CERASO
di
Vincenzo Guarracino
Alle spalle del mare di
Elea e al riparo di un’ansa del fiume Palistro, dietro la lunga schiena delle
Tempe, sta il Paese, poche case raggrumate a farsi animo per resistere alle
insidie di scirocco e tramontana. Imponente, lo sormonta e schiaccia col suo profilo
dentato il Gelbison, il “monte del verde cristallo” o forse il “monte
dell’idolo”, che ammirazione e rispetto dovette incutere con i suoi maestosi
contrafforti ai saraceni che assaltavano dal mare in secoli di corrusche paure
e miserie e da lì vedevano saettare sull’alba marina dardi d’oro di luce
accecante (“L’arco folgora Apollo dall’alpestre / azzurro sul mattino da altri
nimbi / ed esiste nel mondo dal suo lampo / il sortilegio della luce il volto /
della nuda verità al suo apparire / dal Passo Scuro tra le forre la dea // Odegitria
di pietra là sul sacro / luogo dove si celebra la festa / sul Gheison
delle candide pupille /in vista delle piana dell’Alento / e Palistro doni e
inni recando / là le zorie dalle terre del viaggio”).
Poche
case in una piana alluvionale di frutteti e uliveti, pietre vive riarse dal
sole e dalla storia: al centro, gigantesca e mirabilmente sproporzionata al suo
contesto, la mole della Chiesa, secolare reperto di una fede cresciuta e
stratificata dal respiro e dalle passioni dei suoi abitanti, dall’alito vinoso
di amori e bestemmie di essenziale fierezza quale solo i cilentani sanno
nutrire.
E
la gente? La gente è un miscuglio variegato e composito, che il nome corrotto
del luogo apparenta impropriamente all’albero da frutto ma che invece nel suo
etimo tradisce l’antica nobiltà di una cultura di incontro e mescolanza, di
accoglienza insomma e tolleranza, quale oggi forse resta incomprensibile e cui
solo la poesia può restituire i suoi millenari statuti: ” il cuore dove nasce
nella valle / luminosa per lieviti ed aromi / il crogiolo Ceraso di diverse /
strade e genti sul corso del Palistro / in un canto di pollini e stupori”.
CILENTO, CILENTI
Quando
si parla di Cilento, soprattutto da lontano, si pensa a un qualcosa di monolitico
e compatto: a una terra singolare e appartata, chiusa nella sua selvatica,
impervia diversità e inassimilabilità. Non per niente nell’800 risorgimentale
era qualificata come “terra di tristi”, di feroci “breanti” da sterminare senza
pietà (ne ha parlato anche recentemente uno storico appassionato, don Carmine
Troccoli, un prete, che ha messo in evidenza come anche i preti avessero
all’epoca, caso forse unico in Italia, combattuto al fianco dei “cafoni”
rivoltosi, in I preti rossi e le rivolte
nel Cilento borbonico, 2016). Napoli, l’epicentro della regione, è lontana
geograficamente e moralmente; Salerno appare distante e scostante, troppo
frivola e pretenziosa.
Ma
certo, come non si può generalizzare in nessuna cosa, tanto meno questo può
farsi con il Cilento e i Cilentani. Ci sono infatti molti Cilenti: quello delle
selvagge dorsali montuose e quello dei litorali marini; quello dei paesini
isolati dell’interno e quello dei centri più grandi (Vallo, in primo luogo, poi
Agropoli e Sapri, ma anche Piaggine e Laurino). Situazioni e attitudini
diversissime: non è facile trovare un comune denominatore. Neppure l’orgoglio
dell’appartenenza a una terra ricca di memorie storiche e letterarie (Elea,
Palinuro, Paestum, la Vatolla di Giambattista Vico). Molti, troppi Cilentani,
queste cose non le sanno e non per loro colpa. Ricordo che quando ancora ero
studente, mezzo secolo fa, presso un Liceo dalla prestigiosa intitolazione al filosofo
dell’Essere, all’eleatico Parmenide, nessuno veniva a farci sentire l’orgoglio
di siffatta appartenenza. Erano cose da scoprire faticosamente, da sé, e con il
tempo.
Solo
quando te ne rendi pienamente conto cominci ad apprezzarle. E ti senti fiero
che la tua terra e il mare che guardi all’orizzonte come un trepido, palpitante
miraggio, cercando tra le sue onde l’apparire di una pentecòntera velina, siano ancora impregnati di antichi miti; che
il pensiero (Parmenide, Zenone e Vico) e la poesia antica (Virgilio) e moderna
(Goethe, Ungaretti, Maffeo, Pirrera) li abbiano lambiti e fecondati,
offrendoteli a tuo ristoro e consolazione nelle fatiche della quotidianità. Il fatto è che il Cilento sconta antiche tare e pregiudizi,
di cui si fa ancora fatica a liberarsi: quelle che in una novella del
seicentesco Giambattista Basile, Vardiello, si condensavano in un
giudizio sprezzante nei confronti dei suoi abitanti (in particolare, quelli di
Gioi), qualificati come gente rozza al limite della stoltezza; quelle che si
perpetuano ad esempio da parte di tanti sciocchi, che per sembrare spiritosi
non sanno fare di meglio che correggerti con finto stupore, quando ad esempio
si parla di Ceraso, il tuo paese: “Ceraso? Ciliegio, vuoi dire!”, ignorando la
pregnanza antica di un nome che etimologicamente in greco allude alla sua
funzione di raccordo tra le genti del mare e dell’interno, un compito
riconosciutogli dai Greci di Elea.
Ma chissà che finalmente la “rozzezza” beltoldesca del Cilentano,
di quello delle coste non meno che di quello dell’interno, non possa oggi
perfino ribaltarsi in una virtù da ricuperare: che la sua parsimonia, il suo
attaccamento alla terra e alla “roba”, la sua umoralità pronta ad esplodere in
ire incontenibili non meno che in insospettati gesti di generosità, il suo
senso di diffidente concretezza, al limite del misoneismo, non possano perfino
offrire, se non un modello, almeno qualche spunto di riflessione.