UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

martedì 30 ottobre 2018

PERCHÉ IL FASCISMO NON SIA PIÙ, OGGI COME IERI,
L’AUTOBIOGRAFIA DELLA NAZIONE
di Franco Astengo


Benito Mussolini

Il 28 ottobre ricorre l’anniversario della Marcia su Roma: data simbolicamente assurta ad inizio del regime fascista. A distanza di tanti anni, esattamente novantasei, ci troviamo alle prese con evidenti rigurgiti fascisti nella pratica di vere e proprie provocazioni poste in atto in termini di simbologia e richiamo diretto, come abbiamo potuto notare proprio in questi giorni in alcuni episodi accaduti, per esempio, a Savona. Ma veri e propri rigurgiti fascisti si avvertono anche a livello di schemi culturali, di comportamenti a livello di massa, di opzioni politiche concrete portate avanti da soggetti che si collocano al governo del Paese e appaiono incontrare apparenti irresistibili fortune elettorali e di consenso da parte dell’opinione pubblica, senza ricevere quel contrasto che meriterebbero.
Ricordando che il fascismo salì al potere pur rappresentando un’esigua minoranza parlamentare sulla base proprio di una mancata opposizione e di un accompagnamento “furbesco” attuato da coloro che pensavano di addomesticarlo anestetizzandolo nella gabbia del potere.
L’attuale situazione, nella quale si stanno riproducendo soprattutto i temi più deteriori del razzismo deve essere affrontata attraverso l’espressione costante della negatività dei principi che il fascismo ha rappresentato realizzandone la costante comparazione con ciò che sta concretamente accadendo.
Per questo motivo la conoscenza assume un valore fondamentale ed è in questo senso che attraverso le note che seguiranno si cercherà di offrire un contributo attraverso un tentativo (certo parziale e appena abbozzato) di ricostruzione storica del peggior fenomeno che ha attraversato la storia d’Italia e d’Europa.
Questa sommaria ricostruzione è destinata anche a tener desta l’attenzione sui rischi che sta correndo in questo momento la nostra democrazia avvolta in un pessimo clima politico, morale e culturale.
Il termine fascismo nasce con i Fasci siciliani (189-1893), ma la prima fortuna politica di questo appellativo si colloca tra il 1914 e il 1919, a partire dai Fasci di azione rivoluzionaria, che propagandavano l’intervento italiano nella prima guerra mondiale, precedendo quindi l’adunata dei Fasci di combattimento di Milano del 23 Marzo 1919, atto di nascita del movimento mussoliniano.
Il fascismo nasce, quindi, come punto di aggregazione di reduci dalla guerra rimasti ai margini nel processo di riorganizzazione della vita pubblica nell’immediato dopoguerra, riorganizzazione fondata sui nuovi grandi partiti di massa e sulla convivenza tra questi e gli antichi ceti notabilari dell’Italia liberale.
I reduci di guerra, in particolare del corpo degli Arditi, si mossero così sulla base di contorni politici piuttosto vaghi, all’insegna di slogan che oggi potremmo riassumere come quelli della “rottamazione” o del “tutti a casa”.
Il fascismo, in questo modo si inserì, nei primordi, in un filone di generico ribellismo, schierandosi tuttavia da subito su di una linea violentemente anti-socialista e anti- democratica, all’insegna di una non meglio precisata “selezione di valori”.
Il fascismo respinse ogni egualitarismo e in tale senso la paternità ideologica del fascismo deve essere attribuita, in larga parte, al nazionalismo.
In tempi come quelli attuali di crisi verticale del quadro internazionale il tema del nazionalismo, dovrebbe fare una qualche impressione in un lavoro comparativo svolto da sinceri democratici.
Non a caso proprio il nazionalista Alfredo Rocco sarà, più tardi, l’autentico “architetto” del fascismo diventato regime.
Nella sua prima formulazione l’ideologia dei fasci apparve debitrice anche verso movimenti come il futurismo e l’arditismo, esaltatori dell’italianità della guerra e della giovinezza, e portatori di un generico rifiuto della “normalità” borghese (in questo senso, sempre riferendoci agli esordi, esiste una possibilità di comparazione sul piano internazionale con l’Action Francais di Maurras).
Dopo il fiasco elettorale del novembre 1919, dall’autunno del 1920, grazie ai massicci finanziamenti di organizzazioni agrarie, soprattutto in Val Padana, il fascismo assunse, sul piano organizzativo, il volto dello squadrismo.
Uno squadrismo tollerato, quando non aiutato dalle istituzioni dello Stato.
Sul piano ideologico il fascismo lasciò cadere le pregiudiziali contro la monarchia e la chiesa cattolica.
L’ambiguità ideologica diventerà, da questo punto in avanti, una costante del pensiero fascista che si articolerà in una complessa varietà di posizioni.
Lo stesso Mussolini, del resto, non nasconderà mai il proprio “relativismo” sul terreno filosofico – politico.
La linea di oggi è quella del “né di destra, né di sinistra”, mentre si punta decisamente verso l’elettorato di destra sia da parte della Lega, sia da parte del M5S: ma non possiamo dimenticare precedenti illustri con la “vocazione maggioritaria” proclamata prima da Veltroni e poi da Renzi.
Tornando alle origini del fascismo:davanti al ripiegare del movimento socialista il fascismo si schierò in modo esplicito all’estrema destra.
I liberali, ormai in pieno disfacimento, credettero di poter compiere un’operazione d’inserimento del fascismo nelle istituzioni attraverso un processo di progressiva integrazione e assorbimento “nella legalità” e ne favorirono, attraverso la presentazione di liste di “Blocco Nazionale”, l’ingresso in Parlamento con le elezioni del maggio 1921.
Un’analisi rivelatasi, alla fine, del tutto fallace.
Con l’ingresso in Parlamento il fascismo si avviò alla trasformazione in partito che venne formato (con la denominazione Partito Nazionale Fascista) nel Novembre del 1921.
Il PNF teorizzò, da subito, quello che sarà definito “doppio binario”, quello legale e quello insurrezionale e l’ascesa al potere avvenne in una forma a metà dei due versanti con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922.
Giunto al potere, mentre si dedicava all’edificazione delle strutture istituzionali di un regime poi giudicato a posteriori d’imperfetta vocazione totalitaria, il fascismo affrontò l’elaborazione di un apparato teorico – politico.
Ma l’intellettualità fascista era costituita, in primo luogo, non da ideologi ma da organizzatori.
Lo stesso filosofo Giovanni Gentile, entrato nel primo governo Mussolini e autore di quella che è stata definita la “più fascista delle riforme” quella della scuola, svolse lungo il ventennio un ruolo di straordinario organizzatore culturale.
Un ruolo di organizzatore culturale che gli consentì di egemonizzare gran parte del ceto intellettuale italiano.
Sul piano teorico Gentile fu un convinto sostenitore della continuità tra il liberalismo classico, incarnato nell’Italia della “destra storica”, e il fascismo: la “storicità” del fascismo (cui si contrapponeva il bolscevismo con la sua “antistoricità”) avrebbe dovuto dimostrare, partendo dalla volontà di conciliare le esigenze dell’individuo e quelle dello Stato (in un processo di subordinazione dell’una verso l’altra), la possibilità di realizzazione dello Stato Etico.
La Stato delineato da Alfredo Rocco, invece, fu tratteggiato in termini più marcatamente organicistici.
Lo Stato fu considerato come il “grande tutto”: in esso sarebbe stata superata la lotta di classe per proiettarsi, poi, grazie alla riconquistata solidarietà nazionale, nella competizione internazionale in nome della potenza demografica e del destino della nazione.
Tra Gentile e Rocco, comunque, la differenza – sul piano delle prospettive tendenziali – risultarono, alla fine, sfumate o comunque unificate, in primo luogo, dal punto vero di intersezione delle anime del fascismo: quello relativo al culto del “Duce”.
Il “Duce” rappresentava la guida che tracciava il cammino, il capo assoluto.
Il culto del Capo, è bene ricordarlo, è tornato molto di moda nell’attualità in forma anche diversa da quella che ha caratterizzato il ventennio precedente dalla presenza di un “imprenditore passato alla politica”.
Ai nostri giorni la “cultura dello Stato” è naturalmente affatto diversa, ma egualmente finalizzata alla detenzione del potere in una società massificata e neutralizzata dall’espressione di una cultura dell’individualismo e del consumo: fenomeni favoriti dall’espansione nell’uso dei mezzi di comunicazione di massa in esclusiva funzione di marketing riducendo l’offerta politica altresì come quella culturale  a “prodotto”.
Gli intendimenti di fondo però tra il tipo di massificazione sociale imposta negli anni’30 e quella determinata adesso sono identici: il potere posto al di fuori dalla verifica democratica.
La verifica del consenso riservata all’esercizio di un’autonomia del politico appannaggio esclusivo di un ceto politico provvisto della possibilità esclusiva di usufruire di incentivi selettivi, esattamente come i gerarchi del ventennio.
Torniamo però al filo conduttore del nostro discorso.
Accanto al mussolinismo, lo statalismo fu il dato unificante del fascismo.
Pur rimanendo rilevante il peso del PNF e delle sue gerarchie, fu lo Stato a prevalere, anche sul piano teorico.
Lo stesso dibattito, del resto molto vivace, sul corporativismo, pur mettendo in luce una pluralità di posizioni (dalla rigida gabbia statuale prevista da Rocco, fino alla “corporazione proprietaria” di Ugo Spirito), finì con l’assestarsi nella forma più blanda sostenuta da Bottai rispetto a quella propugnata da Alfredo Rocco.
Corporazione proprietaria” rappresenta un altro termine che sta trovando pratica applicazione nell’attualità del dibattito politico, specialmente quando si osserva il tentativo di distruzione dei corpi intermedi rappresentativi delle diverse realtà sociali.
Il fascismo tese a presentarsi, inoltre, come squisitamente “italiano” e “romano”: torna qui il tema ricorrente del nazionalismo-bellicista.
L’alleanza con la Germania hitleriana e l’intervento nella seconda guerra mondiale, accentuarono i caratteri ideologici propri del fascismo degli esordi, come il bellicismo e, di converso, fecero emergere tratti ideologici propri di quella successiva fase rimasti in ombra quali il razzismo e l’antisemitismo.
Alcuni di questi caratteri, ma soprattutto il rifiuto della democrazia e la lotta senza quartiere proclamata al bolscevismo, consentirono di identificare un ruolo internazionale del fascismo, attivo in Europa, e felicemente definito da Palmiro Togliatti come “regime reazionario di massa”.
Una definizione che ha consentito, anche dopo la caduta del regime, di leggere il fenomeno del fascismo in senso transpolitico, come una sorta di cesarismo tipico del XX secolo basato su di un capo carismatico.
Un capo carismatico che portava avanti la ricerca del consenso delle masse attraverso una strumentazione di tipo propagandistico e pedagogico, l’adozione di slogan rivoluzionari (intesi per lo più in una direzione aggressivamente nazionalistica) nemica tanto della democrazia quanto del comunismo.
In ogni caso le interpretazioni del fascismo puntano oggi a una articolazione di giudizio (ben oltre la rigida definizione di Dimitrov: “Dittatura terroristica degli elementi reazionari, più sciovinistici e più imperialistici del capitale finanziario”).
Queste interpretazioni si pongono in relazione all’analisi socio – politica del nesso tra fascismo e classi sociali, con particolare riguardo alle classi medie, insistendo molto (anche grazie agli spunti offerti da Adorno e da Horkheimer) sulla tema della personalità autoritaria e su di un presunto ruolo “modernizzatore”.
Nel modello autoritario un rapporto gerarchico di sfruttamento tendendo a tradursi in un atteggiamento orientato verso il potere e di dipendenza portandolo ad un attaccamento disperato a tutto ciò che appare forte (il gruppo, il partito, la legge, lo stato, la razza ecc.) e un rifiuto di tutto ciò che è relegato al fondo.
Quali contro-misure adottare contro l’intera struttura dell’atteggiamento del pregiudizio? Un tema di grande attualità se osserviamo attentamente ciò che accade.
Il nazionalismo che rimane la matrice diretta del fascismo di allora e di oggi, rimane prodotto dell’organizzazione totale della società, che può essere mutato soltanto mutando la società. In precedenza alle riforme sociali e/o rivoluzioni serve, come già accennato in precedenza. l’aumento nella capacità culturale della gente
E’ necessario lavorare per attuare quella presa di coscienza che permetta agli individui di riconoscere che il fascismo è qualcosa di imposto e contrario ai loro interessi.



POESIE DI NICOLINO LONGO


LA MIA FAMIGLIA

È ormai da lungo tempo che
la mia famiglia
è stata fatta a pezzi
dalla morte
 Anche se a breve
sarà la morte stessa
a ricomporla, ma facendone
dei pezzi l’ “assemblaggio” al cimitero

  
ATTESA

Appeso ai domani
penzolo negli oggi.


NELLA VITA

Prima ci si sposa
poi ci si spossa.


LE SCALE
Non una Ma addirittura due
sono le “scale” che
consentono spesso
e a parecchia gente
 di salire prima
e in un battibaleno
dalla terra al cielo:
la… “Mercalli” e la “Richter”


lunedì 29 ottobre 2018

LA POESIA
Pierfranco Bruni
Pierfranco Bruni


Se ti incontrassi in questa sera di silenzio 
ti guarderei soltanto negli occhi 
madre 
per regalarti almeno 
un sorriso spezzato   
dalle malinconie sfiorate dalle parole 
consumate per allontanare le solitudini 
nel canto della tua assenza.  
Io vivo di ombre che si riflettono 
nei vetri di vento delle nostre lontananze. 
Tu conosci ogni mio gesto ogni mia eco 
nell'abbracccio ineguagliabile 
dei nostri distacchi. 
Eppure nessuno mai avrà la nostra complicità e la tua pazienza 
nell'aspettarmi nel tempo impensabile 
di una attesa finita 
madre. 
Mi manchi nelle stanze dell'anima. 
Con amore di figlio 
conosco il filo che ci legò  
unico pianto vero strappato agli aironi 
nel sonno sveglio 
che lacera le mie inesistenze. 
Madre 
con cuore di figlio 
giungo al porto dei gradini 
con la verità che solo tu per dono  
mi hai consegnato. 
Con amore di madre 
nel cercarmi ti trovo 
tra le dita di terra. 

Libri
IL CAPITANO DI BASTUR
in libreria il romanzo di Claudio Alvigini

Claudio Alvigini

C’è in noi qualcosa che nulla sa del tempo e dello spazio e tuttavia, come il filosofo della Città Ideale, è spettatore di tutti i tempi e di tutta l’esistenza: sensi vibranti, passioni nascenti, estasi spirituali e di contemplazione, ardori di un amore infuocato. Siamo noi a essere irreali, e la nostra vita cosciente è la parte meno importante del nostro sviluppo. L’anima, l’anima segreta è la sola realtà.” Un pensiero, questo, di Oscar Wilde che nella sua essenza ben ci introduce in questo romanzo di Claudio Alvigini, edito da Macabor con un titolo alquanto suggestivo e affascinante, Il capitano di Bastur. Basin, un ragazzino la cui storia sarà al centro delle vicende narrate e tutti i personaggi che si muovono in questa storia, ci riportano in una irrealtà che svela il momento decisivo dell’esistere (oggi come ieri o domani); quel momento dell’esistere che riposa negli anfratti del tempo e che ha il coraggio di risorgere attraverso l’azione letteraria. Certo, i personaggi de Il capitano di Bastur sono immaginari e vivono in uno spazio avvolto di mistero in cui l’idea “poetica” della scoperta affiora e si accorda in un universo nel quale, smarriti i suoi accenti conosciuti, finisce per diventare, almeno agli occhi del lettore, trasalimento e tremito. Un romanzo che consigliamo a tutti di leggere. [a. m.] 

La copertina del libro

Per richieste all’Editore:
Macabor Ed. via Manzoni n. 6
87072 Francavilla Marittima (Cs)
Tel. 389-6411603


EVENTI
A COMO CON 
“GLI AMICI DEL 
CLUB QUASIMODO

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Stato Uomo e caso Khashoggi
di Giuseppe Bruzzone


Sono sostenitore della tesi per cui nella situazione "nucleare" in cui ci troviamo, una situazione climatica che peserà sempre più nelle nostre vite di uomini e donne aldilà di qualsiasi nazionalità, occorra una modalità personale di essere cittadino/a di uno Stato. Non è accettabile, direi per nessuno in senso lato, che qualcuno possa decidere, eventualmente, della morte di altre persone, abitanti del proprio Stato, senza avere enunciato questa possibilità. E' questa la realtà che ci troviamo di fronte.
Poche persone in un Paese possono decidere per potenziali massacri, in una misura mai avvenuta nella nostra storia umana che ci riguarda. E non c'è vergognoso anticipo da primo colpo che tenga, di una bassezza morale che, in fondo, smaschera il sistema "guerra" che finora ha trionfato. Non ci sono guerre "giuste" se anche dopo la sconfitta del nazismo ci si ritrova in questa situazione di riarmo generale, nucleare e tecnologico, con gli Stati che ieri come oggi pensano di "difendersi" da un "nemico" armandosi a più non posso. Ma se essi son costituiti da noi cittadini qualcosa dovremo pur dire, o no? Chi ha dato ai propri governanti la potestà di decidere di noi stessi, in una misura così totale?
Se c' è un motivo, pesantissimo, che segna la differenza tra XX e XXI secolo è il fatto che il tipo di guerra che potrebbe essere scatenata non permette di ritornare ad un altro punto di partenza, come in precedenza. Tale e tanta la devastazione che ne potrebbe derivare, per di più con il coinvolgimento aggiuntivo di Paesi NON in guerra!
E' questo il senso della giustizia che abbiamo noi guerrieri che facciamo la guerra perché vogliamo il "giusto", cioè che il nostro Stato, magari alleato con altri, valga più di tutti?
Dobbiamo pensarci prima e per tempo, altro che situazioni geo-politiche di cui raccontare gli sviluppi come qualche storico continua a fare facendo finta di non sapere ed essere, in tempi nucleari!
E cosa dire di quanto accaduto ad un giornalista arabo Khashoggi di cui non si sa più nulla dopo il suo ingresso in un consolato arabo in Turchia? Del gioco messo in atto tra due Stati alleati fra loro, con posizioni politiche identiche in Medio Oriente contro altri Paesi e con compravendita di armi in atto, Stati Uniti e Arabia Saudita?
La vita del singolo sparisce davanti agli interessi, ritenuti di valore superiore in certi momenti, dal proprio Stato? Sembra di sì, come finora è successo. Tanto più con un pagamento di diversi milioni di dollari erogati dall'Arabia agli Stati Uniti per l'acquisto delle armi, proprio in quel frangente di ricerca di una qualche "soluzione" del caso da "offrire" all' opinione pubblica. Ma che non inciderà, come successivamente dichiarato dallo stesso Presidente americano sull'alleanza tra i due Paesi, non dimenticando l'altro loro alleato, quell' Israele sostanzialmente in mano al fondamentalismo ebraico che non ha problemi, per i propri interessi, ad accompagnarsi al fondamentalismo islamico.
Ora questi "giochi" tra Stati da cui scaturiscono anche guerre in atto in varie parti dell'Africa o Medio Oriente facendo morire migliaia e migliaia di persone, o fuggire chi può farlo, per poi comparire "in crociera" nel Mediterraneo suscitando la riprovazione di tanti, in questi tempi, anche con cariche istituzionali. Mai queste persone hanno dichiarato basta guerre, vendere armi per farle, basta alleanze militari, basta sfruttamento dell'Africa imponendo colture di comodo e impossessandosi delle loro ricchezze minerarie o petrolifere (quelle ancora non in mano alla Cina che perlomeno ha creato infrastrutture dove è intervenuta). L'importante è non avere problemi, non doversi porre molte domande su cos' è la vita per persone che magari hanno figli come te o anche giovani con un cellulare nuovo, avuto o comprato (si preferisce rubato?) che comunque vuole una vita diversa da quella vissuta fino ad allora.
La questione, come sempre, è politica. Inutile girarci intorno. Se è una politica delegata continueremo con queste problematiche più o meno accentuate, tenendo sempre in considerazione che un giorno potremo, tragicamente, giungere ad un punto di non ritorno. Se la politica diventerà sempre più umana, nel senso vero della parola, mettendosi alle spalle determinati interessi imbecilli perché non si chiedono mai cosa succederà "dopo", allora potremo, forse, avere qualche speranza in più per un avvenire da lasciare ai nostri figli e nipoti. (Roba da buonisti, non è vero?).
P.S. La scelta del Presidente americano di rigettare l'accordo sui missili a corto- medio raggio dovrebbe spingerci alla ratifica del Tpan con la maggiore determinazione possibile da parte di tutte le forze ad esso favorevole. In Italia e estero.
L’INVERSIONE DI TENDENZA
di Franco Astengo

Bandiera dei 5 Stelle in fiamme in Salento

Propongo a tutti uno spunto di riflessione, basato su due affermazioni che mi paiono incontrovertibili:
1) Nella fase della rivoluzione industriale e della centralità dell’Occidente abbiamo assistito a un progressivo processo di politicizzazione delle masse, dal quale sortirono - tra l’altro e non certo come esito meno importante - i partiti politici moderni superando così lo schema della “democrazia dei notabili” e del “caminetto”;
2) La fase successiva quella aperta dalla mondializzazione dell’innovazione tecnologica dell’esportazione del consumo senza limiti dell’egemonia dell’individualismo che sta sfociando nel dominio dell’esasperazione della velocità comunicativa e della conseguente prevalenza dell’apparire nell’esercitare la “pressione decisionale” coincide con la crescita apparentemente inarrestabile del processo di spoliticizzazione.
Ha richiamato l’attenzione su questo punto Giorgio Agamben che dopo aver analizzato il tema dichiara, nel corso di una sua intervista rilasciata il 28 ottobre a “Robinson” inserto culturale di Repubblica: “Una società fatta di telecamere e di dispositivi di sicurezza non può essere democratica”.
La domanda a cui dare risposta è questa: qual è il punto d’attracco su cui si può far approdare un processo di nuova politicizzazione di massa invertendo la tendenza in atto alla spoliticizzazione?
Sarà questione di ridefinire la scala di qualità delle contraddizioni oppure di ricostruire gli strumenti perduti dell’agire politico?
Esiste una funzione che, in passato, era stata svolta dai grandi partiti. Una funzione che risulterebbe decisiva proprio a questo proposito: quella di “alfabetizzazione di massa” portata avanti non soltanto al riguardo della “identificazione politica” ma, più complessivamente rispetto alla cultura nel suo insieme, agli aspetti storici, filosofici, letterari, artistici.
Una funzione pedagogica che dovrebbe servire innanzi tutto a ricordare in ogni momento la tesi 11: non basta descrivere il mondo (e amministrarlo così com’è) ma occorre cambiarlo.
E per cambiarlo occorrono “scienza e coscienza” oltre che visione.
Sotto questo aspetto appare deficitaria, anzi quasi assente, l’Università che almeno nelle principali facoltà di Scienze Politiche (limitando il nostro campo di osservazione all’Italia) pare aver trascurato l’aspetto dei riferimenti ideali e storici privilegiando l’insegnamento di schemi predeterminati che costringono e obbligano il rapporto politica e società tutto all’interno della policy in luogo della politcs .
Così la governance diventa assolutamente dipendente dalle ragioni dell’economia e della tecnica e non esprime mai il portato dell’idealità delle ragioni storiche che la “politics” dovrebbe recare con sé quale bagaglio delle parti determinate. Un bagaglio da utilizzare per costruire la misura dei rapporti di forza possibilmente al di fuori dai termini che presenta l’attuale quadro italiano così ben descritto da Rossanda: le “frottole” del M5S e la “cattiveria” della Lega.
Dovremmo cercare di riprendere uno sviluppo di analisi in modo da porre al processo di costruzione della decisionalità l’esigenza di superare il mero pragmatismo nell’affrontare i temi dell’economia e della tecnica. Disponendo, appunto, di visione.
Dobbiamo fermare questa apparentemente inarrestabile rincorsa verso una società composta quasi per intero da telecamere.
Altrimenti il risultato di questa rincorsa sarebbe quello che andrebbe bene a chi riuscisse a rimanere costantemente inquadrato e male per chi restasse oscurato per sempre. Una divisione quasi manichea tra “dentro” e “fuori”, per una struttura sociale al riguardo della quale Orwell risulterebbe soltanto parzialmente profeta.


Studenti siciliani in alternanza scuola-lavoro
sui sottomarini e i caccia da guerra
di Antonio Mazzeo

Gli stage di Alternanza Scuola Lavoro per gli studenti siciliani dell’Istituto d’Istruzione Superiore “Carlo Alberto Dalla Chiesa” di Caltagirone e Mineo? Pagando 300 euro per cinque giorni tra i sottomarini, i caccia e gli elicotteri ospitati nelle basi di guerra pugliesi, con tanto di incursioni ed escursioni in compagnia dei fanti di marina del Reggimento “San Marco”. Mercoledì 24 ottobre gli alunni frequentanti quattro classi dell’ISS “Dalla Chiesa” sono partiti alla volta di Martina Franca per intraprendere le attività di Alternanza Scuola-Lavoro previste da un protocollo firmato tra la dirigenza e la Marina Militare. Intenso il programma predisposto dai vertici della forza armata. Il 25 ottobre “percorso formativo” presso la Caserma “Carlotto”, sede del Reggimento “San Marco”, truppa d’elite delle forze armate italiane e NATO. Successivamente, visita al “Monumento del Marinaio”, la brutta struttura in cemento armato a forma di timone realizzata nel porto di Brindisi nel 1933 per volere di Benito Mussolini per “commemorare i caduti della Grande Guerra”. Venerdì 26 ottobre invece, visita della base aerea della Marina Militare di Grottaglie con altro “percorso formativo” a cura del personale di MARISTAER per conoscere, si immagina, le intrepide operazioni di bombardamento dei caccia AV-8B II Herrier in Serbia, Kosovo e Montenegro nel 1999 e in Afghanistan (2001-02) o, forse, le giravolte sperimentali dei nuovi prototipi di droni d’attacco made in Italy. Sabato 27, visita alla base navale di Taranto con “percorso formativo presso il Centro Scuole e visita a bordo dei sommergibili e delle unità navali se presenti in porto”. Dulcis in fundo, domenica 28, con la visita guidata al Castello Aragonese di Taranto di proprietà della Marina Militare, al Canale Navigabile e al Ponte Girevole. In serata partenza in pullman per rientrare in Sicilia. Il costo pro capite è di trecento euro”, riporta in calce la circolare dell’ISS “Dalla Chiesa”. “Per motivi di sicurezza non sono menzionati i percorsi oggetti di interesse. Gli Studenti saranno accompagnati da Ufficiali e Sottufficiali istruttori per tutto il periodo di percorso. Si precisa che qualora dovessero svolgersi in tale date eventi istituzionali al momento non programmati/programmabili, l’attività potrebbe subire variazioni nelle modalità esecutive, ovvero revocate, anche con breve preavviso”. Cioè, paghi, ma non è certo che sali a bordo dei mezzi di alternanza scuola-guerra. Ma se sei fortunato, magari potrai toccare con mano l’ultimo “gioiello” prodotto nelle industrie di morte di Cameri-Novara, il cacciabombardiere F-35B “a decollo corto e ad atterraggio verticale”, consegnato alla Marina a gennaio e attualmente in fase di collaudo sulla portaerei Cavour e a Grottaglie. La scuola italiana è davvero partita per la guerra.

SAGGEZZA IN VERNACOLO
di Nicolino Longo 

"Salvinu e Di Maiu danu u postu a l’italiani, quannu Pasca vena di maiu"  

Traduzione: "Salvini e Di Maio daranno il lavoro agl’italiani, quando Pasqua verrà di maggio"

EVENTI

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VITO VACCARO A BUSTO ARSIZIO
LA POESIA DEL VERO
Dal 10 novembre al 2 dicembre

sabato 27 ottobre 2018

MILANO, TRIESTE, STRESA
Fra delusione, incanto, dolorosa nostalgia
di Fulvio Papi

Milano. I nuovi grattacieli

Il direttore di «Odissea» mi chiede di scrivere qualcosa sulla mia città. Impresa a me molto difficile per due ragioni: l’una oggettiva, l’altra personale.
Quella oggettiva mi suggerisce che Milano, come altri imponenti agglomerati urbani, non è una città che, non essendo da tempo un’unità strutturata culturalmente, dovrebbe diventare un’unità etica, cosa che si è mostrata opposta nel suo destino. Rimane la parola, non il referente. Del resto noi chiamiamo “cannone” il nostro mostro distruttivo, così come i soldati del turbolento Rinascimento chiamavano la loro arma. Le poche cose che seguono possono illustrare le mie difficoltà.
Vivo in uno spazio di Milano, “Città Studi”: un capolavoro (fu però molto caro l’acquisto del terreno) dell’urbanistica e dell’architettura dell’amministrazione fascista (e non credo vi sia qualche cretino che voglia ricordare a me il valore dell’antifascismo). Certo, vi era alle spalle l’urbanistica tedesca socialdemocratica degli anni Venti, poi copiata dai nazisti, con l’eccezione del “grandioso” (l’aggettivo è di Heidegger filo-nazista) per l’autocelebrazione del potere del regime. Ora l’“esecranda fame dell’oro” vuole ridurre Città Studi a terreno edificabile dove anche un inesperto indovina subito una potente rete speculativa ed una architettura con un principio formale quale viene interpretato dalla solita volgarissima estetizzazione del mercato.
Continuerò dicendo che le mie difficoltà identitarie derivano proprio da questa imponente mercificazione della città con tutte le conseguenze che la sfigurano: il pubblico che diventa un lucroso privato, la corruzione come costume, la memoria cancellata da un presente simile a una grottesca teologia, la presenza del malaffare, la diffusione del teppismo, lo stile politico precipitato in un lessico da bar domenicale di una lontana provincia, l’inquinamento - mai veramente combattuto - distruttivo, una vocazione un poco pompieristica (come avrebbe detto il mio indimenticabile amico Paolo Grossi) in ogni iniziativa. Sull’urbanistica e l’architettura ho già detto ciò che pare indispensabile.

Veduta della Galleria

Il valoroso sforzo per organizzare una cultura popolare, la valorizzazione monumentale-turistica- archeologica della nostra tradizione è cosa buona, ma non cancella il resto. E a me resta il desiderio-immaginazione di finire il mio tempo altrove (in Provenza, nella Selva Nera, sul Lago Maggiore). Tuttavia ritorna il ricordo di una città che tanti anni fa avevo amato così profondamente da dedicarvi con passione tutte le forze possibili della mia vita giovanile. Era la città ancora piena di macerie, monumenti solenni della follia criminale di chi aveva voluto la guerra. Ma, giorno per giorno, la città ricostruiva se stessa: un’opera alla quale, più o meno consciamente, ognuno si sentiva impegnato al meglio delle proprie energie (andate a vedere le cifre del prestito della ricostruzione). La vita sociale, ritrovata dopo lunghi giorni di paura e di affanno, era dominata da un’eticità collettiva che si difendeva da ogni forma di barbarie. Un’eticità che si poteva leggere sul giornale o, addirittura, sui manifesti politici che infioravano i muri delle case. La rarità di ogni bene era medicata da quella confidenza con la forza della speranza. La cultura, ogni sapere umanistico o tecnico-scientifico era la stessa tessitura del vivere collettivo. La politica era propria di un ceto che aveva guadagnato sul campo la sua dignità, o s’impegnava a trovarla nel proprio lavoro di dirigente. Non c'era nessun fossato tra l’azione politica e il sapere, come invece c’era, e profondo, tra l’interesse pubblico e quello privato.

Il Naviglio nella nebbia

Ovviamente c'erano errori, ma - come diceva Croce - erano di natura pratica, dovuti a orientamenti comunque puliti, privi di quella progettuale malizia che avremmo dovuto incontrare più tardi. In questa città povera, attiva e nobile (con un ceto operaio che aveva difeso contro i nazisti e la proprie fabbriche, fondamentali per la ripresa), feci un ottimo liceo che all'inizio, a causa dei bombardamenti, non aveva nemmeno le finestre. E poi un'Università, ospite del “Collegio delle fanciulle” poiché la sua sede era stata distrutta. Feci l'esame di latino con Luigi Castiglioni in una stanzetta la cui temperatura gelida era invano contrastata da una stufetta più apparente che reale. Ma fu quello il latino che rimase nel mio sapere, a prova che quando si oppone un impegno serio alle nequizie qualcosa comunque si riesce a fare senza tanti lamenti.
Prendere un tram era quasi avventuroso; i giardini erano spogliati dagli alberi, tagliati per fare fuoco nel terribile inverno '44-'45. Non sto raccontando le mie nostalgie: sto dicendo che tu, per la tua piccolissima parte, non eri “nella città”, ma l’invisibile specchio della città. Il sindaco non era un “abile politico” o un affarista mascherato, ma il custode di un bene collettivo.
Poi la città crebbe sino al famoso boom economico e alla prima crisi congiunturale (cosa da poco). È in questa città che ho vissuto, come in una scena preziosa, i miei sentimenti personali; ho sperimentato il mio lavoro, ho speso la mia attenzione politica. Mi pareva che la città fosse ricca di luoghi dove rinasceva la sua storia e viveva la sua cultura. Ho cercato di fare il mio modesto meglio e, molto tempo dopo, ne ebbi anche il riconoscimento di cui sono grato.
Ora, invece, torna spesso il desiderio di andarmene, offeso da un costume dominante che, quando mio malgrado ne vengo in contatto, non riesco a sopportare.
Monumento a Carlo Porta

So bene che questo discorso può essere rovesciato da qualsiasi custode del progresso che mi dirà: «sei tu che non ti sei adeguato». Se questo me lo dice il signor sindaco ne ha pieno diritto e, come filosofo che ha un'idea molto sensibile della verità, non ho alcun risentimento. Non sono stato forse l'ultimo assistente del "tollerantissimo Banfi”, come diceva un signore della cultura come Arangio Ruiz? E poi a suo tempo - come ho già detto - Milano non mi ha dato il suo riconoscimento?
Vivere altrove: È un pensiero che ha il suo senso emotivo, ma è anche un problema che poi non posso esaminare.

Trieste. Piazza dell'Unità d'Italia

Potrei parlare di Trieste dove sono nato, ho passato l'infanzia e ho abitato per alcune lontane estati. Devo riconoscere che il pensare a Trieste è diventato un montaggio di ricordi senza speranza che si confonde e si unisce con i racconti di mia madre. E così finiamo in compagnia dell'inquieto, gentile e favoloso Zeno Cosini. Ma vedo ancora il golfo azzurro e severo talora, quando soffia la bora, e il Carso verdeggiante; ricordo i deliziosi paesi delle colline. Sarei disposto ad andare a piedi a Trieste, anche se, onestamente, non so che cosa sarei destinato a trovare, dato che la famosa globalizzazione (non parlo di economia) ha imbruttito gli uomini, gli oggetti e anche le cose.

Stresa. Palazzo Bolongaro
sede del Centro Internazionale di Studi Rosminiani

C'è poi Stresa, dove dal 1941 ho sempre trascorso qualche periodo più o meno lungo: mesi, anni. Appartiene la cittadina del lago alla feroce nostalgia dell'adolescenza: comprende il fascino quasi doloroso della bellezza e la memoria degli anni più difficili della guerra. Stresa si è trasformata in un luogo emotivo, nella forma inconsolabile del desiderio. E potrei fare la topografia sentimentale delle sue trasformazioni (che, del resto, nessuno mi chiede). Chi sia mai quel vecchio-vecchio che continua a guardare il lago come dovesse apparire un dio lo sa solo un delicato poeta lacustre e i padri rosminiani che mi ricordano i miei insegnanti di un tempo. L'amministrazione bada al bilancio e agli alberghi. Lo capisco bene.
Quanto alle città, vi sono quelle immaginarie, ma - onestamente- Calvino è irraggiungibile.


LA MIA MILANO
di Gabriele Scaramuzza

L'Arco della pace

La mia Milano è innanzitutto la zona Sempione: via Losanna, è lì che abitavo quando sono nato (mia madre andò però a partorire a Porta Vittoria, alla Regina Elena). Ci siamo allontanati dal ‘42 al ’45 per i bombardamenti. I primi ricordi del luogo risalgono ai primi anni di guerra, al primo grande bombardamento dell’ottobre del ’42, che ci costrinse a sfollare. Al nostro ritorno, nell’autunno del ’45, case diroccate, i trenini che trasportavano le macerie verso quella che sarò poi la Montagnetta, larghi spiazzi con residui bellici, carburo, lucertole bruciate vive da bambini crudeli. L’isolato era ancora circondato da siepi di sambuco e orti, i marciapiedi avevano riquadri erbosi; qui si poteva giocare, raccontare, ridere. Scarse le auto, pochi i furgoni nelle vie; ci si poteva schettinare allora.
Vicini erano la stazione delle Nord della Bullona, i mercati di via Fauché e di via Poliziano; non lontano quello rionale, coperto, di piazza Gramsci. In piazza Diocleziano si prendeva il 12 verso il centro; ma passava anche il 14 diretto a Musocco. A pochi passi, in fondo a via San Bernardo, c’era (e c’è) la Simonetta, rasente la ferrovia, con la sua nobiltà sfatta, l’eco; ma ancora oggi, restaurata, musicalmente attiva. Infine, facilmente raggiungibile, si trovava il Monumentale, esso pure meta di camminate. Camminare è sempre stato il mio unico sport, si fa per dire: a piedi in centro attraversando il Parco, una volta persino l’intero giro della circonvallazione, quella dei bastioni; e passeggiate verso la periferia: la Bovisa, Villapizzone, San Siro (e qui non so perché il motivo ritornante Salomè, una rondine non fa primavera)…, attraversando zone ancora verdi.
La parrocchia per noi era Santa Maria di Lourdes (più vicina, ma non ancora parrocchia, era San Giuseppe in via Piero della Francesca); qui le messe, le confessioni, le comunioni - e la cresima: isolato sull’altare (per postumi della contagiosa varicella), officiante il Cardinale Schuster. Annesso v’era l’oratorio da me frequentato le domeniche, con perplessa partecipazione; davanti la piazza con la grotta, le processioni a maggio intorno ad essa.

Veduta dell'Autodromo Vigorelli

Il freddo appena tornati dallo sfollamento: solo una stufetta a legna, fumo; solo più tardi ripresero vita i caloriferi. Ricordo la neve alta del ’47, le chiave perse da mia madre, poi ritrovate; il gelo fino a -12°C il giorno in cui mi fecero partecipare al funerale di un segretario (se ben ricordo) della scuola. I ritorni di mio padre dal lavoro, di mia madre dalle spese, di mia sorella da scuola - la mia famiglia ora scomparsa. Coessenziale al panorama era l’Ospedaletto (ingrandito c’è tuttora), i custodi, dalla cui figlia, laureata alla Cattolica, prendevo lezioni di latino. Vicino la stazione di Polizia di via Castelvetro, le motociclette che ne uscivano rumorose. Ma tra i più significativi centri di attrazione vi era, e vi è, il Vigorelli innanzitutto, con le gare di velocità (Maspes è il nome famoso che è rimasto a me, come a tutti), l’arrivo del Giro d’Italia, le strade attorno dove si svolgevano gare automobilistiche; e come dimenticare il concerto dei Beatles che vi si svolse nel maggio del 1965. Vicinissima era la Fiera: ogni anno avevamo biglietti gratuiti per andarci; facevo man bassa di dépliant relativi delle cose più strane, le più lontane dai miei interessi, che tuttavia conservavano per me una sorta di insospettabile alone magico. Poco più lontana l’Alfa Romeo, densa per me di risonanze vissute: il mondo operaio, la struttura piramidale dell’organizzazione del lavoro, gli scioperi, l’irrequietudine di chi ci lavorava; non ultima la rinomanza delle automobili, l’orgoglio dell’appartenenza di chi contribuiva a costruirle. In tutto questo le sirene delle fabbriche, che segnavano i risvegli e l’inizio della giornata; e tornavano verso le 17 a ritmare i pomeriggi.

La Certosa di Garegnano

Un po’ più fuori la Certosa di Garegnano, la meraviglia per me del ponte della Ghisolfa, sui cui pendii si poteva giocare: luoghi di Testori, ma vi ricorrevano anche echi di Il Posto di Ermanno Olmi; e soprattutto del Visconti di Rocco e i suoi fratelli, con le scene in via General Govone verso la Ghisolfa, e quel finale all’ingresso dell’Alfa Romeo di via Gattamelata che tuttora mi prende alla gola. Soprattutto a portata di mano era il Parco, il laghetto e il ponte delle Sirenette (un tempo ponte sulla cerchia dei navigli), la Torre: luoghi tante volte percorsi per raggiungere il Castello Sforzesco e il Duomo, in seguito persino la Scala, quando si tornava tardi e non c’erano più mezzi pubblici.
Ma la zona è stata anche quella delle prime amicizie, delle prime passeggiate solitarie, a volte fino alla Carlo Erba dopo piazzale Maciachini, dove andavo a prendere le figurine Liebig. Soprattutto, vicina era piazza Gerusalemme con la mensa maleodorante, i cantastorie - piazza tante volte percorsa per recarmi a scuola. Poco oltre era la scuola elementare di via Monviso, sede poi anche dei primi quattro anni di liceo: le compagne e i compagni amati, taluni ormai scomparsi. Sullo sfondo, a dar risalto a tutto, i tragitti per assistere alle rappresentazioni alla Scala, da sempre sospirate: le lunghe file per ottenere un posto in piedi, la corsa sulle scale, gli accorgimenti per vedere, le prime conoscenze tra loggionisti, i grandi amori per interpreti ed esecutori… Un miraggio nei tempi in cui da Milano ero lontano, a Pavia, a Padova. La prima volta sospirata nel febbraio del ’56, con La Traviata con Maria Callas ineguagliabile protagonista e con la regia di Visconti. Il miraggio della Scala: ancora oggi frequentata con passione.










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