PANE, PASQUA E POVERTÀ
di Angelo
Gaccione
“Molti mendicano
perché pochi hanno troppo”
Cosa c’è di più sacro del pane, e
cosa c’è di più umano di una mano che allunga un pezzo di pane ad un’altra mano?
Non ho mai smesso di pormi questo interrogativo perché conosco bene il valore
del pane, l’ho imparato presto; e di povertà ne ho vista tanta nella mia vita,
ne conosco l’odore, l’ho guardata diritta in faccia, e l’ho imparata dalla mia
carne, non dai libri o dal cinematografo. Il fatto che io come uomo, prima che
come scrittore ed intellettuale - impegnato in tutte le cause perse di questo
tempo amaro - stia da una parte, da una parte sola, è dovuto soprattutto a
quello odore, a tutte quelle facce simili alla mia. Sì, avete letto bene: ho detto
tempo amaro, e non è solo perché la pandemia continua a mietere circa
cinquecento vite al giorno e ci ha in parte segregati.
È un tempo amaro perché ai confini della Bosnia, in una terra di nessuno, ci sono in questo momento, ora, uomini, donne, bambini, con una coperta sulle spalle per proteggersi dal freddo, e sono profughi in fila per il pane, sono poveri. Non è Birkenau: sono passati troppi anni; e non è la Giornata della Memoria con tutta la sua insopportabile retorica: è ora! Sono uomini e donne di questo tempo di cui aspettiamo il genocidio per poterci tornare a commuovere fra mezzo secolo, per mettere cippi, per fare retorica. Ma ora non li vediamo, non vogliamo vederli: sono poveri e ci disturbano. È un tempo amaro perché mentre il mio civile Paese con una mano celebra Durante Alighiero degli Alighieri, il padre della sua lingua, con l’altra produce ed esporta armi per provocare massacri, per provocare profughi, per provocare poveri che verranno nel mio civilissimo Paese ad ammassarsi lungo i marciapiedi di viale Monza o quelli di viale Toscana per tendere la mano. Lo fanno già in molti e la fila si allunga sempre di più; si attorciglia come la coda di un serpente, come il biscione dei Visconti. I poveri di Milano, gli italiani che si mescolano a tutta quella miseria, si calano il cappuccio dei giubbotti sulla testa; si avvolgono con le sciarpe come fossero delle kefiah e tengono le mascherine ben alzate, ora che a finire sotto i piedi è stata la loro dignità, il loro onore, quello che permette a una donna e a un uomo di camminare a testa alta, fissare sicuro lo sguardo in un altro sguardo. Sul viale Toscana un tempo c’era la Centrale del Latte, un vanto per la città meneghina. Gli speculatori ingordi di ricchezza l’hanno azzerata, ridotta al fallimento creando altra povertà e non hanno mai pagato. I ricchi non pagano mai. Ha ragione da vendere l’aforista polacca Patricie Holečková: “Nella lotta per la libertà, gli oppressi hanno spesso conquistato solo una maggiore libertà per i propri oppressori”.
Alle spalle del viale Toscana e tutt’attorno, tra la via
Sarfatti e il Parco Ravizza, c’è ora il Campus dell’Università Bocconi. La forma
sferica delle sue strutture architettoniche fa venire in mente i contenitori del
latte. Giganteschi silos circondati da reticolati metallici visivamente molto
suggestivi e dalle forme sinuose e trasparenti. Sono opera degli architetti giapponesi Kazuyo
Sejima e Ryue Nishizawa. La miseria sta al di qua, lungo la circonvallazione; e
la sua vergogna, in un mondo dove il cibo si spreca in modo empio e sacrilego
finendo nella spazzatura, si metterà in coda anche questa Pasqua davanti al numero
28, la sede del Pane Quotidiano. Ad alleviarla saranno, come ogni giorno, 140
volontari, 140 angeli metropolitani: sono i semi del buon samaritano che
riescono a germogliare ovunque e in ogni tempo, come piante ostinate. Sono,
questi uomini e donne che si prendono cura, il sale della terra;
l’essenza umana che incarnano rende umani anche noi e ci aiuta a non disperare.
Lo dobbiamo a creature come queste se fiammelle di solidarietà continuano a
brillare. Non mi stancherò di ribadirlo: senza solidarietà non esiste umanità.
Non
c’erano palme nella mia città. Noi abbiamo una pianta più umile, più longeva,
più umana: è l’olivo. Ci sono tronchi e rami di olivi che assomigliano a figure
umane. Ho davanti agli occhi un tronco scarnificato dal tempo e dalle
intemperie, simile al corpo del Cristo crocifisso di Max Ernst. Per la Domenica
delle Palme da noi c’erano, e sono rimasti, i ramoscelli di olivo; le foglie
verdi da cui ricavare piccole croci da infilare nella fessura degli occhielli,
gli addobbi con i semi di grano fatti germogliare. E non ci importava se nessun
uomo in tunica bianca fosse giunto a dorso di un’asina: per noi la Pasqua erano
i magnifici profumi che inondavano le piccole vie dei nostri quartieri, quei
dolci intrecciati a forma di corolla con le uova sode intorno e i chicchi di
anice nera. Per me valgono ancora più di mille ricordi proustiani. O in forma
di graziose bamboline con l’uovo in fronte e dal gusto così fragrante perché
impastati con i succulenti ingredienti dei “buccunotti”.
Si scambiavano questi
dolci, come si scambiavano i ramoscelli di olivi benedetti simboli di amicizia
e di pace. Si portavano in dono alle famiglie in lutto e a quelle più povere.
Era la magnifica pratica del dono che mia moglie continua a tenere viva qui, in
questa metropoli bella e feroce, e li prepara ogni anno per farne dono agli
amici. Lo fa per farmi piacere perché sa quanto io sia profondamente legato alle
preziose memorie di un luogo dove si è sempre benedetto e scambiato il pane;
dove se ti cadeva a terra dovevi baciarlo e farvi sopra il segno della croce;
dove ogni pagnotta doveva stare adagiata sulla tavola disposta nel suo giusto
verso e averne cura. Quel pane non andava sprecato perché era, insieme, il dono
della terra e della fatica; una difesa e una provvista contro le avversità e le
incertezze. Per me è rimasto soprattutto il pezzetto che mio nonno serbava nel
suo tascapane per mia madre bambina, sottraendolo al suo misero pasto. In
quella tasca del padre, al ritorno dai campi, affondava la piccola mano ed era
la sua Pasqua. Una Pasqua umile e povera come quella di un uomo crocifisso
innocente tanto e tanto tempo fa che, come si racconta in un libro di
meraviglie e di favole, aveva più volte steso la mano anche lui, per chiedere
un tozzo di pane.