di
Roberta De Monticelli
Una suggestiva immagine del Duomo avvolto nella nebbia |
Notte
alta, luna piena.
Torno
a casa in bicicletta.
E
Milano, quieta e piana
porta
gli anni, i vivi, il cuore
porta
tutto ciò che amo
come
l’aria porta i voli
e
la terra porta i corpi
e
ogni cosa che vi posa
e
riposa, anime e morti.
Non
mi stanca pedalare.
Pavia. San Michele Maggiore |
Io
sono nata a Pavia, per la verità. Ma sia stato per caso o per
necessità, Pavia esiste per me soltanto nelle migliaia di formulari
che anche io come tutti ho dovuto compilare con i miei dati
anagrafici, e quindi esiste soprattutto come Pv, un fonema insensato
che si associa a un’immagine di torri sghembe nella nebbia e a un
vago scetticismo nei confronti dell’accoppiata sepolcrale più
pretenziosa di tutto il millenario pedigree italico – con la tomba
a castello, o a piazze sovrapposte, che pretende di ospitare al piano
inferiore niente di meno che le ossa di Agostino, e a quello
superiore quelle del suo discepolo logico ed etico, il grande
Severino Boezio. La basilica di San Pietro in Ciel d’Oro scompare
nella nebbia insieme con le torri sghembe e con le sue pretese
esagerate, e – come avviene con quasi tutte le cose d’Italia –
mi lascia solo un po’ di musica nell’orecchio, la musica dei nomi
e delle cento città del bel Paese.
Milano
no, Milano è tutt’altra cosa. Anzitutto non ha quella musica lì,
tutta ori e tintinnii liturgici, la sua musica è rauca come la voce
della Vanoni certe volte, e quieta e piana come i versi di Carlo
Porta, di Sandro Bajni o di Jannacci. E poi io di Milano non ho
nessuna immagine, neppure nebbiosa. Ne ho solo innumerevoli frammenti
visivi. Vivo al nono piano, e dal nono piano si vede tutto: ma Milano
non si vede mai tutta. Ha una tenace resistenza alla sintesi, che
forse è la stessa resistenza che oppose nei secoli a diventare una
grande città – accontentandosi di diventare una città grande.
Anche adesso che ha un pezzo di skyline paragonabile a quello di
qualunque altra grande città del mondo, con le sue fantasie
verticali scintillanti nel sole. Ma se non ne ho un’immagine, io di
Milano ho, come dicono adesso, un feeling, anzi un touch. Un senso
tattile, letteralmente. Che non è nei miei piedi, ma nelle – assai
più sensibili, anzi vibratili, ruote della mia bicicletta, temprate
nello sconcerto rude dei pavé, nella sfida pugnace degli
acciottolati, nella carezza sincopata dei porfidi. Certo, così
capite che in bicicletta giro soprattutto il centro. Per forza:
Milano è piatta e non si fatica, ma oltre le due cerchie rischi la
vita, in bici. Anche dentro, per la verità. Ne vale la pena, però.
E allora vi voglio guidare per un mio itinerario ideale e realissimo.
Ideale perché è la mappa delle Idee nelle quali in vita mia m’è
capitato di imbattermi – e che mi hanno avvinta. Reale perché come
itinerario turistico è perfino banale, tanto è ovvio. Eccolo qua.
Andiamo in bici, naturalmente.
Milano. Il cortile di Brera |
Partiamo
– in bicicletta – da Corso Garibaldi: anzi dai mirabili chiostri,
uno rinascimentale e l’altro settecentesco, che appartengono oggi
alla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale e affiancano San
Simpliciano, la più bella chiesa romanica dopo Sant’Ambrogio, le
cui fondamenta, rese recentemente accessibili, sono addirittura
paleocristiane. Risalgono cioè proprio ai tempi – dal IV al V
secolo dell’era cristiana – della Milano del vescovo Ambrogio e
di Agostino. Si dice infatti che proprio lì si trovasse il famoso
giardino di Simpliciano, dove si svolse una conversazione sui libri
dei platonici di cui Agostino racconta nel Libro VIII delle
Confessioni, il libro che narra la sua conversione. In quel
giardino furono concepiti quei pensieri – “nutre la mente solo
ciò che la rallegra”, o il pensiero dell’ordo amoris e
del disordine, che ho rubato come un ladro di galline, per dare il
titolo a un paio di libri miei. Se una volta avete tempo, fermatevi
dentro la chiesa a osservare le due finestre nella parte sinistra del
transetto. Lì, una volta che mi fermai più a lungo, mi venne su,
parola per parola, una specie di preghiera, forse la prima di quelle
che poi formarono un libretto intitolato Le preghiere di Ariele,
oggi probabilmente introvabile. Faceva così:
Due
note – una più alta.
Arco
su arco – un canto
fermo,
non umano
nel
cavo della volta
un
varco.
Due
finestre ogivali,
una
sull’altra.
Milano. Il monumento a Beccaria |
Di
lì – non è lontano – tagliando attraverso il Parco Sempione
facciamo sosta davanti alla cosa più preziosa che il museo del
Castello Sforzesco contenga: la Pietà Rondanini, la più bella pietà
mai scolpita da mani umane – quelle di Michelangelo - nella sua
meravigliosa incompiutezza, che ne fa un’opera sorgiva di mille
possibili opere e pensieri. A quel punto attraverseremo il Parco
fino a uscirne verso Piazzale Cadorna, e in poche pedalate saremo a
Sant’Ambrogio, dove – da qualche parte – si deve ancora trovare
quel bassorilievo del IV secolo che tanto mi colpì quando preparavo
la mia edizione delle Confessioni di Agostino per Garzanti –
al punto che ci basai l’Introduzione su Agostino, il diavolo e il
buon Dio. Lì vedete, al centro, l’Albero della vita con Adamo a
destra ed Eva a sinistra; all’estrema destra il Padreterno (in
forma di gran giardiniere, con l’annaffiatoio in mano: Auctor,
colui che fa crescere ogni cosa (augeri)); e all’estrema
sinistra il Serpente tutto torto.
Adesso
mi stupisco io stessa di aver finora concepito addirittura tre prime
tappe tutte teologico-spirituali, nella città che in fondo fu anche
una della capitali dell’Illuminismo europeo. E allora rimediamo
subito, e da lì pedalando per stradine tortuose verso il Cordusio
corriamo a rendere omaggio al giovane elegantissimo dandy che vi
troneggia in mezzo, un Parini per nulla simile al dolente vecchietto
della poesia La caduta, che chissà perché ci facevano
mandare a mente a scuola, con tutto quello di ben altrimenti
memorabile che Parini aveva scritto. Così in altre due pedalate
saremo a Brera, a salutare Pietro Verri nel cortile dell’Accademia,
e soprattutto a ringraziare Cesare Beccaria che se ne sta sempre lì,
in abito curiale ma in posa piuttosto rilassata, sopra lo scalone
richiniano del palazzo… E così l’equilibrio spirituale, morale e
civile della passeggiata eccolo ripristinato, anzi forse ormai
sbilanciato… verso i Lumi impazienti di Giuseppe II d’Asburgo,
che abolita l’Inquisizione e soppresso l’ordine dei Gesuiti,
trasferì disinvoltamente al servizio pubblico il loro bellissimo
palazzo, facendovi nascere nel giro di pochi anni l’Accademia di
Brera e la Biblioteca Braidense. Dove chi vorrà si infilerà con me,
con un pensiero grato a tutti quelli che riescono a non disperare, e
a liberare per qualche ora la mente e il cuore dal pensiero degli
attuali, ben più retrivi e assai meno illuminati governanti di oggi,
e dal pensiero ancora più sconfortante del loro popolo esultante e
ignaro. Che insieme, e con la benedizione della maggior parte dei
precedenti governanti e popoli, sono riusciti nell’impresa di far
precipitare l’Italia all’ultimo posto in Europa per la quota di
Pil spesa per il patrimonio culturale, la scuola, l’università e
la ricerca. E dalla biblioteca, dalla malinconica luce delle sue
finestre che scolpisce il dorso antico dei pensieri e dei sogni umani
salvati dalla melma dei tempi, non mi lascerò più schiodare. Almeno
per oggi.