LA CRISI DEL PENSIERO INDUSTRIALE
Roberto
Bramani Araldi
La
rivoluzione industriale si fa in genere risalire alla seconda metà del Settecento
in Gran Bretagna, dove si erano generate le condizioni tecnologiche, ambientali
ed energetiche idonee per lo stravolgimento progressivo dell’economia che
passava, da agricola e circoscritta, alla produzione di beni in quantità
elevata e a prezzi più contenuti, con l’innesco di fenomeni migratori e il
mutamento non solo economico, bensì degli stili di vita.
Gradualmente
il fenomeno si estese agli altri Paesi Europei arrivando, alfine, anche in
Italia intorno alla seconda metà dell’Ottocento per un naturale ritardo
connesso sia alla frammentazione politica rappresentata dagli stati e
staterelli locali, sia alla successiva formazione unitaria del Paese, che
soffriva di differenze economiche-sociali di enorme entità.
Rimaneva
il fatto che la scelta industriale era favorita in Italia dall’intervento
statale e dai finanziamenti delle grandi banche, dato che le nuove aziende produttive
molto spesso non possedevano la capacità di autofinanziarsi. In questo contesto
eruttivo e stimolante che permetteva, grazie alla fabbricazione di serie, di
accumulare più facilmente ricchezze, rispetto a un mondo ancorato quasi
esclusivamente alle attività agricole, nasceva il “pensiero industriale”.
I
vari artefici del cambiamento, che progettavano di volta in volta di immettere
sul mercato un manufatto, avevano anche la volontà di connaturare con un
elevato livello qualitativo il prodotto, consapevoli della necessità di
superare la concorrenza e di assicurarsi in tal modo una capacità di
recepimento superiore da parte del consumatore.
Il
fattore economico dominante era impostato sull’equazione: più vendite, più
profitto. Ma non solo: era paritetico l’orgoglio di essere l’autore, spesso
l’inventore del prodotto, di far identificare con il proprio nome l’azienda che
lo produceva, che si espandeva, di far permeare l’atmosfera dell’immagine di
alto profilo che il suo creato aveva generato. Gli esempi del genio italico di quel
periodo, che va cavallo fra la fine Ottocento e i primi del Novecento, sono
molteplici: c’è solo l’imbarazzo di scegliere, fra il bosco imprenditoriale di
allora, gli alberi più rigogliosi. Vogliamo cominciare dal settore dell’automobile?
Lancia?
Vincenzo Lancia, pilota che miete successi al volante di vetture Fiat, che
decide nel 1906 di costituire la Società - come la chiama, indoviniamo un po’? -
Lancia & C. - con quattro soldi e un socio - e dopo pochi anni, ampliando
prima e spostando poi lo stabilimento, produce auto di grande prestigio e di
ancor maggiore immagine. Nel periodo bellico trasforma l’indirizzo aziendale
con la produzione di autocarri militari e di autoblindo, salvo, tornare alle
auto, alle sue brillanti e competitive vetture, dalla Kappa alla Theta alla
Lambda all’Aprilia. Ricerca, sviluppo,
qualità.
Lasciamo
l’auto e andiamo a trovare Olivetti, Camillo Olivetti e poi Adriano?
1908
anno di fondazione della Ing. C. Olivetti & C., prima fabbrica nazionale
macchine per scrivere, ubicazione nella campagna del Canavese, presso Ivrea: un
cammino travolgente con il figlio Adriano che prosegue dal 1932 in poi
l’attività del padre con la famosa Divisumma, la prima calcolatrice scrivente
in grado di eseguire le quattro operazioni, e la altrettanto storica macchina
da scrivere Lettera 22. Prodotti di enorme successo assistiti da un livello
qualitativo eccezionale che univano l’innovazione sistematica alla cura dei
dettagli con il fine di primeggiare dinanzi alla concorrenza.
Si
può continuare con l’isola di Sesto San Giovanni, a un passo da Milano, con le
Acciaierie e Ferriere Lombarde Falk. Fondata anch’essa nel 1906 da Giorgio
Enrico Falk, il quale ha l’intuizione di posizionare uno stabilimento
siderurgico non nelle valli bergamasche dove erano per lo più concentrati,
bensì alle porte di una grande città dove era più facilmente reperibile la
materia prima, il rottame di ferro, e dove la logistica era più vantaggiosa per
rete ferroviaria e stradale. Grande visione industriale, migliaia di dipendenti,
costruzione del villaggio Falk per favorire l’insediamento dei lavoratori
provenienti da lontano e per fidelizzare l’appartenenza alla Società.
Un
altro campo dove l’inventiva e l’orgoglio di
fare non “un prodotto”, ma “il
prodotto”, fu il settore alimentare,
come il liquoristico e il dolciario.
Motta,
con Angelo Motta nel 1919, Alemagna, con Gioacchino Alemagna nel 1921, entrambi
nel milanese, donarono i loro nomi a prodotti ormai immortali nella tradizione.
Martini
& Rossi - con Alessandro Martini e Luigi Rossi -, Cinzano - con Carlo
Stefano e Giovanni Cinzano - , Campari - con Gaspare e Davide Campari -: marchi
atti a caratterizzare prodotti particolari di altissimo gradimento, noti e
affermati in ogni angolo del mondo, creati a metà Settecento - Cinzano - e a
metà Ottocento - Martini e Campari - ebbero tutti alle spalle imprenditori intelligenti, lungimiranti e
consapevoli che la fortuna delle loro aziende e delle loro creazioni fosse
intimamente connessa alla complessità di una valutazione industriale
onnicomprensiva, nella quale ogni componente sarebbe stato fondamentale
per il conseguimento del successo.
Ebbene,
questa lunga carrellata di esiti esaltanti, largamente incompleta, protratti a
lungo nel tempo, ebbero un minimo comun denominatore rappresentato dalla
consapevolezza che il loro “pensiero industriale” avrebbe resistito perché
consolidato nella corretta gestione del business.
Non
era vero; l’anelito, che aveva attraversato trasversalmente tanti indirizzi
merceologici diversi accumunati da una visione a lungo respiro per la loro
gestione, stava scomparendo inghiottito da un realismo miope e ottuso.
Alla
guida delle aziende che assommano fatturati importanti - non solo le
multinazionali, ma anche società di media dimensione - si è ormai installata
una generazione direzionale rappresentata da finanzieri che tutto posseggono
fuorché un obbiettivo di gestione che rispetti i canoni che informavano un
passato neppure tanto remoto.
L’unico
fattore considerato è il profitto, quanto più elevato possibile, senza
minimamente valutare le componenti che devono determinarlo.
È
naturale che un’azienda debba fare profitto, se così non fosse verrebbe posta a
repentaglio la sua stessa esistenza, buttando sul lastrico proprietà e
lavoratori in pochissimo tempo, ma non esiste solo questo elemento.
Quando
si pontifica affermando che la qualità è un costo e bisogna mantenerla entro
rigidi parametri di spesa, si commette un errore grossolano che prima o poi si
paga: la qualità non è un costo è un
investimento dal quale non si può prescindere se si vuole mantenere una
posizione di vertice nel settore merceologico nel quale si opera.
Questo
atteggiamento - ripeto miope - trae spunto anche dalla politica delle
retribuzioni dei vertici aziendali: se il dirigente ics ha una parte, anche
consistente, delle sue prebende che dipende da obiettivi collegati in modo
precipuo alla sua direzione, cercherà di salvaguardarle, ignorando l’eventuale
danno provocato alle direzioni limitrofe.
Per
fare un esempio: se la direzione risorse umane ha come meta la riduzione dei
costi del personale, quindi la diminuzione dei dipendenti diretti, decide di
terziarizzare una funzione indispensabile solo per abbassare il numero
complessivo, otterrà simultaneamente una serie impressionante di risultati
negativi per l’azienda, riassumibili in:
1. un aumento dei costi
complessivi perché il terzista non è un ente benefico e deve guadagnare;
2. un abbassamento della
qualità del servizio non sottoposto alle regole societarie e suscettibile solo
di controlli successivi che saranno portatori d’immagini negative all’esterno dato
che gli eventuali interventi correttivi saranno ritardati;
3. uno scarico di costi
sulle direzioni produttive determinato dallo scadimento del servizio;
4. un incremento del clima
conflittuale interno.
Adriano Olivetti |
Per fortuna l’impostazione velleitaria della scomparsa del pensiero industriale non è ancora generalizzata, ma è certamente maggioritaria nelle società di una certa dimensione. C’è da augurarsi che arrivi il principe azzurro a svegliare con un bacio la “Bella addormentata nel bosco”? Che la tendenza possa invertirsi e certi valori pioneristici possano riprendere quota in tempi rapidi? Tutto è lecito per l’immaginazione, pure fantasticare sul mondo delle favole.