Sulla
rappresentanza
di Giovanni Bianchi
Gestire o comunicare?
Stephen
Hawking, il più famoso scienziato del mondo, vuoi per essere netto, vuoi per
stupire, ha detto in un’intervista: “Credo
che la sopravvivenza della specie umana dipenderà dalla sua capacità di vivere
in altri luoghi dell’universo, perché il rischio che un disastro distrugga la
Terra è grande”.
In
effetti intere generazioni già vivono in un mondo che non è più il loro. La mia
tra queste. Si tratta dei reduci del Novecento, affaticati da un problema che
costituisce il congedo dal secolo alle nostre spalle. Un secolo per il quale
sembra più facile la rimozione che il congedo. Le contraddizioni infatti ed
anche le aporie del Novecento restano tuttora in attesa del buon scriba in
grado di discernere cose buone e cose meno buone. Perché, come ci ha insegnato
Le Goff, la storia dipende dalle domande che le rivolgiamo. E una delle domande
centrali è quanto sia cambiata la politica.
Surfare – il nuovo verbo coniato dalle giovani
sociologhe americane – è infatti la metafora (ovviamente veloce) in grado di
dare conto del ritmo e della natura delle politiche in atto. Indica l'atto di
chi su una tavoletta sa stare in equilibrio sulle immense onde dell'oceano. Né
può ad un reduce del cattolicesimo democratico (il sottoscritto) sfuggire in
proposito il riproporsi di alcuni stilemi e qualche reminiscenza (inconscia) di
un italico marinettismo di quasi un secolo fa. Ma continuiamo a viaggiare per
metafore con l'intento di sistemarle all'interno di un puzzle che aiuti a
costruire una improbabile mappa delle politiche odierne e i suoi cartelli
indicatori. Volendo quindi dare a ciascuno il suo, è opportuno ricordare che la
metafora "società liquida" discende da Zygmunt Bauman. Che alla
società liquida corrisponde la politica senza fondamenti (Mario Tronti),
populismi ed ex-popoli compresi. E perfino la cosiddetta anti-politica, il cui
confine con la politica è da sempre poroso, ossia percorribile nei due sensi:
dalla politica all’antipolitica e dall’anti alla politica (Hannah Arendt).
Si
può anche utilmente aggiungere che alla società liquida fanno riferimento i
partiti "gassosi" (Cacciari) e che ai partiti gassosi corrisponde il
dispiegarsi di politiche in confezione pubblicitaria, nel senso che evitano la
critica del prodotto da piazzare ed hanno progressivamente sostituito la
propaganda politica di un tempo per veicolare il messaggio pubblicitario utile
a suscitare non tanto senso di appartenenza, quanto piuttosto un'emozione imparentata con il tifo
sportivo (Ilvo Diamanti).
Quel
che dunque manca in queste politiche è soprattutto un punto di vista dal quale osservare la realtà, anche se ci
imbattiamo in una condizione inedita nella quale i conti prima che con la realtà
vanno fatti con la sua rappresentazione.
La rappresentazione cioè ha sussunto in sé il mondo intero e le politiche
chiamate a descriverlo, e sempre meno a cambiarlo.
Ma
sarebbe fuori strada chi pensasse che il problema sia soltanto e essenzialmente
teorico. È invece anzitutto, come sempre quando si parla di politica, un problema urgentemente pratico. Ha
ragione papa Francesco quando afferma che i fatti valgono più delle idee.
Dostoevskij nell’Idiota sostiene a
sua volta: "Ci si lamenta di
continuo che in questo paese manchino gli uomini pratici. Di politici, invece,
ce ne sono molti".
Come
sempre l'ironia aiuta e svolge una preliminare funzione abrasiva, anche se è
sempre papa Francesco ad avvertirci di evitare l'eccesso diagnostico, perché anche di sola diagnosi si muore.
Riusciamo a prescriverci ogni volta, dopo la diagnosi, almeno un'aspirina?
Come
affrontare il tema con uno sguardo non congiunturale?
Questa
politica ha questa “leggerezza” perché il capitalismo finanziario e
consumistico sta portando a termine la trasformazione del mondo come propria
rappresentazione: un'operazione impressionante, e comunque da capire. Non ci
chiediamo se il Paese sia vivibile (e come) o più giusto, ma come possa essere
competitivo e politicamente scalabile. Il cittadino al quale questa politica si
rivolge è sempre più un consumatore e come tale vede, ascolta e si comporta. Lo
sguardo di una critica puntuale viene così escluso, per cui quello che il
Sessantotto chiamava con la grossa Minerva “il sistema”, viene generalmente
accettato come naturale, come naturali restano il Cervino e Portofino e
Taormina. La politica postmoderna è tale perché anche le ultime radici vengono
strappate. Tutta la politica italiana è oramai senza fondamenti, non solo Beppe
Grillo e Casaleggio.
Per
molti versi la comunicazione ha sostituito la gestione. E la comunicazione
deve, in sé e per sé, rendersi attraente per piazzare il prodotto politico che
propone. Per questo fa sorridere gli showman odierni un’affermazione come
quella di De Gasperi, il nostro più grande statista repubblicano, per il quale un politico dovrebbe promettere ogni volta
un po’ meno di quel che è sicuro di mantenere…
Non
ci siamo proprio: la comunicazione, che deve stupire, attrarre, motivare, non
ha tempo per queste sottigliezze etiche, e quindi ogni volta propone
esattamente il contrario di quel che De Gasperi pensava dovesse essere
politicamente proposto. Non di rado sfiorando la smemoratezza
dell’interlocutore e il voltafaccia di chi propone.
Il suicidio delle culture
Tutto
il riformismo col quale ci stiamo confrontando parte dalla confusa
consapevolezza di questa condizione, ossia parte da una obiettiva ottica di
competitività costretta a considerare immodificabili, grosso modo, le regole
del gioco reale. Quelle che stanno dietro la rappresentazione e la determinano.
Le
regole del gioco le detta cioè lo statuto vincente del capitalismo globale,
finanziario e consumistico. È così, per tutti e dovunque, piaccia o non
piaccia. Era così perfino nel Vaticano di papa Benedetto. Prendere una distanza
critica rispetto a questo quadro significa "gufare".
Allo
stesso modo non esistono più i libri: esistono e-book e instant-book. Non si
tratta più di fare pubblicità al libro; il libro vale la pena di essere
pubblicato se ha buone possibilità di essere venduto. E tu vendi il libro se
sei presente e conosciuto nel mondo pubblicitario. È la pubblicità dell'autore
che legittima il libro, non la bellezza delle pagine, e non la statura
dell'autore che legittimano la pubblicità e quindi la vendita. È il segno di
una "civiltà" e della sua cultura. È la rappresentazione che
garantisce la natura del mondo, non viceversa. E più di un esperto si è spinto
a dire che la politica è chiamata a governare le emozioni degli elettori, non i
problemi dei cittadini. Siamo ancora una volta all'ostracizzato, e da me invece
citatissimo, mantra del Manifesto del 1848: Tutto
ciò che è solido si dissolve nell'aria. Anzi, si è dissolto. E noi ne
contempliamo la rappresentazione. Anzi, la viviamo.
Viviamo
tra macerie scintillanti e ologrammi che camminano e manifestano sulla piazza
di Madrid. La rappresentazione globale infatti
svela la dissoluzione delle vecchie culture politiche, e quindi le rende
inefficaci, zoppicanti, fastidiose al grande pubblico, impresentabili. Nessuno
le ha uccise. Ha ragione Toynbee: si sono suicidate. La fine della politica non
è ancora decretata, ma ha cessato d'essere un'ipotesi di scuola. Il
"primato della politica" è invece defunto, per tutti. Anche se
vigorosi reduci in carica paiono non essersene accorti. E la tardiva pietà
degli ultimi intellettuali italiani prova ad abbinare nel compianto la tomba
della socialdemocrazia con quella del cattolicesimo democratico.
Intorno
al primato della politica si raccoglievano tutte le culture del Novecento e
tutto l'arco costituzionale del nostro Paese. Tangentopoli più che una
corruzione inguardabile è una sepoltura malinconica, che manda l’odore del
cadavere di Lazzaro prima della resurrezione. C'è in giro ancora qualche
richiamo della foresta, ma le foreste non ci sono più, per nessuno.
Le ragioni della
governabilità
Il
tema più urgente ma anche più ostico da affrontare è quello della
rappresentanza, che non a caso si colloca tra le trasformazioni del sociale e
la decadenza delle istituzioni. Un ruolo che diventa drammatico in un Paese
come il nostro che vive di emergenze, le quali si succedono a ritmo convulso
sull’onda di un lungo e apparentemente placido trasformismo.
Un
trasformismo peraltro che non vive soltanto delle proprie inerzie, ma anche di
una incredibile capacità di trasformazione: per cui le riforme in qualche modo
avvengono, ma costantemente fuori progetto e per così dire fuori programma.
Questo impedisce al Paese di uscire definitivamente dalle secche di una
navigazione preoccupata e pasticciona, ma nel contempo riesce ad evitare di
esporlo a rischi letali. Per questo si è diffusa l’idea che l’Italia ogni volta
ricominci la corsa dopo l’ultima Caporetto.
A
dirigere il traffico in tanta nebbia e confusione è da ultimo il principio di
governabilità. Usato talvolta come una clava, dal momento che la governabilità
non è pensata in termini di sviluppo coerente con la democrazia repubblicana,
ma viene esercitata ogni volta “a risparmio di democrazia”, producendo di fatto
un’antitesi nella polarità governaabilità/democrazia, e quindi diffondendo
l’idea tra i cittadini che la democrazia così come è stata fin qui vissuta
risulti uno spreco. Anche la vulgata, che racconta che negli ultimi decenni
avremmo vissuto troppo al di sopra delle nostre possibilità, contribuisce a
riprodurre questa distanza e questa sfiducia nei confronti della democrazia
post-resistenziale.
La
stessa rimozione di Berlusconi dal governo operata dal presidente della
Repubblica Giorgio Napolitano muove nella logica e nell’orizzonte di questa
governabilità: si rimanda a casa l’incapace Berlusconi, che aveva ottenuto alle
elezioni 18 milioni di voti. Il Paese accetta la situazione e anche gli
elettori di Forza Italia si ritrovano tutto sommato dentro lo schema che
punisce il loro leader: anche il loro cuore batte dalla parte della
governabilità – per impulso berlusconiano – piuttosto che da quella della
democrazia.
E’
in questo quadro di condivisione di un senso comune che affiora nel Paese e nel
suo corpo sociale che si allarga ed emerge quella che è stata chiamata
(Emanuele Ferragina) la “maggioranza invisibile”: in termini macro, 4 milioni
di precari, 3 milioni di disoccupati, 11 milioni di pensionati. Un tessuto
sociale non riconducibile ai classici schemi di classe, ma che rimanda
all’estendersi di un tessuto di classe media impoverita, e fortemente
impoverita.
I
“trenta gloriosi” restano definitivamente alle spalle, mentre nella percezione
ideologica e nel senso comune, così come nei programmi scolastici, continua a
funzionare l’idea di un progresso e di una promozione sociale così come si
presentavano nella stagione del boom economico e nella generalizzazione
dell’attesa di una ascesa sociale alla portata dei più.
A
questo punto le sociologie asservite alla logica dominante del pensiero unico
(che è quella generale del turbocapitalismo globale, che esalta le
disuguaglianze, ed è quella in termini sistemici e sottosistemici codificata da
Niklas Luhmann) introducono come discriminante, fuorviante, la categoria del
giovanilismo. Alla generazione spetta il compito di occultare e legittimare le
ragioni economiche delle disuguaglianze crescenti.
Ovviamente,
per capirne di più, è necessario accompagnare l’analisi economica e sociologica
con quella storica. Fare i conti cioè con la fine del fordismo e con l’avvento
in Italia del neoliberismo nel biennio 1990 – 1992. Anni nei quali anche nel
nostro Paese l’economia viene sottratta al controllo dello Stato, in sintonia
con quanto avviene a livello europeo con il trattato di Maastricht. Dove la
logica colpisce con più mirata attenzione è nel mondo del lavoro, quando nel
1997 il cosiddetto “pacchetto Treu” apre più decisamente a una
flessibilizzazione del mercato del lavoro, in seguito perfezionata dalla legge
Biagi, che potrebbe essere anche firmata come legge Sacconi.
Rispetto
a queste scelte decisamente strutturali, i governi, i loro programmi, le
campagne pubblicitarie hanno il compito di intrattenere la platea dei
cittadini- consumatori (sempre più consumatori e sempre meno cittadini)
proponendo loro le coperture legittimatrici della democrazia mediatica. Nel
frattempo hanno luogo le esequie silenziose della socialdemocrazia e del suo
analogo cattolico-democratico. Entrano in agonia i sindacati, che scelgono l’arrocco:
difendere cioè chi ha la tessera – la maggioranza pensionati – rispetto a
quanti cercano di sopravvivere, ovviamente giovani, nel mare infido dei diversi
precariati.
È
infatti a partire dagli anni Novanta che le classi medie vedono aprirsi al loro
interno una divaricazione: una piccola parte si accoda ai ceti più ricchi,
mentre la gran parte si impoverisce, diventando limitrofa a quelle che papa
Francesco definirà “periferie esistenziali”. Sopra tutto questo prova a
stendere un velo pietoso e pubblicitario la “terza via” blairiana, che anche
tra noi trova estimatori e seguaci. È questa condizione che viene rappresentata
elettoralmente dalle elezioni del 2013,
con il 56% dei precari che votano Grillo. E infatti la performance renziana non
va oltre il numero di voti assoluti conquistati da Walter Veltroni in gara con
Berlusconi. È questa una rapida fotografia che ci consegna il problema di come
pensare una politica in grado di ricostituire le ragioni di una rappresentanza
democratica.
Il tema del potere
Una
ricerca che non dovrebbe essere fatta a prescindere dal ruolo del potere: dove
sta, e come può essere affrontato. Dov’è finito il potere e dove è finita la
democrazia.
Bisognerà
tornare sull’argomento con gli strumenti della teologia politica tedesca, assai
più raffinati di quelli italiani. Per ora è utile osservare che la fine dei
partiti distrugge in Italia la figura del “militante politico”, cui si
sostituisce progressivamente il “volontario”. E le crisi che non a caso
attraversano in questa fase il mondo del volontariato possono insieme alludere
ai suoi rischi di decadenza, come ad inedite potenzialità di sviluppo.
Può
servire la metafora riassuntiva proposta da papa Bergoglio nell’enciclica Laudato Si’: la metafora della casa comune, che raccoglie e supera
quella dei beni comuni. Fare casa
comune
–pare suggerire la logica del Papa– è
possibile a partire dalle periferie esistenziali, confrontandosi con le lobby
di potere. Non è una sostituzione del Cristo
povero al Cristo eterno, né
significa procedere sulla strada dell’immanentizzazione del cristianesimo: la
via per giungere al Cristo eterno è quella del Cristo povero. I Vangeli sono
univoci in tal senso, e Simone Weil non a caso ricordava che questa
terra è l’unico luogo che ci è dato per la nostra testimonianza.
I conti con il
cattolicesimo democratico
Dopo
questa ricognizione troppo rapida diventa possibile rifare i conti con passato
e futuro del cattolicesimo democratico. A partire da una discontinuità: quella
prodotta da papa Francesco, che indica il superamento concreto della dicotomia, già accennata, tra il Cristo povero e il
Cristo eterno. Siamo cioè ricondotti alla parabola del Buon Samaritano (Luca
10, 25-37). Un programma stilato duemila anni fa. Il dilemma, che non è
soltanto di Eugenio Scalfari, verte sul rapporto tra cristianesimo e illuminismo. In nome di esso ci si chiede se
sia “politico” papa Francesco, e se lo sia in particolare quando si batte
contro il potere temporale della Chiesa. Torna utile ribadire che politica e
potere non coincidono. Emanuele Severino è stato il più preciso in Italia: non
noi riprendiamo il potere, ma i poteri prendono noi.
Va
ancora ribadito che il confine tra politico e
impolitico è un confine poroso, ossia attraversabile nei due sensi: ciò
che è politico può diventare impolitico, e ciò che è anti può diventare
politico (Hannah Arendt). Rispunta il
grande Hegel: sempre la politica nasce da quel che politico non è. Insomma,
siamo comunque confrontati, in particolare con le posizioni di papa Francesco, con
il problema di una nuova laicità. Non soltanto perché Chiesa e Stato si
contendono da tempo lo spazio della coscienza e quello pubblico, ma soprattutto
perché sono le condizioni della quotidianità a spostare il confine.
Anche
in questo caso lo sguardo storico può aiutare. Quando e su che cosa il mondo
cattolico rompe con il fascismo? Sulle leggi razziali e sul primato educativo:
la Chiesa cattolica finalmente si schiera e prende le distanze da una deriva,
anche interna, che aveva fin lì equivocato sui Patti Lateranensi. Magistrale in
questo senso l’intervento sulla cultura democratica e l’opinione cattolica
svolto da Dossetti nel “testamento” di Pordenone del 2004.
Si
tratta di valutare seriamente, e perfino nei dettagli, l’utilità della
tradizione cattolico democratica in vista della creazione di un nuovo “punto di
vista”; un punto di vista che può anche implicare un patto generazionale tra
antichi reduci e nuovi politici.
Giorgio
Campanini nella sua diagnosi prova a legittimare la lunga marcia del cattolicesimo
democratico verso sinistra, a partire dagli abbès
démocrates francesi e da Tocqueville. Non omette Campanini di menzionare i
radiomessaggi di Pio XII e la solerte e intelligente divulgazione fattane da
Guido Gonella. Indi il Codice di Camaldoli e la Costituzione Repubblicana, la
tragedia di Aldo Moro, la permanente esclusione del Pci dal potere.
Si
tratta cioè di “non solo riconoscere, ma lealmente rispettare le diversità senza demonizzare le differenze”.
Per
Guido Formigoni si tratta anzitutto di precisare i termini, di rivalutare il
ruolo della Dc insieme all’impegno sociale e politico dei credenti, senza
ridurre il cattolicesimo democratico a un piccolo gruppo di intellettuali
autodefinitisi tali. Così pure non vanno dimenticati gli sforzi di rinnovamento
e le metamorfosi della Democrazia Cristiana, la “ricomposizione” proposta da
padre Bartolomeo Sorge dell’area cattolica, la fine del cosiddetto prepolitico, Le numerose riviste
prodotte da gruppi intellettuali differenziati, il cattolicesimo sociale
“radicalizzato sulle questioni della pace e della povertà”. Si aggiungano la
grande esperienza nazionale dell’Ulivo e la fondazione del PD (2007). Quindi il
ruolo dello ruinismo e la controffensiva
nei confronti della secolarizzazione operata dal Papa polacco, mentre i vescovi
italiani assumevano in proprio il compito della mediazione. Per Pier Luigi
Castagnetti si tratta di porsi coraggiosamente la domanda se abbia ancora un
senso parlare di cattolicesimo democratico. In particolare quando ci si confronta
con questi partiti à la carte. Sempre
secondo Castagnetti: “Non si può parlare dunque della dissipazione di
un’esperienza, ma della avvenuta re-invenzione di una modalità di presenza in
un tempo storico profondamente cambiato”. Per la storica Daniela Saresella non
va dimenticato nella ricostruzione storica che il primo cattolico democratico
si chiama Romolo Murri, scomunicato prima come modernista e poi personalmente
(1909). E quindi eletto nelle liste del
Partito Radicale. Né vanno omessi i dialoghi Murri/ Turati. L’attenzione
per la questione sociale e il mondo socialista, che pone con forza la questione
della laicità. Lo stesso Luigi Sturzo scrive sulle riviste di Murri. Murri poi
diventa fascista confondendo il proprio itinerario spirituale con quello del
fascismo. Neppure vanno consegnate all’oblio polemiche più recenti come quelle
sul referendum del 1974, e quelle successive condotte dagli organi di stampa di
CL con gli articoli di Fontolan e Socci. Il 1980 è l’anno dell’uccisione di
Piersanti Mattarella, mentre il 1990 vede il siciliano Leoluca Orlando fondare la Rete. L’equivoco persistente è
rappresentato dall’unità politica dei cattolici. Ragione per la quale l’Ulivo
risulta la migliore esperienza del cattolicesimo democratico. Secondo Savino
Pezzotta va dedicata maggiore attenzione alla riflessione sull’economia
odierna. Come pure va ricordato che il cristianesimo è il generatore della
secolarizzazione, non l’altro rispetto alla secolarizzazione medesima.
Frattanto
il governo è diventato l’unico miraggio comune a tutte le culture del fare politica. Ad essere
conseguentemente abbandonata la tensione
alla rappresentanza. Circostanza che obbliga a interrogarsi sulla natura dei
processi democratici nazionali.
Mentre
è finito il tempo dei movimenti, la politica sindacale si è trasformata in
politica di adattamento alla fase. Ci
imbattiamo in una grande indifferenza rispetto al tema delle disuguaglianze.
Per cui il problema diventa sempre più come resistere alla mercatizzazione
della società, che è anche mercatizzazione del lavoro. Nel quadro di un
capitalismo che è sempre più cognitivo che economico. E senza dimenticare che
distruggere il sindacato significa comunque distruggere un modello di società.
Come pure intervenire con il piccone su quei “corpi intermedi” – secondo il
lessico della dottrina sociale della Chiesa – che risultano soggetti mutevoli
ma non eliminabili della partecipazione dal basso e garanzia di sussidiarietà.
Dobbiamo anche chiederci se sia possibile parlare di ispirazione cristiana in
una società multietnica e multireligiosa.
Ritorna
il tema del che fare. E probabilmente sarà utile cominciare a fare le “piccole
cose”.