Guido
Salvini*
Nei
commenti e nelle reazioni alla sentenza della Corte di Strasburgo che ha
rigettato il ricorso dell’Italia sull’ergastolo ostativo, quello che non
consente di accedere ai benefici, a molti sembra essere sfuggito il centro del
problema. E il centro è il valore simbolico che un detenuto per reati di
criminalità organizzata dà sempre alla sua carcerazione.
Prima
di tutto la sentenza, e su questo sostanzialmente sono d’accordo, censura
l’istituto dell’ergastolo ostativo ma ciò non vuol dire che a breve tutti i
boss detenuti da molti anni torneranno in libertà. Il Magistrato di
sorveglianza potrà comunque continuare a valutare caso per caso se essi siano
ancora pericolosi soprattutto se essi, nonostante la detenzione, siano rimasti
sempre all’interno di quel mondo.
A
parte questo rilievo, per cogliere il centro del problema bisogna ricordare che
tra reati come quelli di mafia e reati del singolo c’è una abissale differenza.
Anche chi ha commesso i delitti più efferati, per passione, invidia o anche a
scopo di lucro, se è un singolo spesso può essere recuperato in pochi anni,
cessa di essere pericoloso e comunque ben difficilmente diventa un esempio per
altri. Ma nel caso del crimine organizzato, il crimine cioè che rivolge la sua
“proposta” sociale e il suo stile di vita ad altri, il comportamento dei capi
in carcere assume un valore strategico decisivo. Infatti se non assume un
atteggiamento di critica verso il proprio passato rimane un modello da imitare.
I capi condannati all’ergastolo possono durante gli anni della carcerazione aver
avuto anche un buon comportamento, essersi dedicati in carcere al teatro o alla
pittura o anche essersi laureati. Ma tutto ciò conta poco. Rimangono capi
rispettati ai quali si deve sempre obbedienza.
Forse
non è una condizione necessaria esigere la collaborazione processuale che, se
non vi è stata all’inizio può essere anche divenuta impossibile o poco utile, dopo
20 o 30 anni, al momento della richiesta dei benefici. Ma qualcosa lo Stato ha
il diritto di esigere. Quantomeno che il detenuto rigetti in modo convincente le
scelte passate, dica pubblicamente “non fate come me” “, non seguite la mia
strada”. Serve almeno una resa, pubblica e inequivocabile.
Non
si tratta in questo caso tanto degli effetti di una “rieducazione”, che non si
sa bene cosa voglia dire, ma si tratta semplicemente di una scelta di detenuti
che sin dall’ingresso in carcere sanno quello di cui si parla: perpetuare e far
perpetuare agli altri le loro scelte criminali oppure respingerle di fronte a
tutti.
Se
ciò non accade, ed accade ben raramente, il boss in carcere continua a essere
un esempio per le nuove leve ed è proprio l’aver subito senza ripensamenti una
lunga detenzione carceraria a farne un modello “positivo” per il suo ambiente.
Del
resto è proprio grazie a questo atteggiamento che parenti e adepti rimasti fuori
possono continuare a usufruire di quello che viene chiamato il “capitale
sociale” del boss che controllava un quartiere o un settore dell’economia
lecita o illecita, proseguire con questo “avviamento “sulla stessa strada.
Ricordo
personalmente, in ambito milanese, alcuni casi di capi storici che sono rimasti
in carcere trent’anni, detenuti anche modello ma che non hanno mai avuto parole
di critica per le loro scelte di vita passate , dal carcere hanno continuato a
mantenere contatti solo con lo stesso
ambiente in cui avevano vissuto ed ora rimessi in libertà, anche se non più
dediti a commettere reati anche per ragioni di età anagrafica, rimangono
l’esempio vivente da rispettare e da emulare. E, non è un caso,
l’organizzazione che avevano diretto ha continuato negli anni ad operare, a
riprodursi, a controllare quel territorio e ne fanno parte spesso gli “eredi”,
figli e nipoti.
Bisogna
almeno pretendere la rottura convinta di un giuramento criminale. Da questo
discrimine, che non è eccesso di punizione ma presa d’atto di una realtà, non
si può arretrare.
*Magistrato