St. Moritz Art Master 2018
di Claudio Zanini
Mersard Beber "Omaggio a Velasquez" |
Rassegna precaria, quest’anno, quella di Art Master 2018. Pochi artisti, location improvvisate, comunicazione incerta. Purtroppo le mancanze già messe in rilievo nelle ultime manifestazioni non sono diminuite. Gli organizzatori, tuttavia, assicurano che si sta mettendo in cantiere una rinnovata edizione.
Queste osservazioni non ci hanno impedito di
rilevare alcune interessanti presenze.
Al Kempinski, malgrado l’infelice allestimento, abbiamo
tuttavia apprezzato l’artista bosniaco Mersad Beber (1940/2012). Dalle sue
opere traspare una profonda cultura umanistica, filtrata dalle tragiche vicende
che, il secolo scorso, hanno insanguinato la ex Jugoslavia. Una materia
pittorica solida e corposa, esprime un linguaggio figurativo colto, ricco di
suggestioni, dove si colgono echi della pittura di Velasquez (in particolare, di
Las Meninas), di Goya e di Gericault
nella drammaticità dei visi molto intensi, spesso sofferenti e deformati dal
dolore, della pittura del Rinascimento italiano (soprattutto in certi disegni
al tratto si riconoscono echi leonardeschi e di Michelangelo nell’indagine del
corpo umano; quindi del Pollaiolo in alcuni delicati ritratti femminili, ecc.).
Un tema ricorrente è costituito dalla potente figura del cavallo. Animale generoso
sottoposto ai lavori più pesanti, qui rappresenta una natura docile e paziente,
che subisce la violenza brutale dello sfruttamento e della guerra. E, come
l’uomo che conserva, tuttavia, un’invincibile dignità, l’animale è dolente corporeità
stremata, priva di riscatto.
James Vaughan "Limmat River Study" |
Del tutto diverse sono le immagini fotografiche di James Vaughan, artista neozelandese (Auckland,1970). Le opere esposte all’Hotel Hauser di St. Moritz fanno parte del progetto Water the essential, che riguarda il problema dell’impiego delle risorse idriche nel prossimo futuro. L’acqua è vita; ma sarà un diritto di tutti, o la proprietà di pochi? Senz’acqua, il nostro corpo e quello del pianeta sono destinati all’estinzione.
L’acqua è il tema dei lavori di Vaughan. L’acqua,
corpo vivente che, mutevole, riflette luce e colore. Sono immagini per la
maggior parte astratte, prive d’un qualsivoglia referente figurativo. È
interessante notare come l’immagine riflessa, priva d’ogni connotato di
riconoscibilità, evochi piuttosto delle texture che si possono riferire alla
pittura. L’acqua è stata, infatti, un grande tema della pittura dall’Impressionismo
all’astrattismo. Qui, la foto Limmat
River Study è un esplicito omaggio alla pittura dripping di Jackson Pollock, mentre Liquid Gold Zurich, ricorda certi dipinti della Scuola del
Pacifico; in particolare, i palpiti dei piccoli segni in movimento di Mark Tobey.
Il tessuto delle vibrazioni luminose e
cromatiche è uno dei soggetti di Vaughan; dal microcosmo del singolo fremito al
moto cosmico (vedi le indagini di Leonardo sui moti naturali). Altro argomento
è costituito dalle riflessioni capovolte sulla superficie dell’acqua. L’autore
cita Baselitz, ma qui la sorpresa del sottosopra, trattandosi di riflesso
invertito, diventa un motivo di delicato surrealismo (in Nidelbad Rüschlikon 2014 – Svizzera). Oppure, in altri lavori, crea lo spaesamento sospeso di certi dipinti
giapponesi, nella vibrazione Zen del segno.
Simone Fugazzotto: "Curiosity is my only Vanity" |
Simone Fugazzotto, giovane artista italiano (Milano, 1983), nel suggestivo spazio del Forum Paracelsus, espone Monkey room. Come suggerisce il titolo, siamo nella stanza delle scimmie. Infatti, il soggetto dei dipinti e di alcune piccole sculture in resina è costituito dall’amato scimpanzé. Declinata in diversi modi, la scimmia è un’evidente metafora dell’umano. Spesso gioca con delle armi, sembra divertirsi entro un cuore di filo spinato, si fa un selfie, porta occhiali azzurri oppure manovra una pompa di benzina. È una scimmia ma si comporta come noi e ci guarda con occhi umanissimi.
Fugazzotto lavora su
diversi supporti tela, plexiglass, cartone e calcestruzzo. Interessante, su
supporto di cemento, è Camouflage. Il
fondo è dipinto con la tecnica seriale dello stencil: un motivo decorativo
dorato e baroccheggiante. Un volto realistico di scimmia e, in alcune parti
appena abbozzato, ha la testa che è in parte invasa dalla griglia stencil (lo
stencil ricorda il muso stilizzato della scimmia). Una lenta, inarrestabile
omologazione?
Una coppia di grandi
dipinti Curiosity is my only Vanity
(I e II), mostra due figure, rispettivamente maschile e femminile, abbigliate con
luttuosi costumi di spagnoleggiante foggia seicentesca che potrebbero ricordare
un Velasquez rivisitato da Bacon. Lei, sofisticata, si è appena dipinta le
labbra di rossetto. Lui, anziano con i capelli bianchi, sorride benevolo; tiene
in mano un cono gelato, nell’altra un crocifisso e, al collo, porta un pendente
con il logo del dollaro. Dalle gorgiere immacolate affiorano le due teste
scimmiesche; ma non c’è nessuna sorpresa, tutto è molto naturale, serio. Siamo
noi quasi che ci rispecchiamo. Commentiamo gli atteggiamenti un po’ affettati,
gli abiti che richiamano l’Inquisizione; il resto, gli sguardi, la serietà da
modelli in posa, ci assomiglia troppo. Questo è l’inquietante.
Alla Galleria Robilant+Moena, Alighiero
Boetti, esponente dell’Arte Povera, mostra i suoi storici e notissimi lavori
realizzati con la collaborazione di un gruppo di tessitrici afgane. Si tratta
d’una serie di raffinati riquadri tessuti in una sorta di mosaici composti da
lettere formanti varie parole (interessante quello bianco su bianco, che fa
venire in mente Piero Manzoni); e una grande carta geografica del mondo con le
bandiere nazionali incastonate nei vari confini degli stati. Di Boetti si sa
tutto e null’altro occorre aggiungere.