SCHIUMA DELLA TERRA
di
Pierpaolo Calonaci
Sarebbe
già una grande conquista se potessimo cancellare dal vocabolario del nostro
pensiero morale e politico l'orribile parola “obbedienza”.
Hannah
Arendt
Anche
la bestia più feroce conosce un minimo di pietà. Ma io non ne conosco, perciò
non sono una bestia.
Shakespeare
Riccardo III
II Parte
“La
possibilità della vera responsabilità si apre quando si è costretti a giudicare
in quelle situazioni in cui le condizioni del giudizio determinante sono venute
meno”: questa è la condizione di possibilità dell'etica, in nuce la
questione in filosofia morale del problema tra pensiero e vita etica.
Il
dovere in senso etico è un dovere immanentemente riflessivo, metariflessivo,
pluralista. È o dovrebbe diventare un habitus. Può ancora essere
insegnato in modo da conferirgli quella credibilità, ci dice la Forti, che ha
perduto? Laddove il tu devi è oramai uno strumento spuntato e vuoto con
cosa ci si può e ci si deve opporre al male? Per non appesantire il discorso,
lascio questa domanda sospesa. La sua episteme, del dovere, è un “factum dalla
pluralità interna, una modalità di conoscenza che si attualizza in ogni
processo mentale, una prevenzione per discernere ed evitare il male”. I suoi risvolti,
quale prassi politica trovano espressione nella costruzione di rapporti sociali
in cui le forze distruttive della storia trovano un argine. Per inciso, il dovere in
senso etico presenta un risvolto riflessivo davanti al dato tecnico della
proporzionalità della risposta ad una minaccia affinché la vita umana venga
sempre difesa (e francamente questa proporzionalità nel gesto del carabiniere
non l’ho vista). Credo
infine che l’etica e non il dovere abbiano condotto durante la violenza e
l’odio del Ventennio alcuni carabinieri a passare dalla parte della dignità
umana per difenderla dalle angherie delle leggi fasciste, perdendo la propria
vita.
Torno
al problema degli apolidi che mi sta particolarmente a cuore. Ammonisce la
Arendt che davanti alle minoranze, alla loro subalternità, al loro modo di
essere esposti alla cancellazione e all’invisibilità individuale e sociale
occorrerebbe misurare di quella condizione di prostrazione e sradicamento
“l’infezione totalitaria di un governo dall’uso fatto della privazione della
cittadinanza”. Sarebbe esattamente questo il metro con cui misurare il contesto
di “vita” di Muhammad Sitta: una cornice esistenziale di totale mancanza di
diritti umani dove la “mancanza di un posto nel mondo” sottrae tanto alle opinioni
quanto alle azioni un valore, un effetto, una visibilità che possano essere
riconosciute. È vero che Muhammad era richiedente asilo ma questo, ai fini
della mia analisi, è pura retorica in quanto, oggettivamente, si continua a
situare la sua vita in Italia sotto il segno della carità,
dell’assistenzialismo menomamente dentro un’organizzazione sociale che davvero
si faccia carico della sua apolidicità per metterlo in condizioni di
ricostruire dignitosamente la sua vita. Peraltro, riflettere su cosa sia davvero
perdere i diritti umani - che non significa nel contesto della mia analisi solo
perdere libertà e giustizia - è un’operazione che da noi non si fa perché molto
semplicemente li diamo per acquisiti. Significa essere essenzialmentesradicati
dall’appartenenza alla comunità in cui si è cresciuti, alla sua storia, alle
sue tradizioni e pratiche identitarie e catapultati, senza scelta, in una
dimensione di non appartenenza ad una comunità che si vive in quanto aliena. Il
risultato diretto è il trattamento che questa riserva loro e che spesso è e
rimane qualcosa di loro profondamente avverso, esogeno a se stesse in quanto
individualità e umanità non si possono perciò manifestare (questa affermazione
rispetta e ringrazia l’impegno nobile delle tante associazioni che lavorano
nell’accoglienza). È questo avvertimento, con tutte le sue variabili, che
Arendt esplicita davanti al fenomeno globale dell’apolidicità in cui milioni di
innocenti sono privati di diritti umani e dignità. E deve essere chiaro
oltremodo, dice la filosofa, che questa sventura si regge sull’impossibilità di
praticare, da parte degli apolidi, il diritto all’azione ovvero quello di poter
esprimersi, di parlare, di scegliere, di relazionarsi che in certo senso supera
la privazione della libertà. Donde Muhammad poteva uscire e andare ovunque
volesse ma senza poter aver accesso alla dimensione dialogica della e con la
realtà comunitaria ospitante, meno che mai con il mondo del lavoro; in breve
era privato della libertà di opinione che serve a mostrare chi si è, a essere
visti e ascoltati dagli altri.
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Annah Arendt
Il
discorso filosofico che la Arendt intraprende è analogo all’artista che usa il
fuoco della prospettiva per illuminare la densa profondità e la consistenza di
ciò che fino allora è rimasto nascosto. Diventiamo consapevoli di essere
soggetti di diritto ‘ad avere diritti (ciò significa vivere in una struttura
sociale in cui si è giudicati per le proprie azioni e opinioni, nota mia) solo
quando sono comparsi milioni di individui che lo avevano perso [...]’. Questo
meccanismo di cancellazione di diritti sorge e funziona laddove l’umanità ha
cominciato ad organizzarsi scientemente in stati, poi nazioni (con la deriva
nazionalistica), poi in imperi, oggi in stati democratici il che evidenzia un
denominatore comune: il criterio politico e securitario che fa del non
riconoscimento, dell’espulsione, della persecuzione la propria ragione
d’essere. L’epifania di tutte quelle organizzazioni statuali e giuridiche
conservano in sé un vulnus, un cortocircuito tra norme organizzative
(che possono alimentare ideologie e terrore) legittimanti tutti quei complessi
statuali e la realtà quotidiana degli individui; ciò che l’analisi arendtiana
illumina, è niente meno ‘la perdita della patria e dello status politico’
manifestantesi con l’espulsione dall’umanità stessa. Laddove poi, secondo
Waquant, in “Parola d’ordine: tolleranza zero” in cui sostiene la
riconversione dello stato assistenzialista “maternalista” - perciò non la
scomparsa del walfare ma la sua riconversione appunto in stato
punitivo “paternalista” - quella espulsione è prassi politica ideologica che
cementifica morale e politica contribuendo all'espansione costante dello stato
penale che criminalizza gli apolidi.
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Annah Arendt |