mettere le battute dei Legnanesi tra le
terzine di Dante.
D’altra
parte i costituenti non potevano essere accusati di disinteresse ecologico:
scrivevano tra macerie ancora fumanti. Il loro cruccio era di realizzare la
ricostruzione sfruttando al meglio l’occasione del piano Marshall. L’ecologia
avrebbe dovuto aspettare, per tutti, gli esiti del boom economico. Dunque l’aggressione parigina marca una
distanza evidente rispetto alle pagine di papa Francesco. E tuttavia può
evidenziare anche una prossimità e addirittura un’imminenza. Questo è il Papa
che ha parlato di “terza guerra mondiale, a pezzetti e a capitoli”. Purtroppo
ci ha preso. Basta scorrere le dichiarazioni rilasciate da Hollande e riflettere
su come la marsigliese sia diventata il nuovo inno dell’Unione Europea.
Ad essere
precisi e ad esercitare la memoria storica bisogna riconoscere che prima di
papa Bergoglio, addirittura negli anni Sessanta, il grande giurista tedesco
Carl Schmitt, l’autore di Le categorie
del politico e di tutta una serie di altri testi che sarà bene
ripercorrere, aveva parlato di una terza guerra mondiale già iniziata, in
quanto guerra civile combattuta da terroristi. Carl Schmitt era un uomo non
solo di destra, ma anche filonazista, circostanza che non gli ha impedito di
essere purtroppo profetico. Qual è in questo scenario il nuovo dal quale
guardare al superamento possibile della guerra in corso e contemporaneamente
alle chances di una nuova ecologia? Sappiamo che l’ecologia integrale, così
come la illustra papa Francesco, cambia insieme (o almeno sarebbe destinata a
cambiare) la vita quotidiana e quindi anche in macrosistemi.
La vita quotidiana
A ben
guardare anche le guerre del terrorismo hanno come teatro la vita quotidiana e
i macrosistemi. La guerra parigina, ma prima ancora quella in Siria, in
Kurdistan, in Iraq, in Afganistan, in Libia è una guerra che ha come teatro
anzitutto la vita quotidiana.
Non c’è un
fronte lungo il quale si posizionino gli eserciti con le loro artiglierie. Il
fronte non è sul Pasubio o sul Piave e neppure lungo la linea Maginot o
Sigfrido. Le uniformi stanno tutte nei musei dei rispettivi Risorgimenti. Lì ti
puoi ancora commuovere osservando le splendide divise degli ussari o le camicie
rosse dei garibaldini. Le bombe vengono messe a punto e assemblate in un
appartamento di Saint Denis nella banlieu
parigina. Vengono riempite per essere letali con bulloni e pezzi di catena di
bicicletta. Una confezione e una tecnica totalmente artigianali già
sperimentate durante la guerra in Bosnia-Erzegovina, purtroppo colpevolmente
rimossa da una coscienza europea e dai suoi testi scolastici che fanno finire
le guerre tra europei al 1945. Come a dire che la memoria non serve soltanto a
ricordare con rimpianto e con rabbia, ma anche a imparare per il presente e più
ancora per il futuro. Le bombe, insieme all’esplosione dei kamikaze avrebbero
poi dovuto seminare morte nello stadio di calcio della capitale francese dove
Zidane e i Bleus vinsero i
mondiali di calcio.
Neppure i
kamikaze sono una novità assoluta. Erano 3800 i kamikaze giapponesi che si
facevano esplodere con il loro aeroplano sul ponte delle navi statunitensi,
riuscendo nel loro intento -dicono le statistiche- per il 12%. Se poi ci
spingiamo ad analizzare le truppe sul campo, esse sono in larga parte composte
da contractors: uomini che scelgono
il mestiere delle armi presentandosi ad un’agenzia. Uomini e donne in guerra su
tutti i teatri mondiali, non raramente per ottenere i soldi per il mutuo. E del
resto nessuno scandalo: soldato, fin dall’antichità, significa al soldo. Se dunque l’orrore terroristico attraversa le
nostre città fino a blindarle, fino a riproporre lo stato d’assedio o, come a
Bruxelles, capitale d’Europa, il coprifuoco, è sempre tra questi quartieri
cittadini, nel perimetro delle nostre metropoli, che papa Francesco ci invita a
seguire il poverello d’Assisi con una serie di comportamenti in grado di
cambiare le nostre vite e di costringere i potenti a stabilire finalmente nei
trattati clausole ecologiche all’altezza della situazione.
Il senso dell’enciclica
“Tutto è in relazione” e “tutto
è collegato”: è il ritornello dell’enciclica pubblicata il 18 giugno 2015,
colto benissimo dal saggio di Giacomo Costa e Paolo Foglizzo pubblicato sul
numero di agosto-settembre di “aggiornamenti
sociali”. Da qui discende, ossia
dall’avere posto al centro della riflessione la relazione tra le diverse parti
del mondo e le regioni del sapere e del potere, la proposta di una ecologia integrale.
Il
capitolo IV (n. 16) offre una pluralità di prospettive, con temi che non
vengono mai abbandonati, ma costantemente ripresi e arricchiti. Sta esattamente
in questo punto di vista la novità di un approccio politico, nel senso che dai tempi
di Aristotele la politica viene considerata la “regina delle scienze”. Sta in
regia rispetto alle scienze.
Una
visione e una implicazione che dicono la necessità di un coordinamento degli
interventi nei diversi campi, con diversi approcci. Quella dunque che è stata
chiamata ecologia integrale si
presenta lungo due vie di interpretazione e di azione: attraverso cioè un “paradigma concettuale” e un “cammino spirituale”. Per questa ragione
il concetto di ecologia integrale non può essere confuso con un significato
generico e “verde” nel senso tradizionale. Si tratta piuttosto di un approccio
che affronta la complessità mettendo in relazione le singole parti con il
tutto. Quel che quindi viene immediatamente in rilievo come oggetto delle
pagine firmate da papa Bergoglio è il collegamento dei fenomeni ambientali
(riscaldamento della terra, deforestazione, diminuzione delle riserve idriche)
con questioni normalmente non associate all’agenda ecologica, come la
invivibilità e la bellezza degli spazi urbani, o il sovraffollamento dei
trasporti pubblici.
È
in questo contesto che l’enciclica colloca (n. 155) il rapporto con il proprio
corpo. Da qui prendono l’avvio le dinamiche sociali e istituzionali che
riguardano i macrosistemi come la vita quotidiana delle persone: circostanza
che ha fatto parlare di un’enciclica socio-ecologica. Un’enciclica cioè che si
occupa per la prima volta complessivamente dello stato di salute di tutti i
diversi ambiti tra loro correlati (n. 142). E’ questa la vera e rivoluzionaria
novità del testo. Non ci sono dunque due crisi separate -una ambientale e
l’altra sociale- bensì una sola crisi complessiva (n. 139).
È
secondo questa logica che l’approccio ecologico diventa sempre un approccio
sociale (n. 49). Fondamentale una lettura del Pil da questo punto di vista,
dove assume indubbiamente un ruolo di rilievo la speranza di vita o quella che
viene chiamata vita media. Quanto cioè un sistema fa campare, tiene in vita, è
in grado di aumentare il benessere personale dei suoi cittadini, che non
possono essere considerati soltanto consumatori esposti all’avidità del
profitto e del guadagno, in particolare finanziario. Viene alla mente il
celebre discorso sul Pil di Bob Kennedy nel 1968 alla Kansas University, il più alto pezzo di retorica
della politica moderna. La cultura ecologica non si può ridurre a risposta alle
emergenze e alle urgenze, ma deve assumere uno sguardo e un approccio diverso:
mirare a costruire un programma educativo, un pensiero, una politica, una
spiritualità che creino un fronte per resistere al paradigma tecnocratico (n.
111). È questa impostazione in grado di dare senso anche alle piccole azioni
quotidiane di “attenzione all’ambiente”(n.211), delle quali papa Francesco fa
l’elenco, come di “fioretti”, definendoli “ascetici
doveri verdi”(n.211).
Tutto
ciò attiene alla difesa della casa comune contro
il paradigma tecnocratico: e cioè l’ecologia, legata alla finanza, che
pretende di essere l’unica soluzione dei problemi. Che pensa di risolvere i
problemi creandone altri (n. 20).
La
seconda resistenza che l’enciclica evidenzia è l’eccesso di antropocentrismo nel mondo contemporaneo, che mina il
tentativo di rafforzare i legami sociali (n. 116).
Solo
lo sguardo dell’ecologia integrale sfugge alla “schizofrenia permanente”, che
non riconosce agli altri esseri un
valore proprio, fino a negare in casi particolari un peculiare valore proprio
all’essere umano (n. 118).
L’ecologia integrale smaschera dunque i
limiti di iniziative ecologiste troppo parcellizzate, che rinunciano ad
assumere un’ottica sistemica(n. 111). Il rischio è alimentare un’ecologia
superficiale(n. 59) che finisce per lasciarsi catturare all’interno della
logica della finanza e della tecnocrazia (n. 194). Il problema centrale allora
è mettere in crisi la logica soggiacente alla cultura attuale (n.197). Si
tratta perfino di fare i conti con le nuove dimensioni del peccato. Dal momento
che vi sono peccati contro la creazione, non solo contro l’uomo. Infatti in
questo nuovo orizzonte culturale globalizzato la terra risulta “socia” e
interagisce da co-protagonista. Né manca chi vi ha visto una sorta di
“panteismo” (e del resto io stesso sono stato sorpreso da qualche reminiscenza
di Giordano Bruno).
Dove
il “panteismo” di papa Francesco consiste nella presenza di Dio in e a
tutti gli esseri. Tutto ciò è implicato dalla forza del punto di vista
relazionale. Un punto di vista che si ricollega direttamente con l’enciclica
precedente Evangelii Gaudium, che ci aveva
sorpreso richiamando a quella
gioia del Vangelo che "riempie il cuore e la vita intera" (primo
paragrafo di Eg). Vi avevamo incontrate esortazioni molto esplicite: "Non lasciamoci rubare la speranza!".
"Il denaro deve servire e non
governare"! E termini inediti in un italiano nuovo e meticciato: "inequità", come radice dei
mali sociali, e che sta evidentemente per mancanza di equità. Un Papa che tiene
insieme credibilmente la pagina e la vita, viaggiando a Buenos Aires sui mezzi
pubblici, preparandosi alla sera qualche volta la cena, scendendo, nella
capitale argentina, per aprire la porta a quelli che lo andavano a trovare… Un
Papa che ha vissuto il default e vi
ha trovato un’occasione di conversione. Che indica la via della bellezza come
esortazione e attenzione al Vangelo. L'annuncio evangelico contiene un contenuto ineludibilmente sociale.
Perché nel Vangelo vi sono la vita comunitaria e l'impegno con gli altri. Cioè
la dimensione sociale dell'evangelizzazione. Per questo bisognerà dargli retta
e partire da quelle che Francesco chiama "periferie esistenziali".
"No
a un'economia dell'esclusione e della inequità...
Con l'esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l'appartenenza alla
società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi,
nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono
"sfruttati" ma rifiuti, "avanzi"."(n.53 di EG). Roberto
Diodato ha osservato in una delle conversazioni preparatorie al XVII corso dei
Circoli Dossetti che “per il Papa il capitalismo non è un destino”.
Certamente
una "globalizzazione
dell'indifferenza" esclude
in radice ogni ecologia possibile.
L’ordito dell’enciclica
Colpisce
l’intreccio delle relazioni tra gli argomenti e i continui rimandi ma, dal
momento che i fatti contano più delle idee e delle teorie, alla fine funziona
la tecnica del finale aperto (Umberto Eco). Si attraversano cioè le regioni dei
saperi (Husserl) e quelle dei poteri (i sottosistemi di Luhmann), ma si sbocca
sempre nel primato della persona umana – ricollocato con più realistica umiltà
e quindi fuori da un primato faustiano e imperiale – nel creato tra le altre
creature. In fondo l’ecologia integrale
propone una nuova grammatica, etica, politica e culturale, dove immanenza e
trascendenza si tengono con sorprendente naturalezza.
Anche
la teologia argentina “del popolo”, superate le asperità immanentistiche di
parte della teologia della liberazione, raccoglie insieme il Cristo povero e il Cristo eterno (Natoli).
Non l’hombre
nuevo, ma l’uomo creato tra le creature create. Da Che Guevara e Camilo
Torres al Cantico delle creature di
frate Francesco, in una prospettiva nella quale perfino la morte diventa
sorella e frate ortolano riserva un angolo dell’orto a sorella gramigna.
La
Laudato Si’ ha l’ambizione di
proporsi come la nuova grammatica in grado di aiutarci a leggere le complessità
del mondo globalizzato.
La
Chiesa, come già altre volte nei secoli, prova a svolgere una funzione di
servizio non per i soli credenti, ma per l’umanità intera incamminata verso il
sogno fondativo d’Europa di De Gasperi e Spinelli, un percorso cioè verso un
governo mondiale.
Il
Concilio Ecumenico Vaticano II si era concluso con un messaggio a tutti gli
uomini di buona volontà. La Chiesa di Francesco prova a cimentarsi con una
prima ricognizione in una funzione di servizio globale. Un invito che non
riguarda soltanto lo scibile, perché è sempre papa Francesco quello che prende
le distanze dall’eccesso diagnostico
avvertendo che i fatti contano più delle idee. E poi la saldatura tra i diversi
piani, che può esibire un fondamento saldamente evangelico. Percorso e
programma sono condensati in quella che le culture cristiane ricordano come la
parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37). Il
Cristo povero come via obbligata al Cristo eterno. Ricordo che fu
l’approccio di un lontano colloquio con il padre gesuita e grande teologo De
Lubac. Erano gli anni Settanta. Avevo divorato il libro del padre Valadier su Nietzsche et la critique du Christianisme.
E mi ero precipitato a Parigi per verificare un saggio -poi pubblicato nella
rivista “Il Regno” - sulla nouvelle théologie.
De
Lubac fu gentilissimo. Mi stette ad ascoltare con grande attenzione e, prima di
iniziare una lunga conversazione, mi disse fissandomi negli occhi: “C’est toujours le Christe. Heri, hodie et
semper”. Capii che non era il caso di insistere con la nouvelle théologie.
La struttura
Anzitutto
è necessario confrontarsi con un nuovo paradigma che riguarda sia il concetto
di giustizia come il tipo di enciclica che abbiamo di fronte. Essa esce
dall’alveo abituale. I destinatari sono gli uomini, non i cattolici. Non è
neppure una sintesi cristiana del modo di guardare l’ecologia attuale, ma si
presenta come una voce interessata con altre a ricercare e a dire il proprio
punto di vista. E a generalizzarlo. Lo dice la parola stessa: enciclica
significa mettere in giro. Piuttosto è rivolta a chi è interessato ad ascoltare
il grido dei poveri della terra. Perché maltrattati sono gli abitanti e
devastata la terra medesima. Non c’è dunque una crisi sociale ed una crisi
ambientale, ma una crisi complessiva. Una crisi che riguarda insieme suolo,
acqua, aria, esseri viventi: il grido delle situazioni e uno sguardo e una
parola che presuppongono uomini “uniti da una stessa preoccupazione”.
Non
dice nulla di nuovo la Laudato Si’.
La novità è che lo dice il Papa. Prendendo atto della circostanza che molte
resistenze fanno sì che il grido degli uomini e delle cose non venga ascoltato.
Un grido essenziale per la speranza di costruire insieme la casa comune. Un’impresa rispetto alla
quale ognuno dovrebbe mettere a disposizione ciò che ha di più prezioso.
È
per questo probabilmente che l’enciclica ha avuto più attenzione tra i non
cattolici che tra i cattolici. E non è fuor di luogo ricordare che il termine conversione ecologica fu usato da
Alexander Langer.
Quattro principi
Vi
sono nell’enciclica quattro principi mutuati dalla Evangelii Gaudium.
1.Il
tempo è superiore allo spazio.
Ne discende che è più importante avviare processi piuttosto che occupare degli
spazi. Spazi dove ogni religione o ideologia può piantare la propria
bandierina. Quando avvii un processo invece non sai come andrà a finire.
Rispunta il finale aperto di Umberto
Eco.
2.L’unità
prevale sui conflitti. I
conflitti sono ineliminabili, tuttavia chiesa e scienza sono chiamate a
crescere insieme.
3.La
realtà è più importante dell’idea.
No dunque alle ideologie, perché il problema per tutti è indagare la realtà.
4.Il
tutto è superiore alla parte.
L’Evangelii Gaudium dice infatti che
il modello non è la sfera ma un poliedro (meglio ancora se è irregolare) dove
diversi contributi vengono assunti senza essere schiacciati nel complesso.
Siamo cioè sospinti oltre la “sfericità” della costituzione conciliare Gaudium et Spes.
L’enciclica
inserisce un capitolo sulle convinzioni nella fede, dove la Chiesa medesima è
una delle facce del poliedro. Non si tratta di una nuova scolastica, ma di un
contributo che si mette alla pari di altri contributi e sollecita un’azione
comune.
Ovviamente
(cap. VI) vi sono implicazioni speciali per chi crede. Non si tratta insomma di
ridurre la realtà a una posizione unica e monospiegazionale…
L’obiettivo
soprattutto è quello di evitare qualsiasi riduzione tecnocratica. Questo
significa che il tutto è superiore alle parti.
Necessità del dialogo
Un
percorso poliedrico presuppone persone e posizioni che possono essere criticate
e che comunque hanno qualcosa da portare e da aggiungere. Il rischio è che
qualcuno dica: io mi occupo della mia parte, e a questa mia attengo. Che cosa
può tenere insieme le facce del poliedro se non il dialogo? In questo senso vanno letti i capitoli dedicati alla
politica (cap. V) e agli stili di vita (cap. VI). Tutto è chiamato in campo: le
scienze, la Bibbia, la filosofia, la struttura, l’economia, la politica, la
formazione, la spiritualità. Tutto deve tenere conto del grido dei poveri sulla
terra, che è il vero problema urgente. Viene affrontato anche il problema dei
gradi di attendibilità delle informazioni scientifiche. Come vengono presi i
dati e messi a disposizione di tutti. I dati importanti sono più importanti
della militanza verde. E si può essere realmente colpiti dalla debolezza delle
reazioni. Il vangelo della creazione invita a ricevere il mondo come un dono.
Ad accogliere in tal senso il valore di ogni creatura, non solo dell’uomo. Ogni
maltrattamento nei confronti degli esseri naturali è conseguentemente contro la
dignità dell’uomo. L’ecologia integrale
per questo non è separabile dall’idea di bene comune. Il termine ecologia integrale ha sostituito il
termine ecologia umana. In ogni caso
siamo oltre la deep ecology.
Simpatica
la barzelletta dei due pianeti che si incontrano nell’universo.
“Ti vedo sofferente”…
“Infatti c’è qualcosa che non va”.
“Tranquillo. Anch’io ho avuto l’homo sapiens, ma poi passa”.
Resta
da valutare la visione del potere di papa Francesco. Lui stesso ha ammesso un
lungo cammino. Ha spaccato i gesuiti argentini in due schiere, una a favore e
una contro. Poi ha chiesto scusa. Acuta la sua critica all’inefficacia dei
vertici sull’ambiente. E d’altra parte ha definito profetico il primo vertice,
quello di Rio. Non spetta alla Chiesa dare soluzioni, ma invitare a una ricerca
e a un dibattito onesto. Il problema è confrontarsi tra coscienze credenti e
noncredenti, per incamminarsi verso il bene comune. Non a caso l’ultimo
capitolo è dedicato alla responsabilità ecologica e all’educazione. In esso i
piccoli gesti quotidiani vengono ricollegati alle prospettive macro. Senza
buone abitudini diffuse non si giunge alla firma dei trattati internazionali. Ma
v’è un’altra strada oltre al dialogo: la contemplazione (anche laica).
Importante è sapersi fermare. Toccano profondamente la nostra sensibilità sia
il diabolico come la bellezza. Si tratta in ogni caso di introdurre la
dimensione della gratuità.
Il
problema fondamentale è non occupare spazi, ma avviare processi.
La
relazione supera il piccolo è bello. E in ogni caso non bisogna lasciarsi
schiacciare dalla responsabilità, ma fare la propria parte.
Un elemento sempre concreto
C’è
sempre un elemento concreto nella scrittura del Papa: i poveri, non la povertà.
Infine
bisogna fare i conti con la capacità germinale
dell’enciclica: un’enciclica che parla al mondo. Con la quale il Papa continua
la propria rivoluzione dall’alto nella Chiesa, perché le rivoluzioni avvengono
quasi sempre dall’alto. La stessa storia della Chiesa lo testimonia, con
l’ausilio degli ordini mendicanti al pontefice. L’enciclica si segnala anche in
un processo di dissoluzione e ricostruzione della dottrina sociale della
Chiesa, perché evidenzia una distruzione della dottrina a vantaggio delle
indicazioni propositive.
Non
è tuttavia un’enciclica irenica, dal momento
che è palese e insistente la denuncia del male nel mondo. Si può anche
dire che non c’è più una dottrina, ma una forte denuncia e una grande
drammatizzazione del male. La Chiesa non ha da fornire dottrine ma continua a
fare esortazioni. Camminate! È questo il cuore del radicalismo di papa
Bergoglio. Egli riconosce esplicitamente di non avere una parola definitiva e
di aggiungere la propria voce ad altre voci, sullo stesso piano, senza l’ambizione
di costruire una nuova scolastica a partire dalla dottrina sociale della
Chiesa. L’enciclica cioè mette in circolazione -lo dice la parola stessa- una
cultura essenziale alla sopravvivenza e allo sviluppo o dell’uomo in questa
fase storica. Tuttavia Francesco non si limita a completare il quadro, ma
invita all’impegno e all’azione, indicando l’esigenza di “evitare l’eccesso
diagnostico”.
La Chiesa si
pone al servizio dell’umanità, elimina ogni ansia di proselitismo dichiarando
la propria appartenenza a una biosfera che unifica tutti coloro che la abitano.
Ivi inclusi i fedeli di un Islam che va dal Maghreb all’Indonesia. Ciò che
muove papa Francesco è l’opportunità che ha l’umanità di sopravvivere. Un’enciclica dunque che non viene al seguito,
ma che spinge in avanti. Ricordando ad ogni passo che non ce la fanno i
credenti da soli e neppure i laici da soli. Siamo davvero fatti tutti della
stessa materia, le stelle e noi. Un’enciclica dunque “indigesta” (Mario Agostinelli)
perché chiede di cambiare tutte le relazioni. E afferma che è peccato non
curarsi insieme del mantenimento della razza umana. Per questo la vita e
l’uguaglianza sono chiamate a camminare insieme. Per questo non c’è più lo
spazio sulla terra per mettere gli uomini tra gli scarti. Con dei compiti
evidenziati. Liberarci da quella ossessione della velocità che ci ha cucito
addosso la tecnologia. Perché davvero il tempo non ci è più concesso: siamo in
un eterno presente e abbiamo smarrito i luoghi di condivisione che sono tipici
della democrazia e della comunità. Un’enciclica che evoca per 68 volte la
parola popolo, 22 volte la parola velocità e 8 volte la parola Chiesa. Come a
suggerire che la società più felice è quella più lenta. Senza dimenticare che
sono 50 milioni gli immigrati per ragioni ambientali. Ed anche lì è diversa la
condizione di chi sta in alto e di chi sta in basso. Un anno di guerra in Iraq
equivale a sette anni di emissione di anidride carbonica nell’Africa
subsahariana.
Dunque,
anche la lotta per il clima è lotta sociale.
***