GAZA LA MARTIRE
Dr. Ezzideen
“Sto
condividendo qui una delle cose più dolorose che ho letto in questi giorni
incredibilmente oscuri. Avevo pensato di leggerla in un video, ma onestamente
mi sento male. In questo momento vorrei solo rannicchiarmi e sparire da questo
mondo. È di un uomo chiamato Dr. Ezzideen, che seguo su X. La sua scrittura è
in generale molto potente, ed è un vero medico a Gaza. (Il suo account su X è
@ezzingaza, nel caso qualcuno volesse saperlo). Ecco il testo”. [Farah Nabulsi]
Non c’è illusione più oscena, più
grottesca, della convinzione che l’uomo sia il culmine della creazione. Se
indossa una corona, è forgiata dalle macerie e incastonata di denti strappati
dalla bocca dei bambini. E in nessun luogo, in nessun luogo, questa oscenità è
più visibile che a Gaza, dove l’uomo strappa l’ultimo velo della civiltà e si
mostra per ciò che è sempre stato: una bestia predatrice, con la ragione
abbastanza affilata da uccidere con efficienza, e appena abbastanza coscienza
da provare un fugace disagio, subito messo a tacere. Gaza non è una tragedia.
Chiamarla così sarebbe troppo gentile. Non è un incidente della diplomazia o
dei confini. È un palcoscenico. Una rappresentazione. Una dimostrazione di ciò
che accade quando all’uomo vengono dati strumenti, sistemi, dati, ma non
un’anima. È la conclusione logica di una specie che non vive: divora. Le
persone lì - bambini, donne, vecchi - non sono vittime. Anche quella parola è
diventata troppo gentile. Sono soggetti di esperimento. Vivisezionati,
esaminati, catalogati. Non in nome della scoperta, ma all’ombra
dell’indifferenza totale. Gaza è stata trasformata in una gabbia - non
immaginaria, non poetica, ma letterale - e al suo interno viene scatenato ogni
strumento di degradazione umana: fame, bombardamenti, silenzio, isolamento,
sparizione. Non in successione. Ma insieme. Simultaneamente. In modo esaustivo.
Questo non è dolore. È l’industrializzazione dell’agonia. Perfino ai topi da
laboratorio viene offerta la dignità dell’isolamento: un trauma per gabbia.
Fame in una, paura in un’altra. Ma Gaza non è un laboratorio. È una fornace. Un
sito nero. Un luogo dove le regole della sperimentazione sono crollate in un
rituale di crudeltà. Le variabili non vengono più misurate. Sono armate.
Le armi a
Gaza non vengono usate: vengono presentate in anteprima.
Il cadavere
di un bambino non è un errore: è una conferma. Un dato.
L’annientamento
di un quartiere non è un incidente: è marketing.
Il mondo non
piange. Guarda. Si informa. Il missile raggiunge il bersaglio?
La struttura
crolla nel raggio previsto?
Il cibo non è
trattenuto per caos: è razionato con precisione matematica.
Il gazawi non
è nutrito in base a ciò che la vita richiede, ma a ciò che la morte permette. Appena
abbastanza per negare il martirio, mai abbastanza per permettere significato. Non
è misericordia. È manutenzione. Lo spirito umano, sospeso indefinitamente nello
spazio tra il perire e il sopravvivere.
E nulla di
tutto questo è casuale. È sistematico. Pulito. Clinico. Gaza non è governata. È
amministrata come un paziente terminale tenuto in vita per studio. Le soglie
psicologiche vengono testate, non da studiosi, ma da soldati.
I legami
sociali vengono schiacciati sotto il peso del lutto ripetuto. Ogni urlo è
registrato. Ogni silenzio annotato. Ogni sepoltura cronometrata e archiviata.
E il mondo?
Si volta dall’altra parte. Dà un nome a questo “conflitto”, come se sezionatore
e sezionato fossero in qualche modo uguali. Come se il topo e il bisturi
fossero entrambi partecipanti dello stesso esperimento. No. Questo non è un
conflitto. Questa è vivisezione. E l’umanità, questa specie che osa parlare di
bellezza e di eternità, guarda. Razionalizza. Va avanti. L’uomo non è ciò che
immagina di essere. Non è portatore di giustizia, né creatura di verità.
È, nella sua
forma ultima e più autentica, il più raffinato fabbricante di sofferenza che
abbia mai camminato sulla Terra.

La fiaccolata di Piazza XXIV Maggio
a Milano il 14 maggio
Nessuna
bestia scuoia i suoi simili con tale brillantezza. Nessun diavolo è necessario.
Se un giorno qualcuno chiederà: “Ma come lo sapevate?”
Non
risponderemo. Apriremo le mani e mostreremo ciò che resta: le ustioni sulla
pelle dei nostri figli, la fame scolpita nelle ossa dei vivi, le ninne nanne
che ora finiscono nel ruggito dei droni. Non diremo nulla. Perché non resta
nulla da dire.
Non lo
abbiamo imparato.
Non l’abbiamo
letto nei libri.
Lo abbiamo
portato nei nostri corpi.
Siamo
diventati esso.
Non c’è
bisogno dei diavoli.
L’uomo basta.
Egli è la
ferita.
Egli è il
coltello.
Ed è lui che lo gira.

a Milano il 14 maggio