L’Europa
dei migrantes
di Giovanni Bianchi
Dopo Maastricht
L’Europa del dopo Maastricht è l’Europa
dei migrantes. Un’Europa cioè che prova ad andare oltre il drastico giudizio
prodiano che suonava: “C’è una dose di
schizofrenia nella politica europea: l’analisi guarda al futuro, ma la prassi
pensa solo al presente immediato”.
Come
al solito il cambiamento di rotta discende da una discontinuità non
programmata, perché diventa sempre più evidente che le discontinuità accadono e
raramente possono essere previste. Si tratta di un approccio tanto più
importante se si tiene conto dell’ultima mappa politica a disposizione:
l’enciclica di papa Francesco “Laudato
Si’ ”.
Nel
testo pontificio l’invito “globale”, insieme teorico e pratico, è fare politica
e governare non per rispondere alle emergenze, perché in questo modo, aggiunge
il Papa, si cerca di risolvere i problemi creandone degli altri. Si tratta cioè
di superare definitivamente non soltanto il trattato di Maastricht (7 febbraio
1992) per la semplice ragione che non può essere la logica economica a
determinare la crescita di un nuovo grande soggetto politico mondiale, ma anche
di muoversi in coerenza e oltre il minimalismo europeo di Monnet, che già
allora faceva osservare che consolidare i singoli Stati dell’Unione è
impossibile senza una visione geopolitica adeguata. Ne consegue il senso delle
dimensioni che l’Unione deve avere riguardo a se stessa. Possiamo cioè anche
diventare “Stati Uniti” d’Europa, ma la differenza l’hanno già indicata gli
Stati Uniti d’America definendoci per tempo, con la proverbiale malagrazia di
teocon e neocon, “figli di Venere”,
diversi dai figli di Marte. Figli di Venere perché l’Europa spende troppo in
Stato Sociale e troppo poco in armamenti. E sarà ben osservare subito che si
tratta sì di un problema di welfare, ma che attiene alla cittadinanza stessa di
questa Europa nel mondo globale: perché il welfare europeo è elemento
essenziale della cittadinanza europea, anche per rifugiati ed immigrati. Si pensi
soltanto per le vite quotidiane dei nuovi europei al ruolo centrale rivestito
dalla Sanità, anche nel nostro Paese. Il sans
papier che si infortuna viene comunque curato e ricoverato da una struttura
ospedaliera; ed è da rimarcare la circostanza che nessun medico leghista se la
sia sentita finora di “fare obiezione”.
Un nuovo protagonismo
europeo
Tutto
anzi concorre a sottolineare la necessità di un nuovo protagonismo europeo nel
mondo: quello che la vicenda ucraina, prima di quella siriana, denuncia come
una drammatica necessità. Una spinta tale da mettere in crisi e comunque in
tensione la stessa leadership tedesca, i guai della quale hanno radici più
lontane della Grecia e di Volkswagen.
Senza
proprio risalire ad Adamo ed Eva, si può dire infatti che i dilemmi della
leadership tedesca incominciano con il “ruvido” allontanamento di Kohl voluto
da Angela Merkel. E forse sarà bene nel contempo non dimenticare che proprio
Helmuth Kohl usava ripetere di voler salvare la Germania da se stessa. Allo
stesso modo è utile non dimenticare i pieni e i vuoti delle culture politiche
del Vecchio Continente. La scarsa voce della tradizione di sinistra in Europa,
dove i partiti comunisti avevano lasciato alle socialdemocrazie un protagonismo
aborrito. I comunisti infatti -a lungo ammaliati dalle sirene
dell’internazionalismo moscovita- si sono mostrati più che tiepidi rispetto
all’Europa. Salvo eccezioni, come in Italia quella di Giorgio Napolitano, e
salvo aver riconosciuto il peso permanente nella storia europea giocato da
Jacques Delors. C’erano oltrecortina infatti quelli che vedevano nell’Unione la
Nato, e quindi quelli che poi -ex area Comecon e patto di Varsavia- hanno
preferito entrare prima nella Nato che in Europa. I polacchi ne sono l’esempio
più eclatante.
Con
l’avvertenza, non solo per ragioni di completezza, di non lasciare fuori dal
quadro “a sinistra” il contributo creativo dei verdi tedeschi: da Fischer a
Kohn-Bendit. Quel Kohn-Bendit che dando l’addio al Parlamento europeo ha
dichiarato che “l’Europa ha il cuore freddo”.
Siamo
cioè a uno degli innumerevoli casi nei quali il congedo dal Novecento obbliga a
ripensare le posizioni dei padri, nel caso specifico, di De Gasperi e Spinelli,
entrambi intenti a ripetere che l’Europa doveva pensarsi come una tappa verso il governo mondiale.
Una democrazia inedita
Una
forma della democrazia cioè inedita e la più adatta a rispondere ai quesiti e
ai bisogni di una globalizzazione galoppante.
Vale anche la pena rammentare il discorso che Papa Giovanni Paolo II
fece in Slovenia nel maggio del 1996: “Questa
è l’ora della verità per l’Europa. I muri sono crollati, le cortine di ferro
non ci sono più, ma la sfida circa il senso della vita e il valore della
libertà rimane più forte che mai nell’intimo delle intelligenze e delle
coscienze”.
Sarebbe
bene tenerne ancora conto per dedurne un modo nuovo di guardare alle culture e
al deposito dell’illuminismo, e conseguentemente agli arnesi di lavoro adatti a
ripensare e ricostruire l’Unione. È qui che ci imbattiamo nell’assenza di una
visione e di una politica mediterranea senza le quali la costruzione europea
manca ad un tempo di fondamenti e di prospettiva. Era sempre il Papa polacco
che celebrando il 10 settembre del 1983 i “Vespri d’Europa” nella Heldenplatz
di Vienna, proponeva un’Europa dall’Atlantico agli Urali, dal Mare del Nord al
Mediterraneo. Quel Mediterraneo negletto che ha strappato a Predrag Matvejevic
un’espressione sconsolata del tipo: “Dopo
la caduta del muro di Berlino è stata costruita un’Europa separata dalla ‘culla
dell’Europa’.”
Dobbiamo
ripercorrere un cammino a partire dalle “primavere arabe”, e dal loro spreco,
dall’affermazione di papa Francesco che è cominciata la terza guerra mondiale,
a capitoli e pezzetti… È in questo quadro che la crisi economica globale e la
vocazione dell’Unione Europea chiedono di essere ripensate insieme con uno
sguardo in grado di andare oltre le contingenze. Uno sguardo del quale si è
mostrato recentemente capace Gian Paolo Calchi Novati, in una conversazione al
Cespi di Sesto San Giovanni, proponendo una lunga riflessione a partire dal
centenario della Grande Guerra, che ha visto i potenti della terra pronunciare
all’unanimità un mea culpa postumo.
Resta il fatto che la guerra continua ad apparire la “sola arma a cui pensano i
governi e di cui apparentemente dispone la diplomazia”. Solo la Chiesa
cattolica e il Vaticano hanno mantenuto una sostanziale coerenza lungo la
traiettoria interpretativa che risale all’invettiva di Pio XI contro “l’inutile
strage”.
Non
fa solo sfoggio di ironia e Calchi Novati quando nota che “le crisi del Medio Oriente non soffrono per una mancata attenzione del
resto del mondo, ma per un eccesso di interferenze. Tipico, malgrado il luogo
comune corrente, è il caso della guerra civile in Siria”.
Centrale
risulta, non soltanto per l’analisi, il ruolo del Medio Oriente. Neppure
soltanto per ragioni di geopolitica che lo vedono al crocevia di tre
continenti, ma perché con esso si connettono in un senso o nell’altro le varie
cause globali: il jihadismo, l’energia, il riarmo nucleare.
Tre faglie
Tre
sono le faglie con le quali il Medio Oriente è costretto a misurarsi:
l’esplosione in un conflitto armato a tutto campo della storica scissione
all’interno dell’Islam fra la Sunna e la Shia. Un conflitto sottostimato nelle
sue ragioni per l’abitudine di una vulgata marxista spuria e filistea consueta
a ricondurre alle sole ragioni economiche i conflitti e la loro importanza.
Dimentichi come siamo in quanto europei non soltanto delle guerre di religione
che hanno caratterizzato l’ingresso dell’Europa nell’età moderna dopo la
Riforma, ma anche delle ragioni più profonde che hanno determinato il conflitto
nei Balcani Occidentali, abituandoci alla
dissoluzione di quella che oramai tutti chiamano ex Jugoslavia.
Dimentichi
anche che il settarismo in campo musulmano è stato rinfocolato dalla
rivoluzione khomeinista, e più in generale dalla diffusione dell’islamismo a
livello di politica come reazione agli insuccessi delle ideologie occidentali e
mondane.
Quelle
ideologie cui si sono ispirati i movimenti nazionali e lo stesso socialismo dei
Paesi in via di sviluppo, conosciuto sotto il nome di ba’th.
Messa
nel conto la circostanza che l’arabicità è stata via via soppiantata come
fattore di legittimazione dell’Islam, si può facilmente intendere come
l’islamismo si stia ponendo a livello globale in un rapporto che oscilla fra
istanze nazionali e transnazionali. I tentativi di riedizione di un nuovo
califfato poggiano infatti su questa spinta.
E
ancora, non è possibile sottovalutare l’importanza come fattore continuo di
crisi la controversia permanente Palestina-Israele. Una decolonizzazione
avvenuta a metà nei territori arabi che avevano fatto parte dell’Impero
Ottomano.
A
quasi mezzo secolo dalla guerra dei sei giorni e a più di vent’anni dagli
accordi di Oslo (il 13 settembre 1993 Rabin e Arafat si strinsero la mano in
una delle fotografie più note del Novecento), siamo tuttora confrontati con la
persistente occupazione di terre arabe da parte di Israele, e con i travagliati
processi di integrazione del Medio Oriente nel sistema globale.
E
pensare che proprio la politica estera italiana fu la più avvertita nei decenni
trascorsi intorno al tema del Mediterraneo. Gli incontri promossi a Firenze dal
sindaco Giorgio La Pira non furono infatti e non debbono essere considerati una
fuga in avanti.
Il
cautissimo Aldo Moro aveva l’abitudine di ripetere: non dobbiamo scegliere il
Mediterraneo dal momento che ci siamo in mezzo. E quella che può forse essere
considerata la personalità politica e imprenditoriale più propulsiva della
prima Repubblica, Enrico Mattei, fu in grado non solo di interloquire con i
governi mediorientali, ma anche di contribuire a creare in quei Paesi nuova
classe dirigente. Insomma l’Europa che si appresta ad accogliere migrazioni
bibliche di immigrati dovrebbe non essere smemorata del proprio passato
prossimo.
Le sorprese
Perfino
talune rilevazioni circa il Dna di questi Paesi risultano insieme sorprendenti
ed istruttive. Nella vicina Tunisia (11 milioni di abitanti) i rilievi sul
genoma della popolazione dicono di una popolazione composta per il 15% di
arabi, per il 35% di berberi, per il 30% di europei (circa il 25% di italiani)
e per il 20% di uomini provenienti dall’Africa Nera e dall’Egitto. Proprio l’impeto
delle ultime immigrazioni dovrebbe spingerci a consultare con più attenzione
gli studi di Le Goff relativi all’Europa. Furono i geografi greci a consegnare
agli uomini del medioevo europeo un bagaglio di cognizioni tuttora attuali. Nel
processo di cristianizzazione campeggia ovviamente Sant’Agostino. E prima di
lui Girolamo: la sua Bibbia latina si imporrà a tutto il medioevo. Le Confessioni agostiniane risulteranno un
modello per la soggettività europea. La Città
di Dio, testo scritto dopo il sacco di Roma di Alarico e dei suoi Goti nel
410 -un episodio che aveva terrorizzato le vecchie popolazioni romane e le
nuove popolazioni cristiane- dà conto dei timori e del terrore dello spirito
del tempo. Dopo Agostino, quelli che potremmo chiamare, sempre con Le Goff, i “fondatori culturali”: Boezio, al quale
il medioevo deve tutto quello che saprà di Aristotele fino alla metà del secolo
XII. La logica vetus. Quindi
Cassiodoro, Isidoro di Siviglia, Beda. Gregorio Magno, il grande riformatore.
Con il governo di vescovi e monaci si instaurerà in tutta Europa una nuova
misura del tempo e la riorganizzazione dello spazio, tali da tenere in conto le
trasformazioni operate da una quotidianità e da una convivenza caratterizzate
da meticciati molteplici.
L’Europa
dei guerrieri e dei contadini. L’Europa delle molte controversie, a partire da
quella intorno all’anno mille come data di partenza della cristianità
medievale.
Sono
Scandinavi, Ungheresi e Slavi a contribuire a quest’Europa meticcia. Con una
pace monitorata dalla Chiesa. Il medioevo dei cosiddetti “secoli bui” è infatti
corso da energie che attraversano molteplici accoglienze, vicinanze, confronti.
Il villaggio si raccoglie intorno alla chiesa e al cimitero. E sempre il
medioevo proverà a rafforzare anche i rapporti tra i vivi e i morti: tra il
mondo e l’altro mondo, perché i due mondi si tengono nel vissuto della
“comunione dei santi”.
Non
tutto è dunque inedito.(Ma bisognerebbe studiare.) E non ci stiamo provando per
la prima volta. Quali dunque i compiti di questa Europa?
Secondo
Romano Guardini l’Europa ha il compito della critica della potenza.
Quest’Europa che ha sul suo volto i segni del passato, ma negli occhi il futuro
dell’Angelus di Benjamin.
Tutto
concorre a dire, di fronte ai timori xenofobi e ai rigurgiti paurosi delle
piccole patrie, che non è logico dimenticare, soprattutto nella stagione della
globalizzazione, l’ammonimento minimalista di Jean Monnet: i Paesi europei sono
troppo piccoli per garantire ai loro popoli la prosperità e lo sviluppo necessari,
e devono costituirsi in una federazione.
Devono
cioè tessere la tela di una cittadinanza reale all’altezza di se stessi e della
stagione storica attraversata dalle sfide della globalizzazione: vedi caso, il
sogno e il progetto di Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. Aveva anche
ragione William Penn: il cittadino per essere tale deve avere di fronte un
governo. Vale per gli 82 milioni di tedeschi, i 63 milioni di francesi,i 62
milioni di britannici, i 60 milioni di italiani. E per tutti gli altri.
La
strada è tutto sommato segnata. Occorrono la voglia e il coraggio di
percorrerla.