di Franco Astengo
La pubblicistica corrente
ha inserito l’azione di governo attualmente in corso in Italia all’interno di
due categorie: populismo e sovranismo (compreso l’esplicito richiamo
all’autarchia). Definizione che può essere considerata abbastanza precisa a
patto che la si collochi all’interno del suo contesto naturale sul piano
storico, culturale, morale: quello del fascismo. Del resto è fascismo la
dichiarazione di ieri di uno dei due Vice Presidenti del Consiglio al riguardo
del ruolo della Banca d’Italia: ne è emersa una visione totalitaria in spregio
del bilanciamento e dell’articolazione dei poteri che comporta l’esercizio
delle politiche pubbliche in democrazia. Una democrazia beninteso regolata con
grande precisione dal testo della Costituzione Repubblicana. Del resto una
reviviscenza del fascismo è presente da tempo nel nostro Paese con
l’espressione di tratti subdolamente inquietanti ben più di quelli a suo tempo
presenti nel MSI che rappresentava in forma chiara e definita l’eredità della
Repubblica Sociale.
Il
caso della lapide contenente la dizione “camicie nere” in un quadro di
celebrazione dei caduti della seconda guerra mondiale avvenuto in questi giorni
a Savona rappresenta sicuramente un elemento emblematico di questo stato di
cose in atto. Sempre rispetto al caso “Savona/camicie nere” è emerso, inoltre,
un dato specifico riguardante l’assoluta inadeguatezza dell’Amministrazione
Comunale di Centro-destra rappresentata dalla Signora Sindaco che, in una
lettera di scuse alla Città per l’accaduto, richiama i valori della Lotta di
Liberazione, citando per il tramite l’assegnazione (avvenuta nel 1978:
anniversario dimenticato dai più) della medaglia d’oro al valor militare
assegnata alla Città, per il ruolo ricoperto dalle sue cittadine e dai suoi
cittadini nella Lotta di Liberazione.
Proprio
da quella lettera di scuse emerge il deficit culturale al riguardo del tema con
un allineamento a quell’idea di revisionismo storico, accettato anche a
sinistra, che ha rappresentato la breccia attraverso la quale è passata quella
vera e propria reviviscenza del fascismo cui si è già accennato e che si sta
concretizzando nella filosofia di fondo dell’azione dell’attuale governo.
E’
bene allora soprattutto al riguardo della coppia “populismo/sovranismo”
recuperare per intero l’identità della Resistenza soprattutto sul piano della
funzione di identità e coesione nazionale che in quel periodo, di invasione
straniera, si espresse proprio attraverso la lotta Partigiana.
E’
il caso, allora, di porsi un primo interrogativo: potrebbe essere possibile
recuperare un rapporto tra coesione e identità nazionale, all'interno di un
sistema di valori non genericamente condivisi ma nella necessaria distinzione
delle diverse realtà sociali, economiche, culturali, di classe, tornando ad
analizzare a fondo la nostra storia nel rapporto tra Risorgimento e Resistenza,
ricercando proprio in questo rapporto un nuovo punto di saldatura “nazionale”,
senza timore di cadere nella retorica o in una sorta di stantio revisionismo?
Abbiamo così assunto un filone di pensiero: quello che va dall'analisi del
Risorgimento sviluppata da Antonio Gramsci alle fondamentali riflessioni sulla
Resistenza elaborate da Claudio Pavone (non dimenticando il Gobetti del
“Risorgimento senza eroi”) e periodizzando il tema dell'Unità e dell'identità
d'Italia in tre periodi, quello della costruzione, quello dell'intervallo
fascista e quello della redenzione nazionale, avvenuta attraverso la
Resistenza.
Ci
siamo già domandati in altre occasioni: Resistenza come secondo Risorgimento?
Proviamo,
allora, a sviluppare un qualche ragionamento di merito.
Gramsci
sviluppò, da questo punto di vista, lo sforzo più complesso nel ripensare la
recente storia d'Italia.
Questo
sforzo si basava, obiettivamente, sulla maturità raggiunta dal movimento
operaio italiano, che poteva infine riproporsi, senza complessi, il problema
del suo rapporto con il Risorgimento, sottraendosi alla posizione subalterna
che era stato della sua ala destra, come pure al rifiuto polemico che aveva
caratterizzato le correnti più vivaci della sua sinistra. In Gramsci questa
maturità si esprime col porre il problema dello Stato in generale, e di quello
italiano, delle sue origini e delle sue caratterizzazioni storiche.
In
particolare Gramsci volle allargare la sua attenzione dagli sconfitti del
Risorgimento a tutto lo Stato e a tutta la sua classe dirigente, nelle cui
caratteristiche soltanto, del resto, potevano essere pienamente colti i motivi
di quella sconfitta. Proprio per questo, le fonti immediate di Gramsci, nelle
sue considerazioni sulla storia d'Italia, vanno ricercate non tanto nella
tradizione socialista italiana e tanto meno negli epigoni del mazzinianesimo,
ma nelle élite critiche che si erano formate all'interno della stessa classe
dirigente, Salvemini, i liberisti di sinistra, in un rapporto di dare e avere
con Gobetti (nota dello stesso Gobetti a pagina 129 della “Rivoluzione
Liberale”).
Gramsci
innestò alcuni risultati di quella critica nel suo marxismo rivoluzionario: un
innesto dal quale derivò quel nuovo quadro dello Stato italiano, su cui
s’impegnò a lungo la discussione degli storici e dei politici.
Gramsci
riconobbe che “la borghesia italiana era stata lo strumento storico di un
progresso generale della società”, ma che ormai tale ruolo era stato perso,
proprio per l'incompletezza del processo risorgimentale e che la stessa
borghesia stava affossando e disgregando la stessa nazione da lei creata.
La
sola risposta possibile per Gramsci poteva avvenire innestando una vera unità
(non quella del Regno sorto con “un vizio d'origine che lo rende incapace,
nonché di risolvere, di sentire il problema del popolo) da realizzare
finalmente con l'alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud
(L'Ordine Nuovo).
La
disgregazione dello stato liberale ci fu, Gramsci fu sotto quest’aspetto
profetico, ma su quel disastro s’innestò il fascismo, per una fase che ci siamo
permessi di definire come di “sospensione” e poi (con Salò) di frantumazione
della coesione e dell’identità nazionale. Il fascismo, pur nella sua rozzezza
culturale, non poté sottrarsi all'obbligo di definirsi in rapporto all'allora
più recente storia d'Italia; e se la retorica della romanità gli fece sempre
più preferire il gran volo di collegamento diretto con il lontano Impero,
tuttavia il fatto stesso di considerarsi il provvidenziale termine “ad quem”
dell'intera storia d'Italia, rese necessario al fascismo atteggiarsi, in
qualche modo, anche a continuatore e sistematore del Risorgimento.
Il
primo a mettersi sulla strada di una reinterpretazione fascista del
Risorgimento era stato Mussolini, con materiali culturali di scarsa originalità
e grossolanamente manovrati sotto la spinta di scoperte esigenze tattiche. Ma
l'eclettismo che ne derivava corrispondeva, sul piano effettuale,
all'assorbimento che il fascismo andava compiendo dei vari gruppi della vecchia
classe politica e, sul piano storiografico, all'eclettismo dell'agiografia
tradizionale che metteva assieme, indiscriminatamente, i quattro “grandi” Vittorio
Emanuele, Cavour, Mazzini e Garibaldi. In questo modo è indubbio che, durante
il fascismo, il Risorgimento abbia agito in molti casi come mito conformista,
provinciale, piccolo borghese, elemento positivamente accolto nella formazione
del cittadino disciplinato e rispettoso di un’immagine oleografica della
Patria. Il periodo della dittatura fascista va però affrontato, dal punto di
vista della ricostruzione storico-politica, in termini di rottura dell'identità
nazionale così come questa era stato costruita dal Risorgimento, ponendo anche
in questo caso un interrogativo: poteva lo Stato totalitario rivendicare quella
continuità?
Il
problema della continuità dello Stato non si pone, infatti, nel nostro caso
come tenteremo di fare più avanti a proposito del passaggio dal fascismo alla
Repubblica, ma deve essere affrontato su un più lungo periodo quale problema di
continuità attraverso il fascismo. E' indubbio che il peso determinante
dell'apparato statale centralizzato era presente fin dall'Unità, quale strumento
di governo di una ristretta classe dirigente di un paese solcato da profonde
fratture sociali e territoriali ed in via di squilibrato sviluppo. Già in
periodo liberale si poteva parlare di identificazione fra Stato e
amministrazione, accoppiate dall'assunto “che non v'è libertà individuale prima
dello Stato” e sbrigare l'argomento definendo il regime fascista come
“semplicemente più incisivo nel dare svolgimento a questa impostazione,
sbarazzandosi delle difficoltà che creavano le libertà individuali”.
Del
resto, nel corso dell'amministrazione giolittiana, avevamo avuto un ampliamento
nei poteri dell'esecutivo, caratteristico di tutti i paesi industrializzati, ed
il varo di un progetto “burocratico di governo” da parte del blocco dominante.
Il punto vero, di rottura con l'identità nazionale costruita con il
Risorgimento, avvenne però rafforzando nel periodo fascista, da un lato, quella
tradizione che prendeva le mosse dal sistema moderato di governo proprio sotto
l'aspetto dei riferimenti sociali (quindi escludendo le grandi masse operaie e
contadine da qualsiasi possibilità di apporto politico) e rompendo,
unilateralmente, a favore di un
mostruoso accentramento di potere nelle mani del Capo e del suo governo, il “mostruoso
connubio” con il parlamentarismo ed incontrandosi con una tendenza sviluppata
anche a livello internazionale, ma in Italia particolarmente radicata ed acuta,
di presenza capillare del Governo nei rapporti economici e sociali. Possiamo
quindi sostenere il giudizio di “rottura” nella continuità dello Stato da parte
del regime fascista, attraverso queste valutazioni, anche se va riconosciuto il
carattere tutto sommato ambiguo dello Stato totalitario che sostituì lo Stato
liberale. E' certo che il tentativo fu di annullare davvero la distinzione tra
Stato e società civile (come del resto si sta verificando in questa fase), allo
scopo di far sì che lo Stato soverchiasse la società civile per imbrigliare,
mediare, reprimere, respingere e sospingere in certe direzioni la dinamica sociale
e le lotte delle classi. Ovviamente quella dinamica e quelle lotte non si
composero totalmente e non si placarono lasciando comunque residui nella forma
statuale, ma si può ben affermare che le patenti forme di oppressione e
l'invadenza statale possano essere catalogate come forma di stato totalitario,
fornendo alla fine un dato di vera e propria rottura nella identità della
Nazione sorta dal Risorgimento.
Il
completamento di quello “strappo”, la sua forma più incisiva si realizzò però
con l'8 Settembre: coloro che vissero quel periodo furono colpiti dallo
sfasciamento dello Stato e dal senso della sua “sospensione”.
E'
difficile, ancor oggi, dare di quel fenomeno di “sospensione dello Stato” una
misura quantitativa, ma l'importanza di certi nodi storici sta proprio nel
costringere ampie masse di uomini a prenderne atto fino in fondo presentando loro conseguenze immediate
(l'invasione del Paese da parte di eserciti stranieri, l'abbandono dei soldati
italiani dislocati all'estero, le Città abbandonate alla mercé dei
bombardamenti, ecc.). La nascita della Repubblica sociale rappresentò il
completamento di questo “strappo” inaudito perché costrinse i cittadini a far
parte di uno Stato che, appunto, chiedeva un diverso vincolo di appartenenza e
di fedeltà (pensiamo ai militari che avevano giurato fedeltà al Re, e questo
fatto portò molti ufficiali per restare coerenti a quell'impegno a militare
nella Resistenza, e che prestarono un altro giuramento aderendo alle forze
armate della RSI; così come gli impiegati statali: tanto per fare degli
esempi).
Apparve
più feconda, rappresentando davvero il metro di misura per riprendere e
ripartire, l'esperienza di chi trasse la conclusione che i giuramenti, quando
vengono alla ribalta le questioni di fondo, non servono e bisogna trovare
altrove il punto di appoggio per la propria condotta. Fra le tante “lezioni
morali” che si sogliono, cadendo a volte anche nella retorica, accreditare alla
Resistenza, questa della messa in mora dell'istituto del giuramento possiamo
definirla come una delle più importanti, perché rifatta a quel senso di scelta
autonoma, imposta dalla durezza della situazione, che è alla base del più
valido comportamento resistenziale.
La
Resistenza si pose subito il problema del “fascismo come parentesi” e della
costruzione di uno Stato nuovo: prevalse però, al di là della scelta
istituzionale demandata poi al referendum dopo un periodo di incertezza, l'idea
del collegamento ideale con il Risorgimento con un discorso assieme di
completamento e di innovazione: con lo “stato totalitario” fuori da un quadro
di possibile continuità.
Un
discorso di “rottura” che ha riguardato anche il ruolo delle Forze Armate per
le quali non si può parlare sul piano storico come di continuità tra l’Esercito
monarchico e quello repubblicano.
E'
stato da molti, e giustamente, osservato che la Resistenza italiana fu tra le
più politicizzate: i motivi di questo fatto sono facilmente intuibili anche a
distanza di tanti anni, come è facile comprendere che i più ostili a tale
politicizzazione furono i ceti monarchici e conservatori, nonché gli alleati.
Per
tutti costoro il nuovo Risorgimento era solo una formula di comodo per
incanalare il rischioso ribollire della società italiana nella patriottica
guerra al tedesco. Non è del resto giustificato neppure dall'atteggiamento
strumentale tenuto da conservatori e alleati un giudizio di distacco verso il
motivo nazionale della Resistenza. Non si può cioè considerare un mero equivoco
il fatto che la Resistenza si avvalse con larghezza di donne e uomini mossi da
spinte prevalentemente patriottiche.
Bensì
si deve riconoscere che le più mature
forze politiche cercarono di trasformare tali spinte, in quella situazione, in
una tensione verso un generale rinnovamento della società italiana.
Gli
esiti furono contraddittori ma la presenza del fattore nazionale contribuì, fra
l'altro, a far riflettere sul posto che ad esso sarebbe spettato nella
ricostruzione postbellica e sul valore che poteva ancora avere per l'uomo
moderno. Proprio la presenza del fattore nazionale rappresentò il filo
conduttore dei lavori dell’Assemblea Costituente e il punto di collante tra i
partiti consentendo così la conclusione dei lavori nonostante che, in mezzo
alla strada, fosse capitato una rottura non banale del quadro politico con la fine
dei governi di solidarietà resistenziale. La Costituzione ha rappresentato, dal
punto di vista dell'elaborazione di principi e dettati organizzativi dello
Stato e della vita dei cittadini, il punto più alto di questo collegamento
ideale tra le fasi diverse della nostra storia che qui si è cercato di
richiamare.
Non
possiamo comunque tacere, in conclusione, delle difficoltà che incontrò la sua
applicazione, la mancata applicazione di certe parti, i ritardi, le resistenze
di parte del ceto politico e dell'apparato burocratico che dimostrarono come
forma sperimentata del potere borghese, non esaurita all'interno dei quadri del
partito fascista, l'esistenza di un elemento portante di un dominio di classe
in cui apparati amministrativi tradizionalmente autoritari continuavano ad
avere parte rilevante.
L'applicazione
e la difesa della Costituzione Repubblicana rappresenta quindi ancor oggi la
bussola, il riferimento di fondo per l'intreccio tra Risorgimento e Resistenza,
ed in questo senso è apparso fondamentale l’esito del referendum del 4 dicembre
2016, quando il PD propose la rottura del nesso che tiene assieme l’identità
nazionale, così come si è cercato di descrivere in questa sede.
Questo
perché la Resistenza è stato uno dei pochi fatti storici vissuti dagli italiani
sconfiggendo l'antica logica che, mentre i popoli europei dimostravano di saper
morire per la libertà, gli italiani attendevano passivamente la liberazione
elargita dagli stranieri. La Resistenza come tale tentò di superare, innanzi
tutto nelle coscienze, l'opposizione tra società civile e Stato, fra moralità
pubblica e moralità privata o se si preferisce, fra etica della convinzione e
etica della responsabilità.
I
limiti, gli errori di ideazione e di realizzazione del progetto contenuto nella
nostra Costituzione repubblicana, dai quali comunque non discendono
deterministicamente i mali della Repubblica accumulati, almeno, nel corso degli
ultimi trent'anni vanno ulteriormente indagati. Il senso di quel progetto
elaborata dalla Resistenza e tradotto dall’Assemblea Costituente, però, può
svolgere ancora una funzione civile, oggi che tutte quelle opposizioni di un
ceto politico “Nuovista” tendenzialmente autoritario e antidemocratico si
ripresentano con crudezza: applicare e difendere la nostra Carta Fondamentale
ecco l'impegno da assolvere nell'immediato e nella prospettiva storica, proprio
in questo momento in cui emerge una linea di non riconoscimento della
Repubblica nata il 25 aprile e di sostanziale revanscismo fascista.