VIOLENZA DI GENERE
di
Lisa Mazzi
Aspetti,
cause, sviluppi
Berlino. Le
origini della violenza di genere sono da ricercarsi all’interno del sistema
sociale, culturale e nell’insieme delle false credenze e dei pregiudizi che nel
corso dei secoli hanno inficiato le relazioni tra i sessi falsandone i rapporti
di forza soprattutto all’interno della famiglia e della coppia.
Per
questo è necessario informarsi e cercare di capire quali costanti umane,
storiche e legislative hanno portato a far sì che questo fenomeno si stia
protraendo e peggiorando nel tempo.
Nel
1999 l’allora segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan disse: “La violenza
contro le donne è forse la più vergognosa violazione dei diritti umani. E la
più diffusa. Non conosce confini geografici, culturali o di stato sociale.
Finché continuerà, non potremo pretendere di realizzare un vero progresso verso
l’uguaglianza, lo sviluppo e la pace”.
A
distanza di vent’anni il nuovo segretario dell’ONU Antonio Guterres il 25.11 19
affermava: “Le Nazioni Unite si impegnano per porre fine a tutte le forme di
violenza contro donne e ragazze. La violenza di genere ha le sue radici nella
secolare supremazia del patriarcato, che impedisce ancora oggi l’equiparazione
tra uomo e donna. A causa di ciò, delle modalità di narrazione nei media e
delle leggi molto spesso ancora inadeguate non si riescono a debellare le varie
forme di violenza, di cui la più terribile forse è l’uso della donna come arma
da guerra”. Lo stupro di massa delle donne “nemiche” nella guerra di Bosnia, le
yesite rapite e ridotte in schiavitù, le guerrigliere curde trucidate ne sono
un triste esempio. “Tutto questo”, disse Guterres, “deve cambiare adesso”.
Purtroppo l’Adesso non si è ancora realizzato. Gli sforzi in tal senso,
infatti, non vengono portati avanti dai governi, ma piuttosto nell’ambito del
volontariato, dalle ONG, dai gruppi internazionali femministi come Se non
ora quando, Non una di meno, il DIRE, e altre, che non dispongono spesso di
mezzi adeguati.
Purtroppo
nonostante la nascita del CEDAW nel 1979 a New York, la convenzione che
voleva eliminare tutte le forme di discriminazione contro le donne e la
Convenzione di Istambul del 2011, entrata in vigore nel 2014 e ratificata
dall’Italia nello stesso anno, le leggi e i programmi educativi per giovani in
età scolare, pur essendo stati modificati parzialmente, non hanno fatto ancora
il salto di qualità necessario per arginare il fenomeno, che sembra essere, tra
pandemia e regimi populisti, in costante aumento.
Oltre
al drammatico e continuo numero di femminicidi, e ricordo che anche la recente
ricerca del Ministero della Giustizia non usa ancora una definizione esaustiva
di tale delitto, né analizza in modo approfondito le sue dinamiche, ci troviamo
di fronte ad un inquietante aumento della violenza domestica e di quella
digitale, la forma più recente della violenza di genere, quest’ultima non solo
come hate speech nei social media, ma su tutto il web, nelle forme più
disparate dal cyberstalking, al cybermobbing, al doxxing,
al cybergrooming, al sexting, al dirty talk e al revenge
porn.
Il
concetto di violenza dal punto di vista scientifico fu introdotto nel 1975 da
uno studioso norvegese Johan Galtung nel suo libro Teoria della violenza
strutturale. La suddivisione del Galtung è valida e accettata anche oggi
da tutti. Lui distingue due forme di base: la violenza personale e quella
strutturale.
Violenza
personale: ha
luogo quando i rapporti di forza non sono allo stesso livello e uno dei due
partner sfrutta la situazione ai danni della vittima, oppure crea una
situazione tale da poter esercitare il suo potere in assoluto.
Violenza
strutturale
invece ci riporta ad un livello di discriminazione e offesa all’interno di un
contesto sociale impedendo a determinati gruppi di individui di prender parte
in modo inclusivo ed equiparato alla vita politica e sociale di una nazione.
Non parte quindi da un aggressore specifico, ma è una forma di violenza.
integrata nel sistema sociale.
Solo
20 anni dopo nel 1995, la Conferenza Mondiale di Pechino ci offre una
definizione precisa di violenza di genere, per dare avvio alle forme di
sanzioni legislative contro di essa: “Il concetto di violenza contro le donne
vale per ogni azione violenta legata al sesso femminile recando un danno o una
sofferenza di carattere fisico, sessuale o psichico. Essa comprende dunque le
minacce, la coercizione, la privazione della libertà nel pubblico e nel
privato”.
Violenza personale
La violenza
domestica è quella che si definisce all’interno della coppia e della
famiglia e comprende:
1. violenza fisica: schiaffi, pugni,
calci, sputi, spintoni e scossoni, prendere per la gola, uso di manette,
attacchi con armi o oggetti di ogni tipo, minaccia di morte e femminicidio o
suicidio allargato che è il caso in cui non si fa il processo all’assassino,
perché appunto suicida;
2. violenza
psichica/emozionale/invisibile: svalorizzazione, umiliazione,
mortificazione, ridicolizzazione, ingiurie, ricatti morali, privazione del
sonno, victim blaming (incolpare la vittima) e gas lighting;
3. violenza a sfondo sessuale:
coercizione ad atti o pratiche sessuali, stupro e costrizione alla
prostituzione;
4. violenza a sfondo sociale: tende
a isolare la vittima e controllarla nella vita privata, limitazione nella
libertà di uscire e incontrare altre persone;
5. violenza economica: divieto di lavorare, privare del
controllo delle finanze e procurare dipendenza economica.
6. matrimonio coatto.
VIOLENZA STRUTTURALE
DISCRIMINAZIONE - RAZZISMO
È
quella che viene esercitata non da un singolo individuo, ma da parte della
società per escludere chi è ritenuto diverso o non abile: persone di colore,
disabili, profughi, vittime di tratte umane, migranti,
ebrei, musulmani,
sinti
e rom, LGBQTIA
(la sigla sta per lesbiche, omosessuali, transgender, ecc.)
I
primi documenti che ho raccolto sulla violenza di genere risalgono all’inizio
del 2000, ma già dalla metà degli anni 70 mi ero occupata di vittimologia e di
devianza femminile.
Il
primo articolo che lessi riguardava uccisioni violente di donne in Spagna che
per le modalità con cui venivano condotte, facevano subito pensare che gli
assassini, quasi sempre in ambito famigliare, volessero esprimere così il loro
odio verso l’altro sesso. I casi in quel periodo furono così tanti che un
gruppo di registi spagnoli decise di aprire un dibattito sul tema attraverso il
cinema. Il film più famoso fu senz’altro quello di una regista spagnola Iciar
Bollain dal titolo The doy mis ojos tradotto ambiguamente in tedesco Öffne
deine Augen, ambiguo perché si passa, come era nell’intenzione del
film, dal massimo gesto d’amore, “ti darei i miei occhi”, ad “apri gli occhi”,
che invece potrebbe essere il consiglio di una persona non coinvolta
emotivamente nella situazione. L’emittente ARTE mostrò questo ed altri film
spagnoli seguiti da una prima documentazione sulla violenza di genere che
parlavano soprattutto della violenza fisica e infatti la protagonista, per
l’ennesima volta presa a botte dal marito, perde un occhio e solo allora si
decide ad abbandonarlo. Molto interessante nel film la costellazione parentale,
oltre ai coniugi e al loro bambino di 8 anni, ci sono anche la sorella e la
madre della protagonista. La sorella insiste perché Pilar, abbandoni il marito
quanto prima, la madre invece le consiglia di restare e “salvare” la famiglia.
Il marito alla fine si dichiara disponibile ad una terapia di gruppo per uomini
violenti. Da quel momento i media si sono interessati molto al tema, perché la
violenza fisica è la forma più diffusa e più facilmente rintracciabile sul
corpo e sono sorti proprio in quel periodo centri di terapia per il recupero di
uomini violenti, il primo in Norvegia e subito dopo anche in Italia.
La
violenza fisica è un fenomeno spesso legato all’abuso di alcol e droghe, a
difficoltà finanziarie, alla disoccupazione e ad un carattere di base iroso e
instabile. Sicuramente è quella più facilmente sanzionabile dal punto di vista
legale, dati i segni inconfutabili che lascia sulle vittime e anche quella più
facilmente da sottoporre a terapia con discreti risultati, come si può leggere
in alcuni articoli del centro maschile antiviolenza della città di Modena.
Soprattutto nel momento iniziale dell’innamoramento la donna non vuole
ammettere che il principe azzurro non è proprio tale, e rimane disponibile più
del dovuto, come se amore e violenza fossero due facce della stessa medaglia.
Le donne sopportano, sperando di riuscire nella loro missione di riportare il
compagno alla ragione, di salvare la famiglia. Ma questo, senza un’adeguata
terapia, non avviene mai. L’espressione massima della violenza fisica è il
femminicidio o quello che ancora si chiama suicidio allargato, che ci pongono a
confronto con una realtà del massimo disagio psichico dell’aggressore, che si
suicida dopo aver ucciso gli altri componenti della famiglia. In questa sede
non è mia intenzione scrivere sul femminicidio, ma focalizzare l’attenzione
sulla violenza psicologica. Mi permetto solo di citare al proposito Michela
Murgia che, nel suo nuovo blog: osservatoriofemminicidi@repubblica.it
scrive:
“Morte o mortificazione: ecco che cos’è un femminicidio. La morte fisica è
possibile solo dove sono già state consentite tutte le negazioni di dignità
fisica, psichica e morale”.
Ecco
perché vorrei portare l’attenzione su quell’aspetto finora meno trattato e poco
conosciuto che è il gas lighting e comprende tendenzialmente tutte le
sfaccettature della violenza psichica. Sottolineo che non necessariamente la
violenza psichica porta al femminicidio e non sempre è accompagnata da violenza
fisica. Scopo primario del gas lighting è quello di assoggettare la vittima e
di farle perdere fiducia e autostima. Al proposito vorrei fare una piccola
digressione linguistico storica. Esiste in italiano la parola soggezione, oggi
desueta, ma che ha lasciato tracce nelle generazioni precedenti (mamme e nonne)
ma anche nell’infanzia di chi è nato nel dopoguerra. Si era in soggezione alle
volte in famiglia, davanti ai padri, talvolta anche alle madri che incutevano
soggezione di preferenza alle figlie femmine, o ai fratelli, ma anche al di
fuori di essa, dove esistevano gerarchie e rapporti di forza, a scuola - quella
elementare -, nelle associazioni religiose, davanti al parroco, alla madre
superiora, al direttore didattico, spesso anche davanti al medico di famiglia,
si sentiva cioè un misto di timore e la consapevolezza di non essere in grado,
né di avere il permesso di reagire nei loro confronti. Si era infatti
consapevoli che queste persone detenevano il potere. Ecco perché
l’assoggettamento ha trovato terreno fertile, perché era già una componente
accettata della vita sociale quotidiana. Ma torniamo al gas lighting, connesso
anche al victim blaming, cioè la colpevolizzazione della vittima, i cui
scopi sono quelli di disorientarla, renderla insicura e quindi di manipolarla
fino a farle perdere completamente l’autostima e portarla alla depressione e al
tracollo psichico. Si tratta di un lavoro costante, paziente, fatto di
dettagli, che col passar del tempo, perché ci vogliono mesi, anzi anni prima che
la vittima si accorga della pericolosità del partner e della sua strategia di
distruzione. Una violenza dunque recepita spesso solo all’interno della coppia,
o anche tra famigliari e amici, che si avvale in un certo senso di formule
ancora “accettate socialmente”, come le osservazioni “Ma sei sicura?”, “Ma
cosa dici?”, “Ma ti sei guardata allo specchio?” “Ma
guarda che ti sbagli, non è colpa mia” “Ah, ma vai ancora ad
incontrarti con le donne del gruppo? Ma non ti sei ancora stancata
di ascoltare quelle sceme?

Opera di Max H. Sauvage
Frasi
che inizialmente vengono dette sorridendo e magari con un buffetto sulle
guance. E permettetemi di dirlo il buffetto nasconde spesso una forte carica
aggressiva, trattandosi non di un rapporto tra nonno e nipotino, ma tra uomo e
donna. Spesso si mettono in dubbio situazioni accadute e ricordi. Il
manipolatore con la sua versione dei fatti e la sua costante sicurezza provoca
nella vittima dubbi e sensi di colpa, anche se questa non ha commesso errori.
Il manipolatore inizierà anche a lamentarsi della poca solidarietà della
compagna e magari a mostrare segni di disperazione: “Non ce la faccio più, i
soldi pochi, lo stress sul lavoro, tu che non mi dai una mano”. Il suo scopo è
quello di far aumentare il senso di colpa e forzare la disponibilità della
vittima a cercare in sé stessa la fonte dell’errore. La vittima, messa a
confronto con le sue presunte responsabilità, non nutre sospetti nei confronti
dell’altro, anzi cerca inutilmente di convincerlo con le buone che non è così,
che c’è un fraintendimento. Parliamo di violenza invisibile perché spesso
questi commenti si svolgono anche in situazioni normali, con passaggi lievi, ma
mirati. Alle volte possono poi trascendere passando alle minacce e anche alla
violenza fisica, ma questa, pare, più raramente. Molto spesso si tratta di un
passaggio fluido, in cui si minaccia la persona anche con oggetti contundenti,
ma senza che si passi poi all’azione. Quello che conta è la paura che nasce
dalla minaccia e la sensazione che ci sia un pericolo incombente e quindi possa
succedere di tutto, per cui la donna reagisce, cercando di placare le ire del
coniuge, soprattutto per non svegliare i figli e traumatizzare anche loro.
Spesso troviamo anche la privazione del sonno, che è riconosciuta come forma di
tortura vera e propria, se si parla di detenuti in isolamento penitenziario, ma
non mi risulta che le donne vittime se ne rendano veramente conto mentre questo
accade, prese come sono dal logorio continuo della discussione e delle
recriminazioni, che possono protrarsi per molte ore, in cui la donna cerca di
controbattere portando argomentazioni logiche, che vengono però subito
vanificate. Quando si aggiunge il victim blaming, la donna può venire
incolpata anche davanti ad altri membri della famiglia o addirittura pubblicamente.
Discutere con un gaslighter non ha senso. Lui argomenterà sempre, che tu
non lo capisci, che esageri o che sei matta, togliendo sistematicamente alla
vittima “la terra da sotto i piedi” con il risultato di gravi scompensi
psichici.
