di
Franco Astengo
Così
abbiamo costruito nel tempo la “nostra” idea di Utopia:
Utopia:
dal greco ou tòpos, nessun luogo, con l'idea che possa essere qualsiasi luogo. L'Utopia
scorre nelle vene della società come la conosciamo. Cominciò Platone, la
Repubblica come primo progetto di società ideale perfettamente organizzata,
Tomaso Moro inventò la parola, ci battezzò la sua isola un secolo prima di
Cervantes e ci perse la testa (letteralmente, un re gliela fece tagliare), poi
Campanella e la Città del Sole, i socialisti utopisti alla cui
disorganizzazione rispose un certo filosofo di Treviri che si diceva socialista
scientifico. È la “nostra parola”, insomma. Ma ci basta?
Chisciotte
è un romanzo immortale nato in un carcere a Siviglia, dove Cervantes era dentro
per debiti come del resto sono dentro per debiti quasi tutti i paesi
latinoamericani.
Il
chisciottismo ci è caro in quanto “dimensione eroica dell'antieroe”, come ci
dice persino il dizionario della Reale Accademia spagnola: chi antepone i suoi ideali,
e opera disinteressatamente per cause giuste, senza ottenerle.
Le
ultime parole non convincono molto: a volte i donchisciotte vincono, magari
anche solo moralmente.
Ricordiamo
la lettera del Che Guevara ai genitori, nell’anno in cui non andò da nessuna
parte, cioè sparì per fare la Rivoluzione in Congo: “Sento sotto i miei talloni
le costole di Ronzinante, mi rimetto in cammino”...
Jose Saramago – Eduardo Galeano
Dialogo
su: “Don Chisciotte oggi: utopia e politica”.
Porto
Alegre Gennaio 2005
Jose Saramago |
Ne
“La virtù del silenzio” (Mimesis) il sociologo francese Michel Maffesoli
sposta il tiro: L’Utopia si è fatta liquida e permea il presente, riempiendo
ogni spazio possibile e facendosi una sorta di “ammortizzatore spirituale”
dell’incertezza. Così almeno interpreta il testo in questione Carlo Bordoni
introducendo, sulle colonne della “Lettura”, supplemento del “Corriere della
Sera” una interessante intervista con l’autore.
Ritroviamo
dunque nell’attualità una utopia di pronto consumo, non più destinata a
immaginare il futuro, ma a concretizzarsi nel presente: una, almeno così
definita, “utopia interstiziale” ricollegata alla discussa e complessa nozione
di post-modernità.
La
modernità è finita, e si è conclusa l’era del razionalismo introducendo, come
si afferma nella frase conclusiva dell’intervista il concetto di “non
pessimismo” in luogo di quello di ottimismo. Come si può allora interpretare
questo vero e proprio spostamento di paradigma?
Esiste
una valutazione immediata: mentre sull’utopia dell’eguaglianza si poteva
costruire il disegno dell’ “Assalto al Cielo” distinguendo su di esso la
declinazione di una realtà della soggettività politica, oggi questo non è più
possibile perché ci troviamo già in un’altra era, quella del “non razionale”
che ha superato l’ultimo stadio della modernità, quello individuato da Bauman
attraverso l’espressione della “società liquida”.
Non
possiamo però arrenderci all’ineluttabilità di questo passaggio, di questa
definitiva impossibilità dell’articolazione sociale in nome dell’individualismo
irrazionale. Una resa che sembra derivare, prima di tutto, dall’assenza di una
ricerca culturale: l’impressione è, davvero, quella di muoversi nel deserto.
Quindi
il primo passaggio deve essere quello di aprire una ricerca per ricostruire
un’identità. Ma come?
Una
ricerca in questo senso non può che rivolgersi, ricostruendo il tempo passato e
perduto, oltre a quei riferimenti classici sulla base dei quali, nel ’900,
abbiamo assistito ai tentativi di inveramento statuale basati su alcuni
fraintendimenti marxiani. Quello è stato un fallimento che ha coinvolto e
coinvolge anche coloro che hanno sempre coerentemente assunto una visione
critica. Ed è la ragione vera che sorregge il ragionamento sull’utopia dell’hic
et nunc: un’utopia trasformatasi in distopia, ovvero un’utopia alla rovescia,
capace di dipingere il peggiore dei mondi possibili, veri e propri inferni
sulla terra, a somiglianza di ogni totalitarismo.
Prendendo
atto di ciò rimane da valutare lo spazio teorico per ricostruire un ‘utopia. Nella
convinzione che senza l’offerta di un’utopia, pur in questi tempi di
immediatezza del possesso, difficilmente le generazioni possono affacciarsi
sulla scena del cambiamento di quella che potrebbe apparire una direzione obbligata
della storia: dominanti e dominati, servi e padroni, forti e deboli.
Un’utopia
che si contrapponga a una realtà storica giudicata irrazionale e degradata: un
progetto di costituzione sociale meditato, coerente, nella propria logica interna,
con caratteri di trasparenza e di autosufficienza.
Come
potrebbe però l’idea di questa utopia mobilitare le grandi masse, raccogliere
attorno alle sue espressioni le lotte sociali, suscitare un moto di concreto
cambiamento?
È
proprio questo l’interrogativo più assillante, quello al riguardo del quale lo
smarrimento culturale della sinistra incide di più?
Eppure
una chiave di interpretazione ci sarebbe.
Se
noi esaminiamo i dati dell’economia di questo principio di secolo e li
incrociamo, partendo proprio da qui dall’Europa Occidentale, con quelli della
condizione materiale di vita di quelle subalterne (indicatori molto diversi,
sotto questo aspetto, da quelli che compongono la costruzione delle stime dei
diversi PIL nazionali) ci accorgiamo di un elemento fondamentale: la
costruzione dei patrimoni, i meccanismi di incremento del capitale, il livello
delle diseguaglianze tendono tutti a far ritornare attuale la condizione della
fase in cui, con lo sviluppo del capitalismo, si avviarono i grandi processi di
organizzazione e di lotta del movimento operaio.
Sicuramente
non siamo più dentro ad una fase di accumulazione come quella verificatasi
durante la rivoluzione industriale, ma le cifre ci dicono che i livelli di
sfruttamento (e da esso la crescita della rendita dei patrimoni) è molto simile
a quella fase anche sotto l’aspetto della vastità dei soggetti coinvolti, con
l’aggiunta del tema ambientale, nell’800 (il secolo delle “magnifiche sorti e
progressive).
Intendiamoci
bene: le differenze sono enormi, soprattutto al riguardo dell’estensione
materiale dei diversi settori dell’economia tra primario, secondario e
terziario, ma la sostanza (e gli effetti concreti) della logica dello
sfruttamento stanno tornando a essere quelli di quella fase, cancellando via
via quanto si era spostato in avanti dal punto di vista economico e sociale nel
corso del secolo successivo, quello che definiamo dei grandi conflitti e dei
grandi totalitarismi.
Si
dimostra così, per l’ennesima volta, che la storia non è finita e che, almeno
dal nostro punto di vista, può marciare anche con il passo del gambero.
Quale
lezione trarre, a questo punto, dall’analisi appena sopraesposta?
Esprimiamoci
in estrema sintesi: si tratta, prima di tutto, di far capire in quale
condizione materiale i ceti subalterni si trovano offrendo l’idea di una
rinnovata utopia e di strumenti di lotta non solo difensivi ma anche
prefiguranti uno sbocco sociale e politico diverso e alternativo.
Nonostante tutto l’analisi materialista si
pone ancora una volta di fronte al grande disegno dell’Utopia, quello che più
volte nella storia abbiamo definito come “Assalto al Cielo”.
L’interrogativo
rimane: come intrecciare, allora, l’Utopia e la Materialità della Lotta di
Classe?
Nel
1848 la sintesi fu trovata, in maniera assolutamente incancellabile da
qualsiasi accidente della storia, nel “Manifesto del Partito Comunista” nella
sua formidabile chiarezza di espressione.
Un
punto da cui ripartire, magari attraverso un rifiuto dell’“utopia
interstiziale” è l’espressione, immutabile e indistruttibile, di un
indispensabile “don chisciottismo” come ci ricordavano Saramago e Galeano?