ANTONIO MOLINARI: UN PROLETARIO, UN
ANTIFASCISTA,
MA SOPRATTUTTO UN UOMO RETTO
Il giovane Antonio Molinari con sua moglie |
Di quanti militanti, di antifascisti, di
uomini del popolo che hanno dato un notevole contributo alla causa della
giustizia, dell’uguaglianza, della libertà non abbiamo memoria, proprio perché
semplici proletari, di condizioni umili e spesso privi della possibilità di
scrivere e dunque di lasciare tracce del loro operato, dei notevoli sacrifici
sopportati e delle angherie subìte? Questi uomini e queste donne lasciate
nell’oscurità della storia sono centinaia e centinaia di migliaia. Sono il sale
della terra, ma la Storia non se ne occupa. Sono come gli oscuri schiavi che
hanno costruito piramidi e cattedrali con il loro sangue, bonificato terre con
la loro fatica, ma la Storia celebra i Faraoni, i Re, i Condottieri, i
Porporati, i Leader e così via. Eppure senza di loro, ogni sforzo sarebbe stato
vano, e sarà così in ogni tempo.
Noi amiamo questi uomini e queste donne che hanno dato
senza pretendere nulla per sé. Hanno obbedito alla loro moralità e alle loro
coscienze; ai loro ideali e al loro profondo senso di umanità. Erano uomini
retti, umani, e obbedivano prima di tutto a questi sentimenti primigenii, fatti
di rettitudine e di umanità. Questi sentimenti venivano prima di ogni altra
seppur nobile motivazione, e rappresentano il confine necessario fra la pratica
degli aguzzini, degli oppressori, dei carnefici, e chi a questa lurida logica
di morte si oppone. Sempre dobbiamo differenziarci da costoro, e mostrare che
il nostro valore della vita non è uguale al loro. Perché come ha scritto il
giovane scrittore anarchico Stig Dagerman, “chi costruisce prigioni si esprime
meno bene di chi costruisce la libertà”. Mai, dunque, “perdere la tenerezza”
come scriveva Guevara, altrimenti diventiamo simili a coloro che vogliamo
combattere.
Il significato profondo di questo toccante, commovente
ricordo del militante comunista Antonio Molinari, tracciato dal figlio Emilio,
sta proprio nello straordinario valore umano di questa figura, che non viene
meno neppure nei momenti più bui e duri della sua esistenza. Neppure nei confronti
dei suoi nemici e di quanti sono lontani dalle sue vedute ideali. L’eroismo non
è fatto solo di azioni eclatanti, di momenti epici: ci sono gesti mille volte
più educativi ed esemplari nella loro umanità, che si incidono così
profondamente nelle coscienze e le modificano in meglio per sempre. Quello che
ci racconta Emilio del suo sfortunato padre, scomparso alla giovanissima età di
46 anni (il figlio era poco più che un bambino), sta proprio in questa lezione
di umanità. In fondo non sono vissuti assieme che pochi anni, il tempo di un
sospiro; e tuttavia la sua giovane vita ne è stata influenzata per sempre. Se
ora, ad una età così tarda, il figlio ha sentito il bisogno di ricercarne le
tracce anche politiche e di offrircene i dati anche pubblici, perché noi
potessimo condividerli, è perché quel filo, quel legame interrotto 68 anni fa,
in realtà non si era spezzato. Nelle scelte di quel giovane ribelle
antifascista, c’erano le premesse di quelle che poi sarebbero state quelle di
Emilio. È lungo quel solco che è scivolata la vita del figlio, lungo quella
idealità, quella moralità. Buon sangue non mente, dice la saggezza popolare.
“Odissea” è onorata di ospitare questo ricordo e di condividerlo con i suoi
numerosi lettori. Queste vite ci appartengono, vite di uomini non illustri che
per noi valgono invece mille volte più di tante altre immeritatamente
celebrate. Siamo noi che dobbiamo onorarle e siamo noi che dobbiamo custodirne
la memoria. Ben vengano dunque altre ricerche in questo senso, e che il Pantheon
delle loro oscure, umili, indispensabili vite, sia il cuore di ognuno di noi. (A.G.)
***
Mio Padre
è morto nel 1947, ed io avevo 7 anni, ma so da sempre che in quel poco tempo,
mi ha comunicato una passione e consegnato una memoria storica. La sua memoria
e quella di uomini del suo tempo e di quelli che l’hanno preceduto. Ha così
poco vissuto con me, eppure ha influenzato enormemente la mia vita, quella di
mia sorella, quella di mio fratello che non l’ha mai conosciuto e quella di
tutti i suoi familiari. Ci sono i racconti di mia madre e di mia sorella, ma
soprattutto delle mie zie, di mia zia Maria in particolare, sulla miseria della
sua infanzia, la sua gioventù, il carcere e le botte, il suo confine all’Isola
di Lipari e il suo fare il comunista nel buio ventennio. E poi ci sono i miei
ricordi. Forse non mi bastava tutto ciò, forse volevo a 76 anni, ritrovarlo o cercare le conferme del
suo passaggio su questo mondo. Così il Casellario Politico dell’Archivio di
Stato da me consultato, mi rimanda una sua immagine quasi inedita per me e
anche una pagina di storia. Immagine e storia, vere e umanizzate, più dei
racconti e dei ricordi stessi. Poche e scarne pagine dove affiorano i tratti di
un proletario, nel senso che questo termine doveva avere negli anni 20 del
'900.
La scheda del Casellario Politico di Antonio Molinari con la foto frontale e di profilo |
Fascicolo numero 19548:
Antonio
Molinari di Emilio Molinari e di fu Clementina Bassani, nato il 1901 a
Villanova sul Lambro, abitante a Ponte Lambro: “Comunista, schedato, confinato
politico”.
Seguono i connotati:
occhi, naso, barba, baffi, viso, colorito, altezza, segni particolari e...“abbigliamento
abituale da operaio”. Poi due foto segnaletiche della questura di Milano, un
viso antico e alcune pagine, burocraticamente scritte da un funzionario che ne
descrive l'arresto, la personalità e la sentenza, seguite dai fogli tutti
eguali dei rapporti periodici di polizia, (quattro righe ogni pagina), che testimoniano
il suo comportamento. Poche pagine e poche parole perché non c'è nulla da
raccontare dell’operaio muratore Antonio Molinari, non ha notorietà alcuna... non
ha cariche, non è un comunicatore, è quasi analfabeta…
Così negli atti.
Cenno biografico al giorno 5/8 – 1927:
“Durante l'età giovanile
ha condotto vita scapestrata ed indisciplinata e, quando dopo la guerra, la
gioventù operaia fu attratta dalle false ideologie comuniste predicate nelle
pubbliche piazze da improvvisati tribuni della plebe, egli incoscientemente
venne avvolto e trascinato dalla marea rossa di allora, divenendone gregario
più per fanatismo giovanile che per convinzione di fede.
Frequentò le prime classi
della scuola elementare e la sua cultura è molto limitata, come la sua
influenza sui compagni.
È stato poco amante del
lavoro; non ha tenuto mai conferenze per mancanza d'istruzione e non ha coperto
cariche sociali né amministrative nel partito comunista. Dopo l'avvento del
fascismo al potere egli si dimostrò avverso al regime e quale sovversivo mal
visto dall'ambiente di Linate al Lambro, perché non trascurava di affermarsi
tale in ogni pubblica dimostrazione di carattere nazionale. La notte del 20/21
gennaio c.a, venne sorpreso in viale Umbria assieme ad altri sovversivi a
stampigliare sui muri la iscrizione di VIVA
LENIN ed arrestato da vigili notturni, fu trovato in possesso di una rivoltella,
che portava abusivamente. La perquisizione eseguita nella di lui abitazione
condusse al sequestro di un ritratto di Matteotti, di vari manifestini
sovversivi e di una tessera rilasciatagli dalla Confederazione del Lavoro ed
altra dal Comitato della IIIa Internazionale.
Con sentenza del 31
gennaio il locale pretore lo condannò per tale reato a mesi due di arresto. In
seguito di che, per disposizione, egli venne assegnato al confine di polizia
per la durata di un anno ai sensi dell'articolo 184 della nuova legge di PS.
Con ordinanza emessa dalla locale Commissione Provinciale e fu destinato alla
colonia di Lipari.”
Il seguito delle pagine
sono appunto tutte eguali, ripetitive. Sono i giudizi mensili di chi lo controllava:
“Continua a dichiararsi comunista, ma
tiene una buona condotta…”
Mia madre raccontava che
periodicamente arrivava in casa un milite, ma che con il tempo era diventato
quasi un conoscente, accettava un bicchiere di vino, si sedeva, chiacchierava e
se ne andava… Tutto qui, ma oggi sapere che mio padre nel 1927 scriveva su di
un muro di viale Umbria Viva Lenin e
portava in tasca una pistola è come se mi fosse restituito con il fascino di
una storia anarchica, comunista, brechtiana.
Penso che tutto ciò
avveniva proprio mentre il fascismo introduceva le leggi speciali, incarcerava
e aveva da poco ucciso Matteotti (di cui tiene la foto in casa). Anche la
tessera della IIIa Internazionale ha questo fascino perché questa
organizzazione era stata appena costituita.
Anche quel suo aver
condotto in gioventù vita scapestrata, indisciplinata… e poco amante del
lavoro…. entra nei miei sentimenti con un senso diverso da come l’intendeva chi
lo scrisse.
Già… come poteva essere se
non “scapestrata” e “scioperata” la vita di un giovane muratore di Ponte Lambro
a cui avevano tolto persino l’infanzia perché a 8 anni e per via della miseria
l’avevano mandato a fare il garzone dei muratori e a portare secchi di malta su
per le scale…o di un ragazzo che ha vissuto dentro i terremoti della prima
guerra mondiale, della rivoluzione d’Ottobre, del biennio rosso 19/21 e poi
delle squadracce fasciste?
E come poteva vivere, nei
lunghi anni del fascismo un muratore schedato e comunista? Che aveva imparato a
leggere e scrivere al confino grazie al compagno Sanna, un intellettuale
comunista, che ricorderà per tutta la vita e che come una reliquia conserverà
il libro che gli regalò: “La madre”
di Massimo Gorky. Poteva solo vivere testimoniando con dignità il suo essere un
comunista non “per fanatismo giovanile”.
Rifiutando la tessera del
partito fascista. Sposarsi con una operaia della Borletti, mettere al mondo una
figlia, mia sorella, venire licenziato dalla Montecatini di Linate, cercare
continuamente lavoro, restare vedovo, risposarsi con un'altra operaia della
Borletti e fare un altro figlio, (il sottoscritto) e poi alla fine della
guerra, un altro il figlio, concepito nella vittoria sul fascismo e sulla
monarchia. Un figlio e una vittoria, che non ebbe il tempo di conoscere e
assaporare.
Che altro poteva fare per
20 anni se non inventarsi nei comportamenti della normalità quotidiana, della
“buona condotta”, il suo essere un esempio comunista?
Come i tanti altri operai,
impossibilitati dal poter essere quadri militanti di un partito lontano e
clandestino, con una rete di comunicazioni quasi inesistente, attraversato da
lacerazioni, sospetti e dai settarismi dello stalinismo, credo potesse solo non
nascondere le proprie idee e dimostrare la sua diversità con comportamenti che
suscitassero il rispetto degli altri.
Come raccontano mia madre
e mia sorella: ricevere labili informazioni clandestine dal partito,
incamerarle e tradurne le idee in occasioni di discussione con: gli amici, gli
abitanti di Baggio o Ponte Lambro, quanti lavorano con lui alla Montecatini,
abitano nello stesso caseggiato o incontra all’osteria o al gioco delle bocce.
Già…è questo che leggo in
quei rapporti ripetitivi. Dichiararsi sempre comunista, mostrare rettitudine e
onestà, esaltare il senso della comunità, sia essa di caseggiato o di lavoro,
la disponibilità ad aiutare e organizzare risposte collettive alle necessità
quotidiane dei vicini di casa, degli amici o dei compagni di lavoro, anche
quelli fascisti, mettendo a disposizione il suo saper fare di tutto: dal
muratore al carpentiere al fabbro all’imbianchino. E parlare ai giovani di
Baggio che bazzicavano casa nostra, come Albico Albino che poi diventò un Gap e
fu torturato e ucciso.
I miei ricordi, di
difficile separazione dai racconti, cominciano nel 1943 e finiscono nel ’47
alla sua morte. Ricordo la guerra, i bombardamenti del 1944, la resistenza,
l’immediato dopo guerra.
Ho un ricordo di uomini in
fuga che si nascondevano in casa nostra prima di partire per le montagne:
partigiani, ebrei, persino un disertore tedesco che si era consegnato alla
resistenza.
Ricordo i volantini che
tutta la famiglia era impegnata a piegare, e che la compagna Speroni, la vicina
di casa che lavorava alla Borletti, veniva a ritirare per portare in fabbrica.
Già... Borletti e
Montecatini. Due fabbriche che ritornano sempre nella vita di mio padre, di mia
madre, di tutti i Molinari e anche della mia, dal momento che entrai nella
scuola aziendale della Borletti a 10 anni e ne uscii dopo 24.
Antonio Molinari |
Perché a Milano era così
la vita dei proletari; si sviluppava attorno ad una o due fabbriche...dalla
nascita alla pensione. Ricordo ancora che mio padre sparì di casa poco prima
del 25 aprile e lo rivedemmo con il mitra in spalla sul camion degli insorti
che andavano ad occupare la caserma Perucchetti in fondo a via Gulli. Ora nel
ripensarlo leggo nel suo modo di essere antifascista, come in quello di
migliaia di anonimi compagni che hanno resistito per 20 anni, qualcosa su cui
la mia generazione, settaria e feroce nel manifestare il proprio antifascismo,
dovrebbe riflettere.
Quei comunisti
contrastarono il fascismo stando semplicemente in mezzo alla gente come esempi
di vita. Come organizzatori di comunità, capaci di parlare a tutti anche ai
“nemici” che erano tanti. Mio padre lo ricordo così: che insegna, durante gli
ultimi anni di guerra, agli inquilini del nostro caseggiato: “l'arrangiarsi
collettivo e solidale”.
A fare gli orti
collettivi, a costruire i pollai e a non praticare o a subire la borsa nera ma
ad organizzare le delegazioni che per tutti girassero per le cascine a
procurarsi il cibo o la legna da ardere. Lo ricordo una notte, alla luce delle
lampade ad acetilene, alla testa degli abitanti di via Gulli, impegnati a
tagliare gli alberi di Piazzale Siena, farli a pezzi, dividerseli equamente e
portarli nelle case, con il tacito accordo dei militi che si presero la loro
parte. Lo ricordo con i bombardamenti assicurarsi che tutti fossero nel rifugio
e poi correre dalle “suorine” del convento di fronte a casa per tranquillizzarle,
lui, da loro conosciuto come il comunista. Che organizzava la carovana degli
sfollati serali della via, verso il riparo nella cascina Ghisolfa dove
abitavano i parenti della sua prima moglie. Ricordo il suo cantare canzoni che
mi comunicavano storie della prima guerra mondiale, del lavoro in miniera e
tutto il dolore di una generazione.
Ricordo il suo “canto
libero” nell'ultima estate del ’47, mentre la bicicletta sembra volare sulla
strada sterrata, tra le rogge di Quinto Romano, io sto sulla canna di quella
bicicletta e il suo canto mi arriva su di un motivo simile alla Marsigliese: “O vigliacchi scendete dal trono, deponete le
vostre corone, al grido di rivoluzion... marciam... marciam...”. Non ho più
sentito cantare quella canzone da nessuno.È rimasta mia, di mio fratello, di
mia madre. Nostra... da cantare quando la miseria del dopo guerra cercava di
umiliarci, come l'inno di un resistente, troppo vecchio e troppo padre di
famiglia per andare in montagna o nei Gap, troppo tempo vissuto come una minoranza
politica tra la gente. Troppo lontano dal mito delle armi della Resistenza che
oggi celebriamo. Troppo immerso nel popolo per essere feroce, tanto da
mettersi, dopo la liberazione, davanti ai suoi stessi compagni venuti a
prendere il fascista Calissoni un vicino di casa e dire loro: “lui ha sempre saputo chi nascondevo e quello
che facevo in casa mia e non mi ha mai denunciato”.
Solo ora ripenso a questo antifascismo
sconosciuto, che ha agito a lungo per convincere prima di sconfiggere. Solo
adesso capisco che forse è in questo modo, ora che ombre inquietanti si
avvicinano, che dovremmo manifestare un nuovo antifascismo. Cercando di parlare
a tutti e non di impedire di parlare a qualcuno. Mio padre non ha potuto vivere
né la vittoria né il declino della sua resistenza. Ha avuto solo la
soddisfazione di diventare capo della commissione interna della sua vecchia
fabbrica, la Montecatini di Linate e di animare la Cooperativa di Ponte Lambro.
Muore e qui comincia un altra resistenza epica quanto l'altra, come dice mio
fratello. È quella di mia madre, un’operaia che ha preso il posto di suo marito
alla Montecatini, vedova di un comunista, con figli piccoli da far diventare
uomini... con la memoria. Ma questa è un altra pagina.
Emilio Molinari