di
Fulvio Papi
Nicholas
Stargardt è uno storico oxoniense la cui specializzazione è la storia tedesca,
in particolare il periodo nazista. L’ultimo suo lavoro La guerra tedesca. Una nazione sotto le
armi 1939-1945, è stato pubblicato nel
2015 ora tradotto dall’editore Neri Pozza. Si tratta di un lavoro imponente:
814 pagine dedicate soprattutto ad un tema di grande interesse, l’atteggiamento
dell’opinione pubblica tedesca durante il periodo bellico tra il 1939 e il 1945.
In
un regime come quello nazista la consultazione dei giornali e delle riviste (da
ragazzino vedevo “Signal” e “Der Adler”) è inutile perché essi riflettono le
posizioni del gruppo dirigente nazista, ma pure di un certo interesse perché
riflettono le posizioni propagandistiche della élite dirigente destinate e in
relazione all’opinione pubblica.
L’autore,
nel suo proposito, attraverso la consultazione di migliaia di lettere
famigliari e altre, rare, documentazioni private come i diari, si propone di
cogliere le reazioni popolari agli eventi bellici e ai temi politici dominanti
al di là del tessuto propagandistico e, quando è possibile, evitando la censura
delle innumerevoli istituzioni di controllo poliziesco del regime di Hitler.
L’opinione
pubblica ovviamente reagisce in modi differenti alle circostanze della guerra,
e, probabilmente, in modo non uniforme, anche se di queste differenze, secondo
luoghi e ambienti sociali, è quasi impossibile darne ragionevole notizia per il
carattere stesso della documentazione storica. Cercherò di esporre qui, quelle
che mi paiono le risposte salienti dell’opinione pubblica tedesca e anche delle
forme di organizzazione sociale e militare della Germania nel quadro della
guerra totale.
L’autore,
in primo luogo, sostiene che i voti (le elezioni furono più d’una) favorevoli
ai nazisti non furono un’indicazione della volontà di guerra del popolo
tedesco. Al contrario, furono suffragi che ritenevano, del resto secondo le
promesse, che la maggioranza di Hitler avrebbe dato al paese un periodo di
sicurezza e di benessere sociale.
Ovviamente
se si escludono quei gruppi, del resto ben organizzati, nazionalisti e
antisemiti che soprattutto pensavano a una rivincita rispetto alle condizioni
estreme che erano derivate dai trattati di Versailles. A questo proposito è una
banalità osservare che per mantenere in vigore quelle disposizioni, la Francia
avrebbe dovuto tenere la Germania sotto una severa sorveglianza militare,
impresa che avrebbe avuto un costo economico e anche popolare. Il risultato
concreto è stato invece un risentimento sociale collettivo, più o meno ampio,
soprattutto nei confronti della Francia.
Secondo
l’articolata analisi della “letteratura” privata, l’autore è giunto alla
conclusione che le ampie affermazioni elettorali di Hitler non fossero per
niente dovute a un desiderio o ad una aspettativa di guerra espansionistica,
quanto piuttosto all’affidamento per l’espansione del benessere sociale dopo la
crisi del 1929. Penso che questo sia un tema popolare già all’inizio degli anni
Venti. Del resto furono la Francia e l’Inghilterra a dichiarare la guerra a
Berlino. Francia e l’Inghilterra erano considerate nazioni ricche e dominate
dal capitale ebraico che, l’una, la Francia, mirava al predominio continentale,
l’altro, l’Inghilterra, al dominio sui mari di tutto il mondo.
Di
fronte a questa visione geopolitica si affermava un governo nazista che viene
identificato con la storia tedesca, dalle guerre napoleoniche alla vittoria
sulla Francia del 1870, e con la stessa tradizione tedesca - religione, popolo,
terra - la famosa Kultur con il suo valore spirituale opposto alle attitudini
pragmatiche, economiche, utilitaristiche della “civilizzazione” occidentale.
Fallita
l’aggressione all’Inghilterra, oscurata al pubblico la clamorosa sconfitta
dell’aviazione tedesca nella battaglia contro le forze aeree di sua maestà,
Hitler mobilitò tre milioni e mezzo di soldati e imponenti attrezzature
belliche su un fronte che andava dal lago Ladoga al Mar Nero. L’opinione
pubblica interpretò questa impresa come il tradizionale diritto tedesco a uno
“spazio vitale” che andava dalla Polonia all’Ucraina, territori di ricche
risorse naturali e abitati da una popolazione in larga misura ebraica che
andava distrutta, prima con le fucilazioni, ripartite equamente tra esercito ed
SS, e poi con i campi di sterminio. Sulla conoscenza di queste barbariche
imprese (non credo di essere d’accordo con l’ottima Arendt sulla banalità del
male) si può fare questa ragionevole interpretazione: il popolo tedesco sapeva
perfettamente dei campi di detenzione, probabilmente non conosceva gli scopi
sottesi a questa concentrazione, ben noti invece agli esecutori. E questo non
sapere o sapere, doveva essere più o meno noto secondo gli ambienti sociali e i
luoghi geografici. In ogni caso non risulta dal materiale documentario del
nostro autore. Pare invece l’incredibile interpretazione che il popolo tedesco
diede delle distruzioni delle sue città dai bombardamenti dell’aviazione
alleata ormai padrona del cielo. Noi - si diceva - abbiamo trattato male gli
ebrei, queste distruzioni sono la loro vendetta. Una spiegazione del tutto
incongrua e idiota che mostra solo come l’antisemitismo fosse una cultura
diventata collettiva nel popolo tedesco: un vero successo ideologico del
nazismo che fa pensare come anche tutti gli altri messaggi diffusi per radio
venissero considerati come fonti di verità. È stupefacente come in Germania non
sia esistita una opposizione occulta, prudente, anche del tutto inattiva, nei
confronti del potere nazista, identificato con lo Stato, la cultura, la storia,
la stessa identità del popolo tedesco. L’opposizione era tutta fuggita
all’estero e qui aveva tenuto viva la gloria della cultura letteraria,
filosofica, musicale e artistica tedesca, ben riconosciuta non solo in Europa.
L’ultima
cosa da ricordare è l’interpretazione diffusa quando le sorti della guerra
voltarono al peggio per i nazisti, Da El Alamein a Stalingrado e poi con il
secondo fronte in Normandia. Sconfitta dopo sconfitta, la parola d’ordine
nazista era “vincere o essere distrutti”, un luogo comune che, va detto,
divenne un’interiore convinzione del popolo tedesco, fu solidale con i
disperati tentativi di difesa (talora ben orchestrati) dell’esercito tedesco.
Nella mentalità tedesca era in gioco “la terra dei padri” e questa disperata convinzione,
divenne una convinzione popolare ed è con questo spirito che i tedeschi
trovarono, al solito, un’unità tra identità storica, Stato e potere nazista. Un
militare avrebbe combattuto per onorare il suo rapporto con l’esercito della
Patria. Questo non vuol dire che non vi furono diserzioni la cui risposta
disciplinare era la fucilazione: ma, nel complesso, quello che rimaneva
dell’organizzazione militare, di quella produttiva e di quella civile mantenne
una sua efficienza, basti pensare che il comando tedesco fece fucilare quattro
ufficiali responsabili di non essere riusciti a far saltare sul Reno (ultima
speranza nazionale) il ponte di Remagen.
Alla
fine il popolo tedesco, colpito quasi a morte sul campo e nelle sue città, si
augurò di cadere prigioniero dell’esercito americano che era vincitore, ma non
aveva “conti” particolari da saldare con la condotta del potere politico
tedesco, e quindi era privo di un insopprimibile desiderio di violenza com’era
nel caso dell’Armata Rossa.
La
lettura del libro di Stargardt può apparire fin sconcertante se si pensa che
persino Berlino, di fronte alla poderosa e vincente Armata Rossa con forze
soverchianti, fu difesa da 86.000 soldati tedeschi. Dei quali è difficile
immaginare che altro avessero in mente, se non di condurre alla conclusione una
storia vissuta come necessario destino. Se si pensa poi che questa tragedia era
dovuta ad un folle conformismo alla pazzia criminale di Hitler, si possono
trarre due conclusioni: 1) La Germania aveva in sé stessa la possibilità
omicida di un “virus” coltivato da tempo: 2) Spetta ad ogni popolo,
oltre volgari immaginazioni, avere gli strumenti per condizionare il potere ai
valori che possono e devono emergere dalla sua migliore tradizione.