di Claudia Azzola
Claudia Azzola |
L’ha detto lui stesso,
l’autore, di non avere mai pensato di scrivere nel suo dialetto acrese, del
territorio cosentino, eppure questa parlata gli è stata viva dentro per anni,
ed è stata infine restituita all’ascolto, all’espressività scritta e sonora di
un mondo arcaico che non sopporta l’astrazione, perché la vita è densa ed è del
qui e ora, del lavoro, degli affetti quotidiani, della casa, del dolore. Il
gruppo familiare è pensato prima dell’individuo, perché il clan è la vera forza
motrice del sociale, così come è presso gli antichi e le tribù. Ma mi devo
subito in parte smentire, poiché l’astrazione è vissuta, per esempio, nel
lessico della lontananza, del ritorno, degli affetti pudicamente non esibiti,
nella sensazione fisica del tempo che permea i rapporti, nella semantica del
comunicare con la ritrosia delle genti legate a un piccolo cosmo di lavori e di
opere, che non ha conosciuto l’età dell’oro e, quindi, del mito. Alieno dall’autobiografismo, questo poemetto è notevole
per limpidezza del pensiero e asperità di parole, piccola lingua cui non si
chiede di affrontare i vasti significati della storia, che si circoscrive a
pochi parlanti, quasi un saussuriano ‘idioletto’, la lingua mater che ‘fa’ il
poeta Angelo Gaccione, scrittore che peraltro si è misurato ampiamente con il teatro,
il racconto, la poesia. La scintilla fu pronta ad accendersi per dianoia,
conoscenza per connaturalità, e nella lingua materna sentì di esprimersi il
‘ricercatore’ Gaccione, in una vampa dell’inconscio, della pura sostanza,
andando indietro fino al punto di non ritorno, alla Diòtima del Simposio.
Egli dà conto nell’Ouverture (interessante francesismo ‘orchestrale’ che prende
le distanze dall’italiano e balza dal dialetto alle preziosità d’oltralpe), di
parole-segni su cui Gaccione impianta il corrispondente sonoro, suoni che
dichiara di “poterseli dire solo mentalmente” (“Dodùri…/ sendìti cum’è densa ssa paroda. / Dodùri… dodùri… dodùri…; Dolore…/ Sentite com’è densa questa parola. / dolore… dolore… dolore), e pure le allitterazioni
dovettero sollecitarlo nell’organismo e nel sangue. Non vi era a portata di
mano il dizionario milanese-italiano, o un Carlo Porta, o un Eduardo, e la
celeberrima canzone partenopea e il teatro. L’acrese che, da quanto capisco, si
distanzia dal cosentino, si accende nella coscienza del poeta che ne sente un
richiamo così profondo e al contempo così indicibile da non essere soddisfatto
se non cercandone le sillabe e il radicamento corporeo nella parlata mai
stantia, mai desemantizzata come la lingua italiana di oggi, appannaggio di
scrittori desemantizzati nella omologazione del mercato libresco. E,
ovviamente, dei parlanti echeggianti il verbo televisivo. Gli accenti tonici, oltre alla grafia segnata come
‘guida’ al lettore e chiarimento a se stesso, sono le tracce per l’assunzione
di questi testi aspri nelle consonanti e a volte aspri nelle vocali per le ‘u’
reiterate, la b e la v sullo stesso piano di pronuncia come
in altre lingue mediterranee. L’ascolto e la scrittura anche letteraria ci
hanno trasmesso la nerezza notturna di questa vocale, la luna, il lupo, l’urlo, la foscoliana ùpupa, e qui a nnu figliu,
n’omu, s ’u, du munnu, ecc. dove dal fondo di vite oscure e profonde
emerge, presente, qualcosa di familiare, di conosciuto e pacificante, un umore
di casa e di stalla, come nei versi:
Dìcini
ca a chèasa e da mamma ha nnu dumu,
na duci perenni
c’u mmori.
[Dicono che la casa di una madre ha un lume,
una luce perenne che non muore.]
Con la preziosità di quel “perenne” perché, in fondo, il
latino non è estraneo né lontano. Un mondo acheo oggettivato, perenne, ma dove
si sente l’intervento dell’uomo moderno, della sua capacità di dare
significanza all’essere e all’esistere. Un pensiero limpido, essenziale, greco.
La copertina del libro |
Lingua Mater
Ed. Macabor, 2018
Pagg. 80 € 12,00
Introduzione di Dante Maffia