di
Franco Astengo
“I
nuovi padroni? I mercanti del lusso”: questo il titolo di un’intervista
rilasciata da Luc Boltanski ad Anais Ginori e comparsa sulle pagine culturali
di “la Repubblica”.
Argomento
i contenuti del volume “Arricchimento” scritto dallo stesso Boltanski
con Arnaud Esquerre e in uscita in Italia presso il Mulino.
Il
testo analizza le nuove forme di creazione della ricchezza che pongono al
centro dell’attività economica anziché la manifattura diverse fonti di profitto,
in particolare attraverso il commercio delle opere d’arte, oggetti di lusso,
immobili, valorizzazione di località turistiche e prodotti enogastronomici.
La
tesi di fondo degli autori riguarda il ruolo del mondo della cultura che deve
contribuire a creare, attraverso la narrazione, un valore aggiunto delle merci
difficilmente misurabile e quindi con margini di profitto ancora più forti.
Spiegano
gli autori: “Il termine arricchimento ha
un doppio significato. È necessario arricchire gli oggetti con una narrazione, e
arricchendo gli oggetti sono così possibili venderli a un prezzo elevato,
massimizzando il profitto. È un meccanismo che si rivolge a una clientela di
ricchi e che arricchisce sempre di più i ricchi”.
Ci
troviamo in sostanza a un cambiamento radicale al riguardo della definizione
marxiana del plusvalore lavoro: la creazione delle nuove forme di ricchezza, il
plusvalore, non viene più dalla produzione di beni ma dal commercio stesso. L’intellettuale
torna così a essere “organico” ma in questo caso il suo essere “parte del
vivente” (nella definizione gramsciana) si riferisce a questo meccanismo di
ribaltamento nella concezione del meccanismo di costruzione della ricchezza. Una
costruzione della ricchezza che appare essere realizzata ancora diversamente
dal processo di finanziarizzazione dell’economia a suo tempo descritto da
Hilferding.
Intendiamoci
bene: già Braudel spiegava che il capitalismo nasceva dal commercio dei
prodotti coloniali trasportati in Occidente e venduti a caro prezzo facendo leva
sul fascino dell’esotismo.
In
passato però questo meccanismo di valorizzazione delle merci era marginale
rispetto al complesso del capitalismo industriale.
Boltanski
conclude il suo ragionamento esponendo un punto d’analisi sul quale varrebbe la
pena impostare un dibattito da sviluppare in profondità e del tutto afferente al
discorso della ricostruzione della sinistra.
A
suo giudizio, infatti, non possiamo (ancora) definirci una società post-industriale
proprio perché non abbiamo mai usato così tanti prodotti industriali: si sono
spostati però i luoghi della produzione seguendo gli itinerari dell’esercito di
riserva. La realtà descritta nel libro è una realtà nella quale il lusso non si
vanta più di essere industriale ma al contrario si sforza di far dimenticare il
suo radicamento in una trama produttiva: l’accumulazione diventa così
immateriale nelle sue origini dimenticando quanti operano nel “lavoro vivo” in
un mondo di continua esaltazione della disuguaglianza. In questo modo avviene
il ritorno ad una logica di uso della ricchezza simile a quella della “Corte
del re sole”.
La
disuguaglianza è ormai considerata come un valore obliando completamente il
fatto che la sua origine deriva dalla sempre più esasperata intensificazione
dello sfruttamento a tutti i livelli compreso il genere e il territorio. Lo
sfruttamento ormai trova le sue basi ben oltre le grandi concentrazioni
industriali e oltrepassa anche gli stessi santuari della modernità rappresentati
dai potentati del web.
Uno
sfruttamento basato sull’autoreferenzialità della logica di scambio e della
progressiva ghettizzazione delle possibilità di esercizio del “valore d’uso”
ormai ridotto alla trincea del progressivo logoramento del consumo di massa.
Siamo
dentro a un circolo vizioso laddove lo “scambio” dei beni di lusso a prezzi
esagerati, sostituisce anche la stessa vecchia logica dei “rentier” delimitando
seccamente i confini della ricchezza autoprodotta dentro ad una sorta di
“torre d’avorio” Ci stiamo avviando verso un’era nella quale la ricchezza non
sarà più scalabile neppure nel più ottimistico quadro dei film di Frank Capra e
dell’american way of life o del tanto di moda “stile di vita europeo”. La globalizzazione
assumerà così un significato soltanto per questa “élite del lusso” emersa da un
“individualismo del disuguale” che agirà sempre più in ragione dell’idea della
conservazione di questa nuova classe identificabile dall’uso del privilegio
egoistico: il resto del mondo resterà avvolto nella nebbia della banalità della
“mercificazione del quotidiano”.
Non
a caso rispetto al tema fondamentale del “senso del lavoro” si trovano in
grandi difficoltà sia le organizzazioni padronali sia il sindacato accumunati
entrambi dal legame con la perdita della centralità dell’industria e del
meccanismo di accumulazione che ne era derivato fin dal tempo della prima
rivoluzione industriale. Non abbiamo riflettuto sull’obsolescenza della teoria
delle fratture attraverso la quale sono state individuate determinate contraddizioni
e la conseguente possibilità di elaborazione delle proposte di pratica
politica. Per poter pensare di fronteggiare questo fenomeno, per altro ben
sostenuto dalla solitudine che deriva dall’esercizio degli strumenti di
comunicazione di massa, occorre ripensare ai concetti di “società sobria” ben
oltre il semplice criterio della sostenibilità.
Non
è sufficiente pensare alla “green economy”: serve qualcosa di più ampio e
strutturalmente orientato nel suo complesso. Risulterebbe limitato anche un
richiamo alla società dei 2/3 di Gorz: analisi che negli anni’80 rappresentò
una sorta di bandiera della socialdemocrazia europea in condizioni ben diverse
dalle attuali. La ricostruzione di un intreccio tra etica e politica potrebbe
rappresentare il passaggio fondamentale per delineare i contorni della “società
sobria” avendo come base di proposta una nuova “teoria dei bisogni”. Va posta
al centro la prospettiva di una società alternativa a quella fondata su di un’economia
dell’arricchimento. Un’economia dell’arricchimento che, come abbiamo visto,
trova la sua pertinenza non nel concetto di utilità sociale ma di accumulo
privato. Un accumulo privato inteso come collezione di beni riservati a una fetta
piccolissima di popolazione. Il resto del mondo oggi resta fuori a contemplare
la propria diversità nelle condizioni materiali di vita senza disporre di idee
e di organizzazione per attaccare il muro della separatezza tra i popoli e tra
i ceti sociali. Una separatezza mai così marcata, almeno a partire dal Secolo
dei Lumi.