PAESAGGI SOLO DA GUARDARE?di
Giancarlo Consonni
A
ben vedere, anche le rappresentazioni dei corpi umani contengono implicitamente
un’immagine del mondo. I corpi nudi scolpiti da Policleto sono lo specchio del
cosmo, con il quale sono in piena, riposata sintonia.Le
figure della statuaria romana restituiscono individui ben ancorati nella vita
quotidiana, caratteri resi saldi da un senso del diritto ma anche attraversati
da una tensione civile che non si sottrae ai conflitti. Ancorché isolate,
queste figure presuppongono e rendono palpabile un contesto: la
civitas. Nelle statue dei mesi di Benedetto Antelami nel
Battistero di Parma (fine XII - inizio XIII sec.) i corpi sono tutt’uno con la
messa in scena di un fare ispirato alla cura. In queste sintesi a elevato peso
specifico fa il suo ingresso nel mondo dell’arte il paesaggio. Seppure appena
accennato, il paesaggio agrario è restituito nella sua essenza: come «un fare, un farsi di quelle genti vive» (1). Certo, non siamo alla narrazione distesa de Les grandes heures
du Duc de Berry (1384-1409): se Antelami è la poesia, i Fratelli Limbourg
sono la prosa; ma il contenuto della rappresentazione non diverge di molto: a
essere celebrato è il legame tra gli artefici e il paesaggio. Proprio quel
legame che, trascurato, rende debole quanto stabilito dall’articolo 9 della
Costituzione Italiana: se non si offre un calibrato sostegno a una agri
coltura degna di questo nome, la “tutela del paesaggio” è destinata a
restare lettera morta.
I
paesaggi sono sempre esistiti. Naturali dapprima e via via sempre più
umanizzati. La “nascita del paesaggio” viene comunemente riferita a un aspetto
soggettivo: a un modo, più o meno condiviso, di percepire i contesti fisici in
cui è attiva una valutazione estetica (che può spingersi fino al piacere o al
dolore). Ma, nonostante la vasta letteratura, la “nascita” resta avvolta nella
nebbia (non meno del concetto stesso di paesaggio). Ogni studioso del paesaggio
ha indicato una figura aurorale, con il risultato che gli inizi risultano
essere molti e per la gran parte tutti degni di attenzione. Alla
ricchissima produzione sul tema si aggiunge ora Clivo (2), l’aureo librino in cui Giulio Gino Rizzo compie un
attraversamento della storia del paesaggio italiano avendo come bussola la
parola clivo. Abbiamo così la possibilità di intraprendere un percorso
fascinoso avendo per guida uno studioso che ha alle spalle studi notevoli sui
paesaggi italiani e della Tuscia romana in particolare (oltre a una
straordinaria esplorazione dell’opera di Roberto Burle Marx). Dopo diverse
‘illuminazioni’, Rizzo ci conduce di fronte alla rappresentazione dei paesaggi
terrazzati delle Cinque Terre operata da Eugenio Montale. E a condividere la
sofferenza e la denuncia del poeta per lo stato di abbandono di quelle che i
liguri chiamano «fasce» (3).L’Università
di Padova, con il progetto Mapter guidato dal geografo Mauro Varotto, ha rilevato
che in Italia i terrazzi sorretti da muri a secco raggiungono l’estensione
lineare di «170mila chilometri» (4) (più di quattro volte la circonferenza del globo). Una realtà che
meriterebbe un riconoscimento Unesco (ben oltre le colline del Prosecco) e soprattutto un piano
nazionale di manutenzione volto a sostenere e incrementare le molte iniziative
di riqualificazione dell’agricoltura collinare sorte dal basso (5).
Per
tornare alla questione della “nascita del paesaggio”, forse per togliersi
d’imbarazzo nella selva delle interpretazioni, Eugenio Turri nel 1974 offriva
una chiave per ritrovare una concordia discors: «L’acquisizione culturale
del paesaggio nasce lentamente e faticosamente dalla realtà naturale e
geografica» (6). In
questa scia, Maurizio Vitta (7)
ha tentato di tracciare una mappa dei mille rivoli di cui si alimenta la
nascita del paesaggio in Occidente. Ma la selva delle rappresentazioni resta e
non è facile orientarsi; tanto più se ci si fissa sul problema dell’inizio. La
soluzione? Guardare al problema della nascita con ironico distacco evitando la riductio
ad unum; avendo cura, semmai, di mettere a frutto ogni spunto fecondo
offerto da filoni non omologabili.Resta
il fatto che ambiente, territorio e paesaggio non sono che modi convenzionali -
non sempre chiarissimi sul piano concettuale - di nominare una realtà che resta
indivisibile. Come
se ne esce? Non perdendo mai di vista che il paesaggio è a conti fatti una
rappresentazione parziale della realtà fisica, oltretutto mutevole nel tempo, e
che, per usare il titolo di una bella mostra milanese del 1984, si tratta pur
sempre di una immagine interessata (8). Quando Lionello Puppi sostiene che, a partire dal
Quattrocento, chi contempla il paesaggio è un cittadino (9), dice una verità storica.
L’idea di paesaggio in Italia si consolida dopo che si è pienamente dispiegata
l’«intima unione [della città] col suo territorio»(10). Una realtà di cui L’Allegoria
degli Effetti del Buon Governo in città e in campagna (1338-39) di Ambrogio
Lorenzetti è in qualche modo il manifesto (e anche, come non sfugge a Giulio
Rizzo, un’eccezione per l’elevato contenuto storico-documentale che contiene).
Nel consolidarsi del “paesaggio” in pittura gioca un ruolo anche l’emergere di
un ceto borghese che sa apprezzare la portata di quell’«immenso deposito di
fatiche» (11) che sono i paesaggi agrari.Fatiche degli altri, ovviamente. Quello su cui si sa assai poco è quale
idea di paesaggio avessero coloro che il paesaggio agrario lo ‘producevano’. Tutto questo per dire che
occuparsi di paesaggi comporta che si studino assieme oggetto e soggetto (cosa
di cui Rizzo non si dimentica certo).
Oltretutto
siamo in presenza di diverse soggettività: -
quella di coloro che i paesaggi li hanno vissuti ‘in diretta’;-
quella degli artisti e dei letterati che se ne sono fatti interpreti;-
quella degli studiosi (e dei loro lettori).Praticare
in lungo e in largo questi livelli e le loro interazioni è indispensabile per
venire a capo dei caratteri dei paesaggi. Ma non meno importante è saper
accogliere i colpi d’ala degli artisti e dei letterati - penso a Del paesaggio (Von der
Landschaft, 1902) di Rilke (12) -, rimescolando, quando occorre, ciò che una rigida
(e sterile) definizione di paesaggio tende a tenere distinto.Mi
spiego meglio. Il paesaggio, afferma Turri, è «la manifestazione sensibile
dell’ambiente, la realtà spaziale vista e sentita […] organismo vivo intessuto
di relazioni interdipendenti tra le forme che lo compongono», mentre
«l’ambiente sottintende l’esserci, il viverci» (13).
La
valutazione estetica che sembra affiorare nella pittura occidentale a partire
soprattutto dal Quattrocento fa emergere un punto di vista contemplativo della
bellezza che, quantunque prevalente, convive spesso, nutrendosene, con una
conoscenza ‘anatomica’ del paesaggio che attinge a una osservazione attenta
tanto degli elementi naturali (geologia, botanica ecc.) quanto degli esiti
trasformativi dell’attività umana (agricoltura, insediamenti ecc.). Con
un risultato: che la bellezza è inscindibile da una percezione/valutazione, sia
pure implicita, dell’ospitalità e dell’abitabilità dei luoghi. In altri termini
il giudizio estetico è parte integrante del sentirsi o meno accolti e a proprio
agio nei contesti rappresentati. Il paesaggio e l’ambiente che si vorrebbero
tenere distinti tornano a interagire e a produrre significati e senso.E
questo vale anche per l’arte di rappresentare i paesaggi, almeno fino agli
impressionisti.
Note(1). Emilio
Sereni, Storia del paesaggio agrario
italiano, Laterza, Bari 1972
(1961), p. 19.(2). Giulio
G. Rizzo. Clivo. Lettura morfologica del paesaggio della Divina Commedia con
le cantiche figurate da Giulio Repulino. Scritti di Alice Di Piero, Monica
Ferrarini, Veronica La Porta, Mariella Zoppi, Gangemi, Roma 2021.(3). Detto, per
inciso, l’uso di clivo da parte dell’autore de Gli ossi di seppia
è un poco approssimativo. Semmai trattasi di suolo in pendio per balze (solum
per gradus acclive), mentre clivo sta a indicare un semplice pendio o il
fianco di una collina.(4).
Francesco Erbani, Paesaggi
da sogno e argini alle frane il tesoro nascosto delle terrazze d’Italia, in «la Repubblica», 9 ottobre 2016.(5). Di questo
quadro straordinario dà
conto il volume: Luca Bonardi, Mauro
Varotto (a cura di), Paesaggi terrazzati d'Italia. Eredità storiche e nuove
prospettive, FrancoAngeli, Milano 2016.(6). Eugenio
Turri, Antropologia del paesaggio, Edizioni di Comunità, Milano 19832,
p. 51.(7). Maurizio
Vitta, Il paesaggio. Una storia tra natura e architettura, Einaudi,
Torino 2005.(8). Archivio di
Stato di Milano, L’immagine interessata. Territorio e cartografia in
Lombardia tra 500 e 800, New Press, Como 1984.(9). Lionello
Puppi, L’ambiente, il paesaggio e il territorio, in Storia dell’arte
italiana, vol. V, Einaudi, Torino 1980, p. 68.(10). Carlo
Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane,
in «Il Crepuscolo», a. IX, nei fasc.: 42, 17 ottobre 1858, pp. 657-659; 44, 31
ottobre 1858, pp. 689-693; 50, 12 dicembre 1858, pp. 785-790; 52, 26 dicembre
1858, pp. 817-821, ora anche in Id.,
Storia universale e ideologia delle
genti. Scritti 1852-1864, a cura di Delia Castelnuovo Frigessi, Einaudi,
Torino 1972, p.
122.(11). Id., Agricoltura e
morale, in Atti della Società
d’incoraggiamento d’arti e mestieri. Terza solenne distribuzione dei premi alla
presenza di S.A.I.R. il Serenissimo Arciduca Vicerè nel giorno 15 maggio 1845,
Milano 1845, ora anche in Id., Scritti
sulla Lombardia, p. 326.(12). Rainer Maria Rilke, Del paesaggio e
altri scritti, a cura di Giorgio Zampa, Cederna Milano 1949. (13). E. Turri, cit., pp. 55 e 52.
Nelle statue dei mesi di Benedetto Antelami nel
Battistero di Parma (fine XII - inizio XIII sec.) i corpi sono tutt’uno con la
messa in scena di un fare ispirato alla cura. In queste sintesi a elevato peso
specifico fa il suo ingresso nel mondo dell’arte il paesaggio. Seppure appena
accennato, il paesaggio agrario è restituito nella sua essenza: come «un fare, un farsi di quelle genti vive» (1). Certo, non siamo alla narrazione distesa de Les grandes heures
du Duc de Berry (1384-1409): se Antelami è la poesia, i Fratelli Limbourg
sono la prosa; ma il contenuto della rappresentazione non diverge di molto: a
essere celebrato è il legame tra gli artefici e il paesaggio. Proprio quel
legame che, trascurato, rende debole quanto stabilito dall’articolo 9 della
Costituzione Italiana: se non si offre un calibrato sostegno a una agri
coltura degna di questo nome, la “tutela del paesaggio” è destinata a
restare lettera morta.
I
paesaggi sono sempre esistiti. Naturali dapprima e via via sempre più
umanizzati. La “nascita del paesaggio” viene comunemente riferita a un aspetto
soggettivo: a un modo, più o meno condiviso, di percepire i contesti fisici in
cui è attiva una valutazione estetica (che può spingersi fino al piacere o al
dolore). Ma, nonostante la vasta letteratura, la “nascita” resta avvolta nella
nebbia (non meno del concetto stesso di paesaggio). Ogni studioso del paesaggio
ha indicato una figura aurorale, con il risultato che gli inizi risultano
essere molti e per la gran parte tutti degni di attenzione.
L’Università
di Padova, con il progetto Mapter guidato dal geografo Mauro Varotto, ha rilevato
che in Italia i terrazzi sorretti da muri a secco raggiungono l’estensione
lineare di «170mila chilometri» (4) (più di quattro volte la circonferenza del globo). Una realtà che
meriterebbe un riconoscimento Unesco (ben oltre le colline del Prosecco) e soprattutto un piano
nazionale di manutenzione volto a sostenere e incrementare le molte iniziative
di riqualificazione dell’agricoltura collinare sorte dal basso (5).
Per
tornare alla questione della “nascita del paesaggio”, forse per togliersi
d’imbarazzo nella selva delle interpretazioni, Eugenio Turri nel 1974 offriva
una chiave per ritrovare una concordia discors: «L’acquisizione culturale
del paesaggio nasce lentamente e faticosamente dalla realtà naturale e
geografica» (6).
Resta
il fatto che ambiente, territorio e paesaggio non sono che modi convenzionali -
non sempre chiarissimi sul piano concettuale - di nominare una realtà che resta
indivisibile.
Oltretutto
siamo in presenza di diverse soggettività:
La
valutazione estetica che sembra affiorare nella pittura occidentale a partire
soprattutto dal Quattrocento fa emergere un punto di vista contemplativo della
bellezza che, quantunque prevalente, convive spesso, nutrendosene, con una
conoscenza ‘anatomica’ del paesaggio che attinge a una osservazione attenta
tanto degli elementi naturali (geologia, botanica ecc.) quanto degli esiti
trasformativi dell’attività umana (agricoltura, insediamenti ecc.).
(12). Rainer Maria Rilke, Del paesaggio e
altri scritti, a cura di Giorgio Zampa, Cederna Milano 1949.