di
Gabriele Scaramuzza
Antonia Pozzi |
Dobbiamo innanzitutto esser grati a Graziella
Bernabò e a Onorina Dino - a tuttora le più accreditate studiose del mondo di
Antonia Pozzi (di cui hanno pubblicato i diari e le lettere) - per averci
donato questa nuova, snella e significativa antologia. Essa segna un percorso
personale entro l’universo pozziano, raccoglie il senso di una lunga, attenta e
fruttuosa frequentazione di esso, ne enuclea un senso con cui tutti noi,
ammiratori di Antonia, o anche solo interessati a lei, dovremo confrontarci. In
questo contesto non è da passare sotto silenzio che alle autrici della nostra
antologia non è mancata l’attenzione alle fotografie in cui Antonia si è
espressa, accuratamente studiate, raccolte e rese pubbliche da Ludovica
Pellegatta: Nelle immagini l’anima. Antologia fotografica (Àncora, 2017);
lo scorso 2018, poi, il Centro Insubrico ha edito l’album fotografico 1938.
Primo album, a cura e con contributi di Marina Lazzari, Carlo Meazza e
Fabio Minazzi. Aggiungo con l’occasione che in questi giorni, come mi ha
riferito appunto Fabio Minazzi, è apparsa una nuova traduzione spagnola delle
poesie della Pozzi; preceduta qualche mese fa da un’edizione argentina de La
vida sonada apparsa nella collana La Sofia cartonera promossa dall’università
di Cordoba. Quanto all’edizione spagnola: Antonia Pozzi, Poemas elegidos,
Prologo de Fabio Minazzi, traduccion de Raquel Vicedo y Manuel Astur, Colleccion
Mitades de una gota, Somos Libros, Madris 2019 ISBN 978-84-120754-2-7. Sono
pubblicate alcune poesie della Pozzi, con il testo in spagnolo a fronte,
insieme ad alcune sue foto e ad alcuni suoi manoscritti. L’effetto complessivo,
mi assicura Fabio Minazzi, è “editorialmente molto bello e commovente”. La
scelta di Graziella Bernabò e Onorina Dino – come la loro Introduzione
chiarisce benissimo - ripercorre l’intero arco della produzione pozziana, in
senso vuoi cronologico (dall’adolescenza alla tragica scomparsa) vuoi tematico:
in una linea che va da affettiva a esistenziale, da socialmente avvertita a
metapoetica, da paesaggistica (e attiva in particolare nel suo amore per le
montagne, oggetto di studio da parte di Marco Della Torre) a storico-politica,
a squisitamente letteraria. Giustamente si evidenzia che alla “riscoperta”
della personalità e della scrittura di Antonia, al suo “straordinario successo
postumo”, ha fortemente contribuito la “rivalutazione della creatività delle
donne” verso la fine degli anni Ottanta. Nel primo risvolto di copertina troviamo
un’efficace sintesi del percorso culturale di Antonia, riflesso nell’antologia;
vale la pena riprenderla: “Estranei ai canoni letterari degli anni Venti e
Trenta, questi versi restituiscono, in un linguaggio tanto calibrato quanto
limpido e comunicativo, l’identità appassionata di una giovane donna
costantemente protesa a un raccordo autentico e libero con la vita, con il
mondo e con la scrittura. Muovendosi in modo originale tra realtà e visione,
Antonia Pozzi resta fedele a una concreta, e spesso difficile, esperienza
personale, ma si apre nello stesso tempo alle profondità del cuore umano e
all’essenza delle ‘cose sorelle’, alla bellezza salvifica della natura come
alla desolazione delle periferie milanesi e alle tragedie della storia. La sua
è una poesia di ampio respiro che coinvolge i lettori in un dialogo
straordinariamente attuale”. E ora due parole circa il titolo, che a tutta
prima com’è ovvio colpisce. Devo qui confessare che A cuore scalzo ha
suscitato qualche perplessità in me. Riprende un verso di Antonia, è vero, come
del resto quasi sempre i titoli delle opere a lei dedicate. Volendo
esemplificare: Per troppa vita che ho nel sangue di Graziella Bernabò, L’infinita
speranza di un ritorno di Fulvio Papi, ripreso nell’omonima
rappresentazione teatrale di Elisabetta Vergani; In riva alla vita di
Alessandra Cenni; Poesia mi confesso con te, raccolta curata da Onorina
Dino. Altre antologie con diversi titoli sono disponibili, e seguono altri
percorsi, diversi ma pur sempre degni di considerazione: innanzitutto quella
curata, e tradotta splendidamente in tedesco, da Gabriella Rovagnati: Parole/Worte
(ed. Wallstein, Göttingen, 2008); e anche Desiderio di cose leggere, a
cura di Elisabetta Vergani e con prefazione di Eugenio Borgna (ed. Salani,
Milano, 2018); di recente è infine uscita Mia Vita cara (edita da
Interno Poesia), curata da Elisa Ruotolo. Contestualmente è
da sottolineare che, nelle opinioni che si possono avere circa i titoli, in
gioco non è affatto un giudizio sui versi pozziani ripresi, quanto piuttosto la
loro estrapolazione come titoli. Il verso che dà nome al titolo lascia a mio avviso
risuonare in sé armonici di “spontaneità”, di chiarezza e di sincerità, di
immediatezza tutta “femminile”; rasenta quei toni da “poesia di sfogo, fatta di
sola confidenza e di sole effusioni” - che già Eugenio Montale nel 1948 vedeva
incombenti, anche se superati, nella poesia di Antonia Pozzi. Il rischio è,
ancora, di lasciare ai margini gli aspetti più inquietanti, scabrosi, degli
scritti pozziani, la loro sensibilità per le zone d’ombra e le ambivalenze che
a ogni vivere si accompagnano - e di trasmettercene con ciò un’immagine che non
rende ragione della complessità e della varietà di sfumature del pensiero
pozziano. “Pensiero”, propriamente, senza dubbio attivo anche nei versi, dato che
li innerva e in essi si esprime. Il titolo, tuttavia, incorrerebbe nei rischi
di cui s’è detto se non si ponesse mente al fatto che A cuore scalzo è
un verso tratto da una delle ultime poesie (datata 27 gennaio 1938) di Antonia:
Luci libere - inclusa da Elisabetta Vergani, ma non da Gabriella
Rovagnati nelle loro scelte, ma riportata non a caso (nella sua originaria
versione manoscritta) nella quarta di copertina della nostra antologia. Poesia
non semplice, ossimorica a tratti, e che sicuramente riflette le estreme
inquietudini dei lunghi mesi che precedono, e preparano, il suicidio. Si deve
tener presente infatti che A cuore scalzo è seguito da e con laceri
pesi di gioia, dove i termini “laceri pesi” inibiscono la libera luce della
gioia. Il verso è certamente giustificato nel contesto della poesia; ma, isolato nel titolo dell’antologia, suona piuttosto problematico, almeno nella mia
ottica. La contestualizzazione, per altro verso, è indispensabile per
comprendere appieno ogni evento, culturale o meno. Ma
di tutto sono possibili contestualizzazioni, e questo non giustifica senza residui ogni interpretazione
e ogni scelta;
nella fattispecie esse poco tolgono alla sostanza vissuta, da un
lettore, di un titolo. Non
tolgono in questo caso che proprio quel verso sia stato scelto, e con esso si
sia privilegiata un’immagine di Antonia. Non a caso nell’antologia qui in causa,
oltre a trovarvi tante poesie che amo, non ritrovo poesie a me care quali Amor
fati (del 13 maggio 1937). Una complessa e tormentata poesia, su cui si è
molto discusso nel marzo di quest’anno tra Tiziana Altea, Graziella Bernabò,
Fulvio Papi e Gabriella Rovagnati e me. Neppure Elisabetta Vergani del resto la
include in Desiderio di cose leggere; Gabriella Rovagnati la traduce
invece nella Parole/Worte. “Amor fati” risuona infine in un
significativo scritto di Ludovica Pellegatta: “Antonia Pozzi e la fotografia: Amor
fati.” La poesia è molto breve, e la si può facilmente citare:
“Quando dal mio buio traboccherai / di schianto / in una cascata / di sangue -
/ navigherò con una rossa vela / per orridi silenzi / ai cratèri / della luce
promessa”. Graziella Bernabò la definisce enigmatica, la associa a un’altra
poesia pozziana, Pan (neppure essa peraltro inclusa nell’antologia). Amor
fati (ma credo anche altre poesie pozziane) può conciliarsi con l’a
cuore scalzo del titolo? ha qualcosa di conturbante, di “enigmatico”
appunto, che contrasta ogni franca immediatezza. Non riflette anch’esso
qualcosa di costitutivo della personalità, e dei versi, di Antonia? Queste le mie impressioni personali, dovute a una
frequentazione non specialistica, parziale, degli scritti di Antonia.
Ma ci sono motivi di fondo che mi hanno legato a lei, e tuttora restano
indimenticabili: soprattutto motivi problematici, che mettono in discussione
non poco dell’ambiente banfiano; la mia frequentazione
dunque non è immotivata, nell’ambito dei miei interessi per quella che si
chiama “Scuola di Milano”. In essa la figura della Pozzi si staglia con un suo ruolo
imprescindibile, agendo da cartina di tornasole in riferimento agli aspetti più
sintomatici e discutibili (cui di rado si dà evidenza) del mondo in cui operò. Non
è da sottacere infine che questa mia recensione si è costruita, infine, in
dialogo con Tiziana Altea, profonda conoscitrice dell’universo pozziano, verso
cui ho molta stima: mi ha offerto spunti che completano, ma anche contraddicono,
i miei. Che non li hanno invalidati, ai miei occhi; ma contribuiscono a leggerli
con più equilibrio. Li riporterò qui più avanti. Voglio tuttavia farli
precedere dalle
considerazioni che in seguito mi ha offerto Graziella Bernabò, indispensabili a
chiarire meglio il discorso. Mi è grato riportarle: “C’è stata l’incertezza tra
il titolo scelto e Luci libere. La casa editrice ha preferito il primo,
e devo dire che la cosa non mi è dispiaciuta perché in questo titolo non c’è
soltanto metaforicamente l’anima di Antonia (il “cuore”), ma anche il
corpo, la fisicità (anticipo di tanta poesia, non solo delle donne, del secondo
Novecento), e non una fisicità generica (“scalzo” rimanda ai piedi, a una
parte del corpo, se vogliamo, molto semplice, non serafica, dunque
non da poesia di signorine). L’insieme della poesia, non a caso collocata in
quarta di copertina, fa sentire Antonia “corpo vivo” tra gli altri “corpi
vivi”, di fronte ai quali si pone in un atteggiamento di ascolto
e di totale empatia. La poesia è poi da leggere in combinazione
con Periferia e Via dei Cinquecento. Amor fati è una
poesia interessante, ma tra questa (che nel titolo richiamava letteralmente
Nietzsche e sarebbe stata, come ben sappiamo, di complessa e non univoca
interpretazione) e quella immediatamente successiva, Bambino morente, abbiamo
preferito la seconda (non inserita nelle antologie di Gabriella Rovagnati e di
Elisabetta Vergani), che a me personalmente ricorda piuttosto la tragicità
delle varie versioni di La Morte nella stanza dell’ammalata di
Munch (pittore peraltro non presente ad Antonia Pozzi), attestando
nel contempo la sua empatia verso l’altro da sé:
dietro la poesia c’è un fatto reale a cui ebbe ad assistere Antonia stessa.
Nell’ottica di una maturazione umana, civile e perfino in qualche modo
politica, dell’ultima Pozzi abbiamo poi inserito un’altra poesia del 1937 di
forte impatto espressionistico, La Terra, assente nelle
suddette antologie. Il 1937 è presente in A cuore scalzo anche con altre
poesie; e noi nell’antologia dovevamo rappresentare tutte le varie fasi
della produzione pozziana.
Convengo che la poesia di Antonia Pozzi non deve
apparire effusiva. Proprio per questo abbiamo lasciato poco spazio a un certo
suo simbolismo crepuscolare, rendendo in fondo più severa la scelta rispetto ad
altre antologie. Purtroppo lo spazio a disposizione era veramente poco,
considerando anche l’introduzione e la cronologia. E, d’altra parte, noi
avevamo pubblicato l’edizione integrale di Parole, a cui
indirizziamo naturalmente un pubblico già iniziato alla poesia pozziana”. E veniamo infine alle notazioni di Tiziana Altea. Riportarle
qui mi sembra non solo giusto, ma anche giovevole per ogni lettore di A
cuore scalzo - che potrà poi su questa base farsi un’idea personale più ragionata.
Resta d’altronde che una lettura convincente di ogni poesia può nascere solo da
un vivo dialogo tra diversi, e non da un tener indiscutibilmente
(dogmaticamente) ferma una propria tesi.
“Rispetto
al titolo, le offro un'altra lettura. Quel “a cuore scalzo” non inficia la
personalità complessa e sfaccettata di Antonia, a mio avviso. Rappresenta
semmai un anelito, una tensione di Antonia, un suo desiderio che si capisce non
si avvererà. E sta qui la potenza di questo verso. Rafforzato poi dal seguente “e
con laceri pesi / di gioia”. La grandezza poetica sta anche in questa
semplicità apparente che vela, senza nascondere, tutta l’inquietudine. Le
chiedo: e se fosse proprio questo “cuore scalzo” a volere l’“amor fati”? Un
cuore radicale, che non vuole suole, con tutto quello che ciò comporta:
leggerezza e libertà da un lato, lacerazione della pelle/carne dall’altro.
L’importante è il contatto diretto, il non avere filtri, il potersi perdere
nella “danza / di un vecchio organo”. C’è insieme molta spiritualità e molta
fisicità in questa poesia, grazie proprio a questo ‘cuore scalzo’: in esso la
grazia e la potenza di un orizzonte che non si può raggiungere. La poesia è
come se fosse scissa in due, con la seconda parte più fissata sulle mancanze. Amor
Fati non c’è in questa antologia che, in quanto tale, è una selezione.
Ci sta. Ma allora le domando: qual è il filo rosso che attraversa questa
raccolta, secondo lei?”
“Il filo
rosso” dunque: provo a rispondere. Questo filo per me è dato dal trascorrere
delle poesie di Antonia tra temi e toni diversi, che l‘introduzione
all’antologia e il modo in cui è costruita rendono bene. Ma è dato inoltre dalla
sua aperta sensibilità, dalla profonda curiosità verso tutto quanto la circonda
- rende bene il titolo un simile trascorrere? Ma “il filo” è insieme dato dal
mantener tuttavia fermo e vivo in tutto quel “trascorrere” una tensione etica
ed esistenziale che la salva, e che il titolo, questo sì, non nasconde.
Antonia
Pozzi
A
cuore scalzo. Poesie scelte (1929-1938)
a
cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino
Ed.
Ancora, Milano, 2019; pp. 128, € 12.
Il volume è pubblicato col patrocinio del “Centro
Internazionale Insubrico ’Carlo Cattaneo’ e ‘Giulio Preti’ per la Filosofia,
l’Epistemologia, le Scienze cognitive de la Storia delle Scienze e delle
Tecniche” dell’Università degli Studi dell’Insubria -Varese.