Fra
delusione, incanto, dolorosa nostalgia
di
Fulvio Papi
Milano. I nuovi grattacieli |
Il
direttore di «Odissea» mi chiede di scrivere qualcosa sulla mia
città. Impresa a me molto difficile per due ragioni: l’una
oggettiva, l’altra personale.
Quella oggettiva mi
suggerisce che Milano, come altri imponenti agglomerati urbani, non è
una città che, non essendo da tempo un’unità strutturata
culturalmente, dovrebbe diventare un’unità etica, cosa che si è
mostrata opposta nel suo destino. Rimane la parola, non il referente.
Del resto noi chiamiamo “cannone” il nostro mostro distruttivo,
così come i soldati del turbolento Rinascimento chiamavano la loro
arma. Le poche cose che seguono possono illustrare le mie difficoltà.
Vivo in uno spazio di
Milano, “Città Studi”: un capolavoro (fu però molto caro
l’acquisto del terreno) dell’urbanistica e dell’architettura
dell’amministrazione fascista (e non credo vi sia qualche cretino
che voglia ricordare a me il valore dell’antifascismo). Certo, vi
era alle spalle l’urbanistica tedesca socialdemocratica degli anni
Venti, poi copiata dai nazisti, con l’eccezione del “grandioso”
(l’aggettivo è di Heidegger filo-nazista) per l’autocelebrazione
del potere del regime. Ora l’“esecranda fame dell’oro” vuole
ridurre Città Studi a terreno edificabile dove anche un inesperto
indovina subito una potente rete speculativa ed una architettura con
un principio formale quale viene interpretato dalla solita
volgarissima estetizzazione del mercato.
Continuerò dicendo che le
mie difficoltà identitarie derivano proprio da questa imponente
mercificazione della città con tutte le conseguenze che la
sfigurano: il pubblico che diventa un lucroso privato, la corruzione
come costume, la memoria cancellata da un presente simile a una
grottesca teologia, la presenza del malaffare, la diffusione del
teppismo, lo stile politico precipitato in un lessico da bar
domenicale di una lontana provincia, l’inquinamento - mai veramente
combattuto - distruttivo, una vocazione un poco pompieristica (come
avrebbe detto il mio indimenticabile amico Paolo Grossi) in ogni
iniziativa. Sull’urbanistica e l’architettura ho già detto ciò
che pare indispensabile.
Veduta della Galleria |
Il valoroso sforzo per
organizzare una cultura popolare, la valorizzazione
monumentale-turistica- archeologica della nostra tradizione è cosa
buona, ma non cancella il resto. E a me resta il
desiderio-immaginazione di finire il mio tempo altrove (in Provenza,
nella Selva Nera, sul Lago Maggiore). Tuttavia ritorna il ricordo di
una città che tanti anni fa avevo amato così profondamente da
dedicarvi con passione tutte le forze possibili della mia vita
giovanile. Era la città ancora piena di macerie, monumenti solenni
della follia criminale di chi aveva voluto la guerra. Ma, giorno per
giorno, la città ricostruiva se stessa: un’opera alla quale, più
o meno consciamente, ognuno si sentiva impegnato al meglio delle
proprie energie (andate a vedere le cifre del prestito della
ricostruzione). La vita sociale, ritrovata dopo lunghi giorni di
paura e di affanno, era dominata da un’eticità collettiva che si
difendeva da ogni forma di barbarie. Un’eticità che si poteva
leggere sul giornale o, addirittura, sui manifesti politici che
infioravano i muri delle case. La rarità di ogni bene era medicata
da quella confidenza con la forza della speranza. La cultura, ogni
sapere umanistico o tecnico-scientifico era la stessa tessitura del
vivere collettivo. La politica era propria di un ceto che aveva
guadagnato sul campo la sua dignità, o s’impegnava a trovarla nel
proprio lavoro di dirigente. Non c'era nessun fossato tra l’azione
politica e il sapere, come invece c’era, e profondo, tra
l’interesse pubblico e quello privato.
Il Naviglio nella nebbia |
Ovviamente c'erano errori,
ma - come diceva Croce - erano di natura pratica, dovuti a
orientamenti comunque puliti, privi di quella progettuale malizia che
avremmo dovuto incontrare più tardi. In questa città povera, attiva
e nobile (con un ceto operaio che aveva difeso contro i nazisti e la
proprie fabbriche, fondamentali per la ripresa), feci un ottimo liceo
che all'inizio, a causa dei bombardamenti, non aveva nemmeno le
finestre. E poi un'Università, ospite del “Collegio delle
fanciulle” poiché la sua sede era stata distrutta. Feci l'esame di
latino con Luigi Castiglioni in una stanzetta la cui temperatura
gelida era invano contrastata da una stufetta più apparente che
reale. Ma fu quello il latino che rimase nel mio sapere, a prova che
quando si oppone un impegno serio alle nequizie qualcosa comunque si
riesce a fare senza tanti lamenti.
Prendere un tram era quasi
avventuroso; i giardini erano spogliati dagli alberi, tagliati per
fare fuoco nel terribile inverno '44-'45. Non sto raccontando le mie
nostalgie: sto dicendo che tu, per la tua piccolissima parte, non eri
“nella città”, ma l’invisibile specchio della città. Il
sindaco non era un “abile politico” o un affarista mascherato, ma
il custode di un bene collettivo.
Poi la città crebbe sino al
famoso boom economico e alla prima crisi congiunturale (cosa
da poco). È in questa città che ho vissuto, come in una scena
preziosa, i miei sentimenti personali; ho sperimentato il mio lavoro,
ho speso la mia attenzione politica. Mi pareva che la città fosse
ricca di luoghi dove rinasceva la sua storia e viveva la sua cultura.
Ho cercato di fare il mio modesto meglio e, molto tempo dopo, ne ebbi
anche il riconoscimento di cui sono grato.
Ora, invece, torna spesso il
desiderio di andarmene, offeso da un costume dominante che, quando
mio malgrado ne vengo in contatto, non riesco a sopportare.
Monumento a Carlo Porta |
So bene che questo discorso
può essere rovesciato da qualsiasi custode del progresso che mi
dirà: «sei tu che non ti sei adeguato». Se questo me lo dice il
signor sindaco ne ha pieno diritto e, come filosofo che ha un'idea
molto sensibile della verità, non ho alcun risentimento. Non sono
stato forse l'ultimo assistente del "tollerantissimo Banfi”,
come diceva un signore della cultura come Arangio Ruiz? E poi a suo
tempo - come ho già detto - Milano non mi ha dato il suo
riconoscimento?
Vivere altrove: È un
pensiero che ha il suo senso emotivo, ma è anche un problema che poi
non posso esaminare.
Trieste. Piazza dell'Unità d'Italia |
Potrei parlare di Trieste
dove sono nato, ho passato l'infanzia e ho abitato per alcune lontane
estati. Devo riconoscere che il pensare a Trieste è diventato un
montaggio di ricordi senza speranza che si confonde e si unisce con i
racconti di mia madre. E così finiamo in compagnia dell'inquieto,
gentile e favoloso Zeno Cosini. Ma vedo ancora il golfo azzurro e
severo talora, quando soffia la bora, e il Carso verdeggiante;
ricordo i deliziosi paesi delle colline. Sarei disposto ad andare a
piedi a Trieste, anche se, onestamente, non so che cosa sarei
destinato a trovare, dato che la famosa globalizzazione (non parlo di
economia) ha imbruttito gli uomini, gli oggetti e anche le cose.
Stresa. Palazzo Bolongaro sede del Centro Internazionale di Studi Rosminiani |
C'è poi Stresa, dove dal
1941 ho sempre trascorso qualche periodo più o meno lungo: mesi,
anni. Appartiene la cittadina del lago alla feroce nostalgia
dell'adolescenza: comprende il fascino quasi doloroso della bellezza
e la memoria degli anni più difficili della guerra. Stresa si è
trasformata in un luogo emotivo, nella forma inconsolabile del
desiderio. E potrei fare la topografia sentimentale delle sue
trasformazioni (che, del resto, nessuno mi chiede). Chi sia mai quel
vecchio-vecchio che continua a guardare il lago come dovesse apparire
un dio lo sa solo un delicato poeta lacustre e i padri rosminiani che
mi ricordano i miei insegnanti di un tempo. L'amministrazione bada al
bilancio e agli alberghi. Lo capisco bene.
Quanto alle città, vi sono
quelle immaginarie, ma - onestamente- Calvino è irraggiungibile.