Il potere
politico delle armi
di Manlio Dinucci
Giuseppe Denti "La colomba della pace" |
Mercati e Unione europea
in allarme, opposizione all’attacco, richiamo del presidente della Repubblica
alla Costituzione, perché l’annunciata manovra finanziaria del governo
comporterebbe un deficit di circa 27 miliardi di euro. Silenzio assoluto
invece, sia nel governo che nell’opposizione, sul fatto che l’Italia spende in
un anno una somma analoga a scopo militare. Quella del 2018 è di circa 25
miliardi di euro, cui si aggiungono altre voci di carattere militare portandola
a oltre 27 miliardi. Sono oltre 70 milioni di euro al giorno, in aumento poiché
l’Italia si è impegnata nella Nato a portarli a circa 100 milioni al giorno.
Perché
nessuno mette in discussione il crescente esborso di denaro pubblico per armi,
forze armate e interventi militari? Perché vorrebbe dire mettersi contro gli
Stati uniti, l’«alleato privilegiato» (ossia dominante), che ci richiede un
continuo aumento della spesa militare.
Quella
statunitense per l’anno fiscale 2019 (iniziato il 1° ottobre 2018) supera i 700
miliardi di dollari, cui si aggiungono altre voci di carattere militare,
compresi quasi 200 miliardi per i militari a riposo. La spesa militare
complessiva degli Stati uniti sale così a oltre 1.000 miliardi di dollari annui,
ossia a un quarto della spesa federale. Un crescente investimento nella guerra,
che permette agli Stati uniti (secondo la motivazione ufficiale del Pentagono)
di «rimanere la preminente potenza militare nel mondo, assicurare che i
rapporti di potenza restino a nostro favore e far avanzare un ordine
internazionale che favorisca al massimo la nostra prosperità».
La
spesa militare provocherà però nel budget federale, nell’anno fiscale 2019, un
deficit di quasi 1.000 miliardi. Questo farà aumentare ulteriormente il debito
del governo federale Usa, salito a circa 21.500 miliardi di dollari. Esso viene
scaricato all’interno con tagli alle spese sociali e, all’estero, stampando
dollari, usati quale principale moneta delle riserve valutarie mondiali e delle
quotazioni delle materie prime.
C’è
però chi guadagna dalla crescente spesa militare. Sono i colossi dell’industria
bellica. Tra le dieci maggiori produttrici mondiali di armamenti, sei sono
statunitensi: Lockheed Martin, Boeing, Raytheon Company, Northrop Grumman,
General Dynamics, L3 Technologies. Seguono la britannica BAE Systems, la
franco-olandese Airbus, l’italiana Leonardo (già Finmeccanica) salita al nono
posto, e la francese Thales.
Non
sono solo gigantesche aziende produttrici di armamenti. Esse formano il
complesso militare-industriale, strettamente integrato con istituzioni e
partiti, in un esteso e profondo intreccio di interessi. Ciò crea un vero e
proprio establishment delle armi, i cui profitti e poteri aumentano nella
misura in cui aumentano tensioni e guerre. La Leonardo, che ricava l’85% del
suo fatturato dalla vendita di armi, è integrata nel complesso
militare-industriale statunitense: fornisce prodotti e servizi non solo alle
Forze armate e alle aziende del Pentagono, ma anche alle agenzie
d’intelligence, mentre in Italia gestisce l’impianto di Cameri dei caccia F-35
della Lockheed Martin.
In
settembre la Leonardo è stata scelta dal Pentagono, con la Boeing prima
contrattista, per fornire alla US Air Force l’elicottero da attacco AW139. In
agosto, Fincantieri (controllata dalla società finanziaria del Ministero
dell'Economia e delle Finanze) ha consegnato alla US Navy, con la Lockheed
Martin, altre due navi da combattimento litorale. Tutto questo va tenuto presente quando ci si
chiede perché, negli organi parlamentari e istituzionali italiani, c’è uno
schiacciante consenso multipartisan a non tagliare ma ad aumentare la spesa militare.