di Angelo Gaccione
Veduta di Rovato dall'alto |
La fotografia e i suoi sensi
Permettetemi
una digressione preliminare: possediamo il libro di Ivano Bianchini di cui mi
sto occupando (Anime in posa. Poveri, ricchi e finti ricchi tra le
fotografie della Rovato del primo Novecento. Cogeme Spa 2020, pagg. 144 €
20,00), grazie a delle passioni e a delle generosità che si sono incrociate. Ma
si deve soprattutto al rispetto e alla considerazione di alcune anime sensibili
entrate in risonanza con il lavoro di altre; di averne apprezzato la fatica e
di aver saputo riconoscerne il valore, senza pregiudizi e senza invidie. Non
sono qualità da poco, credetemi. Ovviamente era necessario un substrato solido:
un occhio esercitato, una buona cultura, un amore spassionato per la terra dove
si sono messe le radici. Per fortuna tutti questi elementi si sono magicamente
combinati e la generosità ha fatto il resto. Ho sottolineato questa rara
qualità dell’animo umano – per me la più grande assieme alla solidarietà –
perché da chi ha messo il denaro per l’edizione (la Cogeme nel nome del suo
presidente Dario Lazzaroni), alla disponibilità del Comune di Rovato nella
persona del sindaco Tiziano Alessandro Belotti, a don Luigi Bonometti che ha
avuto il fiuto immediato per mettere in salvo il materiale (le lastre
fotografiche impressionate), a Carletto Pedrali che lo ha selezionato, ripulito
e custodito amorevolmente nella sua casa su incarico del monsignore, fino a
Giorgio Baioni che impiegherà ben tre anni di lavoro per il restauro e il
recupero delle lastre e poterle trasferire in digitale, tutte queste persone
menzionate, hanno offerto il loro tempo e la loro fatica completamente a titolo
gratuito, come un dono, mostrando generosità ed abnegazione. Ben 277 “vetrini”
scansionati pulendo imperfezioni, graffi, macchie e quant’altro il tempo e
l’incuria avevano causato. Altrettanto ha fatto generosamente il direttore
della Biblioteca “Cesare Cantù” della fervida cittadina rovatese, Ivano
Bianchini, che ha sottoposto il materiale fotografico ad una rigorosa ed
approfondita analisi di gran parte delle immagini, e premettendo al corpus
una bellissima, colta, puntuale e stimolante nota introduttiva, facendo non
solo “parlare” le immagini (perché ce le racconta), ma perché affronta un
prezioso excursus sulla fotografia stessa, come forma espressiva, come
linguaggio culturale, come memoria storica; con tutti i risvolti umani,
antropologici, storici, sociali, di costume, di ricognizione
geografico-territoriali, urbanistici, rituali e via enumerando, che vi sono
sottesi. O, per meglio dire: sottostratificati.
La copertina del libro |
Una foto, com’è noto, ci può parlare di un abito,
un’acconciatura, una tradizione, un evento, una lingua. Perché la foto è essa
stessa una lingua, una lingua che diviene eloquente se ne abbiamo
consapevolezza e sappiamo darle suono e forma. Come ha saputo fare in modo
magistrale in questo volume Ivano Bianchini, consapevole che non si trovava
davanti a semplici immagini fissate sulla carta, ma davanti ad anime in posa,
come recita il poetico titolo del libro. E dunque, attrezzato e supportato dal
complesso di elementi, di “strumenti” e di materia, che ho evidenziato, e con
il rispetto che si deve a chi prima di divenire immagine fissata sulla carta,
era stato carne e sangue; passioni e sentimenti, si è messo all’opera.
Giovanni Sorlini |
Bianchini ha la capacità di farcele sentire vive
queste figure, siano esse colte in posa fissate nella loro staticità o in un
gesto quotidiano; esibendo un sorriso rassicurante, uno sguardo languido o
spavaldo, una tenerezza verso lo sposo anziano che un altro braccio anziano
sorregge, o quello accogliente di una mamma. Ci fa compartecipe dell’interno
domestico dentro cui sono immersi i soggetti, ma, con l’abilità psicologica
dello scrutatore di anime, ce ne mostra i sentimenti interiori, azzarda
ipotesi, ne coglie lo stato d’animo, il carattere che dall’abito o dalla
professione si riverbera sul volto, sul loro spirito.
Allefranco Giovanni Marini |
A lettura ultimata, un libro di fotografie come
questo finisce per essere stata sì, una esperienza visiva (o visuale, se vi
piace un termine di moda), ma anche letteraria - e in senso più ampio -
intellettuale. Un’esperienza che certamente ha coinvolto la materia oggettiva
dei due fotografi riprodotta, quella di due antesignani della fotografia a
Rovato e dintorni: Giovanni Sorlini e del suo “maestro”, l’altrettranto
mustacciuto Allefranco Giovanni Marini, ma che non sarebbe la stessa senza
l’apporto del suo terzo autore: il Bianchini. Bianchini entra nell’opera dei
due fotografi in punta di piedi, ma costruisce, con la sua disamina,
l’impalcatura necessaria che sorregge tutto l’ordito per conferire ad esso, il
valore che lo esalta.
A Margine
Rovato. Convento dell'Annunciata |
Alcuni aspetti del lungo saggio di Bianchini, mi
hanno indotto a chiedermi quale fosse stato il mio rapporto con la fotografia. Ho
rinvenuto, andando a rivedere un vecchio album fotografico che si apre con una
foto in bianco e nero del battesimo di mia moglie nell’inverno del 1955 (ai
bordi delle vie la neve è molto alta), una mia definizione vergata da mia mano
a stampatello sul primo risvolto di copertina: “La fotografia è un momento
della nostra vita fermato per sempre”. È del 1970 questa frase, ed è poi
finita in quella strana raccolta di riflessioni e pensieri che è Il calamaio
di Richelieu, pubblicato nel 1989. A questa idea di memoria sono stato
fedele nel tempo, anche se da adulto ho visto una marea di mostre fotografiche,
ho letto testi teorici, ho frequentato fotografi, sono stato amico di alcuni di
loro piuttosto noti e che hanno fatto della fotografia un’arte. Sono rimasto
fedele al bianco e nero e forse per questo ho apprezzato subito il volume con
le foto di Sorlini e Marini, - tutte rigidamente in questa tonalità - e di
quanto ne scrive Bianchini. Ma ricordo anche il pensiero di Sciascia, riportato
molti anni fa nel primo risvolto di copertina di un mio libretto fotografico
senza pretese, dal titolo: Perché duri la memoria. Vecchie foto, le
poche che mi era riuscito di recuperare, per un omaggio ad un luogo di cui
parlo la lingua, certo che Bianchini saprà capire lo spirito. Dicevano così
quelle parole di Sciascia: “È stato detto - ed è vero - che non c’è fotografia
che nel giro di pochi anni non diventi bella: per quel che vi si
cristallizza di nostalgia, di rimpianto, di sentimento personale o collettivo.
E insomma: perché è un ricordo. Ma ci sono delle fotografie che nascono belle,
che sono in sé belle (e ancor più belle si fanno quando la
memoria individuale o collettiva in esse riconosce e si riconosce): e sono le
fotografie cui si può conferire quello che Paul Valéry diceva della danza: L’istante
genera la forma e la forma fa vedere l’istante. L’irripetibile unico
istante; l’unica e irripetibile forma”.
Rovato. Scorcio |
Tutto sul filo della memoria sarà costruito, nel 2003,
il racconto “Ritratto” che chiude la raccolta: La striscia di cuoio.
Racconto mia madre oramai scomparsa, attraverso una rara e sopravvissuta
fotografia. Faccio quello che Bianchini ha fatto per alcune delle foto del suo
libro: racconto, cerco di cogliere, di ricordare, di fare emergere, di
evidenziare. Mi prende sempre un nodo alla gola quando rileggo: segno che le
foto sono vive e sono umane. Tuttavia rimasi molto deluso quando appresi che la
fotografia veniva impiegata da regimi sanguinari e dalla propaganda militare e
di guerra per fini di propaganda e di menzogna. I fotomontaggi e le
scomposizioni che la mia giovanile ingenuità concepiva, erano quelli dei
pittori dadaisti e surrealisti, dei collages delle avanguardie, dei ribelli
creativi. Ammiravo Nadar e tenevo sui ripiani della libreria i suoi ritratti a
Baudelaire, a Bakunin ecc., come tengo ancora adesso il ritaglio di un
calendario dove una scolaresca di ben 34 piccoli scolari rigidamente
sull’attenti, stanno disposti a selva attorno alla loro maestra seduta. Non so
chi siano quelle giovine vite fissate in quello scatto e a quale luogo
appartengano, ma sono lì da tempo e non le ho più rimosse. Avrei potuto esserci
anch’io in una foto scolastica come questa se mio padre avesse potuto
permettersene il lusso, ma non gliene voglio: so molto bene cosa vuol dire otto
bocche da sfamare. Con gli anni, occupandomi di giornali e dirigendone
qualcuno, abbiamo usato la fotografia come documento per muovere a pietà o come
simbolo di libertà. Scrissi anche un paio di “Spigolature”, una dal titolo:
“Libertà e fotografia” e una dal titolo: “La musica contro i tiranni”. Il primo
breve scritto racconta del giovane coraggioso studente senza nome, fotografato
dal reporter americano Jeff Widener sulla piazza Tien An Men a Pechino, durante
il massacro del regime cinese contro studenti ed operai. Il secondo scritto
racconta del solitario pianista immortalato dal fotografo Oleg Mazech in una
spettrale piazza di Berkut mentre suona il pianoforte davanti alle squadre
speciali che hanno compiuto un massacro in Ucraina. È rimasto anonimo anche
questo giovane musicista, ma non c’è dubbio che la fotografia lo ha reso, come
il giovane cinese, un simbolo di libertà.
Rovato. Porticato di Piazza Cavour |
Più conflittuale, invece, il mio rapporto con questa
invasione bulimica delle immagini che hanno finito per sommergerci da ogni dove.
Nella raccolta di riflessioni: Il lato estremo, ho dedicato in tempi
diversi qualche breve frecciata alla “civiltà” delle immagini, al loro uso
pervasiso e immorale. Stanno rendendo il nostro occhio pigro e abitudinario,
indifferente e privo di pietà il nostro animo. Ne riporto qui la numero 21 di
pagina 12 scritta nel 1989: “Non si creda che io intenda demonizzare la civiltà
dell’immagine, solo perché critichi l’abuso volgare dei suoi mezzi, ad opera di
disinvolti tecnocrati al servizio dei poteri. Sono consapevole della forza e
del valore straordinario delle immagini audiovisive; dei mezzi di registrazione
ad ogni livello; della loro capacità di memoria in grado di riprodurre la
realtà, di scomporla, di dilatarla all’infinito. Lo so bene. Nego tuttavia che
le immagini siano superiori alla parola e alla scrittura. Se le immagini fanno
esistere la realtà e la conservano, la parola e la scrittura la ricreano”. Ma,
ovviamente, le immagini consumiste e inutili che ci assediano oggi, sono ben
altra cosa delle magnifiche foto di Sorlini e Marini che il libro di Bianchini
ci regala.