PARTITI
di Franco Astengo
Il 18 maggio 2015 era
capitato a chi scrive queste note di analizzare così la crisi del sistema dei
partiti in Italia: “Il riferimento del voto diventa quindi quello del notabile
che può elargire benefici selettivi a categorie ben precise, dislocate sul
territorio che formano l’insieme delle clientele che sostengono il candidato di
turno, frutto di una selezione personalistica fondata sull’individualismo
competitivo, del quale è espressione massima il Circo Barnum delle cosiddette
“primarie” (nel nostro caso un orrido adattamento all’italiana che già anticipa
il meccanismo clientelare del voto).
Eppure
i temi di fondo sui quali si era sviluppate il radicamento sociale fondativo
dei grandi partiti di massa sono ancora tutti presenti nelle “fratture” che
anche la società moderna presenta: in particolare e principalmente il tema
della distinzione di classe, una distinzione sempre più feroce a livello
globale all’interno di un quadro di spietata gestione capitalistica, intrecciata
a quelle altre distinzioni di stampo post-materialista, di genere, ambientale,
della pace. La sinistra, arresa all’individualismo della società consumistica e
all’ineluttabilità della gestione comunque del potere, non sembra (o non vuole)
rendersi conto di questo stato di cose e non pensa a riprendere il discorso
dell’identità collettiva nell’azione politica organizzata da realizzarsi
attorno ai temi della trasformazione radicale della società.
Nel
frattempo svilisce l’idea di una democrazia parlamentare che si rattrappisce
proprio nello scontro, imperativamente diretto dall’alto, della pura gestione
del presente: la legge elettorale appena approvata corrisponde esattamente a
questo tipo di esigenze oggettive attraverso la smisuratezza del premio di
maggioranza e la “nomina” dei capilista (veri e proprio notabili davvero) che
esercitano anche il potere di nomina di chi gli sta alle spalle attraverso il
meccanismo della pluralità delle candidature.
Questi
sono i temi di fondo della trasformazione e della crisi del sistema dei
partiti, soggetti che tutti ritengono indispensabili al funzionamento della
democrazia, ma con idee ben diverse tra di loro proprio sull’esercizio della
funzione fondamentale nel funzionamento dello Stato”.
Una
nota aggiuntiva: il discorso che nell’intervento del 2015 si sviluppava attorno
alle primarie può essere oggi facilmente trasportato verso quel che riguarda
gli esiti concreti della democrazia del web. In
quest’occasione riprendo comunque l’argomento, nel frattempo del tutto
trascurato, grazie allo spunto che mi è stato fornito da un articolo di Nadia
Urbinati pubblicato da Repubblica il 2 ottobre.
La
politologa della Columbia presenta, infatti, un libro di due studiosi
statunitensi Frances Mc Call Rosenbluth e Ian Shapiro, uscito presso la
Cambridge University Press con il titolo Responsabil
Parties: Saving Democracy from Itself.
In sostanza: salvare la democrazia da sé stessa. Riprendo
allora, senza commento e ponendo il testo in comparazione con quanto esposto
all’inizio di questo intervento, le linee guida di questo lavoro così come
queste sono indicate appunto da Nadia Urbinati: “Dagli anni’60 si è assistito a
un processo di democratizzazione che ha caratterizzato non tanto le istituzioni
quanto le associazioni della società, per esempio i partiti.
Un
processo fatto di primarie e di altre forme di decentramento che ha creato
l’illusione per cui meno organizzazione significasse più democrazia. L’esito è
impietoso: le nostre democrazie hanno prodotto decisioni che forse sono più
vicine all’opinione popolare e al volere dell’audience eppure sono più
cesaristi che e i suoi leader sono meno soggetti al controllo dei cittadini.
I
partiti hanno adottato riforme interne (il PD ne è un esempio) con lo scopo di
diminuire al massimo l’organizzazione per essere più vicini agli elettori (i 5
stelle attraverso il web, particolare da non trascurare) Rovesciando la “legge
ferrea dell’oligarchia” si potrebbe pensare che partiti più liquidi e leggeri
(addirittura con la propria organizzazione che viaggia nell’etere) significhino
partiti più democratici. Ma così non è. A partiti deboli è seguita una più
debole democrazia. L’analisi di Urbinati in relazione al testo di Mc Call
Rosenbluth e Shapiro conclude in questo modo: “Il tema proposto è riassumibile
in una massima che la vicenda italiana dimostra con disarmante facilità: il
partito leggero non è il miglior amico della democrazia. Né lo è il movimento
che coltiva l’illusione di connettere e far interagire i cittadini per mezzo di
piattaforme digitali e senza un’organizzazione. Il primo è una sicura ricetta
per leader autoreferenziali (ben dimostrato dal PD) il secondo crea un potere
insindacabile di un piccolo gruppo (vedi M5S/Casaleggio associati).
In
entrambi i casi l’esito non è più la democrazia ma la vulnerabilità della
democrazia al potere di minoranze da un lato (che magari si auto gonfiano
attraverso i sondaggi: vedi Lega) e del populismo dell’uomo forte dell’altro. Realtà
descritta con rara efficacia.