VOGLIA DI PARTIRE
di
Maria Castiglioni
Alla
Libreria delle Donne, 12 giugno 2021 di Gabriella Galzio.
Questo
di Gabriella Galzio è un libro che definirei delicato, a cui occorre accostarsi
con una certa finezza di ascolto e di animo, in quanto di animo o meglio di
anima si tratta, propriamente di un viaggio dell'anima.
Lo
dice bene l’ex ergo del libro con il detto Tuareg: quando arrivi, siediti e
aspetta che l’anima ti raggiunga. È questo un tema ricorsivo nelle culture
popolari: anche tra gli Incas del Sud America v’è questa attenzione ai tempi
dell’anima che, racconta la tradizione, loro si fermano ad “aspettare” dopo le
lunghe traversate delle Ande. Lo ricorda don Gino Rigoldi nel suo libro di
meditazioni per la Pasqua, intitolato appunto Aspettando l’anima (Ed.
Paoline, 1999). E Pasqua, pesah in ebraico, significa passaggio.
Questo
di Gabriella è infatti un libro, “un romanzo di iniziazione dell’anima”
(pag.42), di tanti passaggi interiori, dove ogni viaggio diventa un “passaggio”,
di maturazione interiore, di avanzamento nella scoperta di sé, attraverso la
rivisitazione del proprio passato, un passato ripercorso, paradossalmente, attraverso la sua amnesia, la sua provvisoria
dimenticanza. Ma andiamo con ordine.
Una
donna e la sua anima, una donna e il suo viaggio interiore.
Anche
nel libro “La potenza delle donne” di Paola Leonardi, presentato qui
alla Libreria delle Donne la scorsa settimana, si narra di un percorso
iniziatico dove l’accento, trattandosi di una rivisitazione autobiografica
della vicenda storica del femminismo, è posto sulla dimensione intersoggettiva,
mentre qui l’accentuazione è posta sulla
dimensione intra-soggettiva.
Quindi
un confronto/dialogo che raggiunge anche i toni della sfida tra sé e sé: il
primo passaggio ineliminabile e necessario per mettere in campo quella “voglia
di partire”, che tanto spesso ci assale sotto forma della classica fantasia
“mollo tutto e me ne vado”. Partire è innanzitutto - lo abbiamo scoperto col
femminismo - un partire da sé, ma un sé bisogna pur averlo, ma adesso tra
identità fluide, attraversamenti, riposizionamenti, ecc., finisce che non si sa
più di che cosa si parla quando si dice Io o, nell’accezione che ne dà Jung, la
sua forma psichica più estesa, il Sé, per l’appunto.
Quindi
ricostruzione di un Sé è il tema di questo viaggio che si snoda attraverso
tappe interiori che si raggiungono sostando e attraversando certi luoghi
precisi, a cui Gabriella attribuisce una sua personalissima connotazione simbolica, veri e propri topoi dell'anima, dove qualcosa di
trasformativo è accaduto.
Gabriella Galzio
(Archivio Odissea)
Tutti
abbiamo i nostri topoi e sappiamo quanto questi influenzino e
costituiscano uno degli elementi fondamentali, insieme a Logos, Ethos, Etnos e
Genos (come insegna la Psicologia Transculturale) della nostra personalità. E
sappiamo anche come i luoghi possano essere terapeutici, come possano essere, o
diventare, luoghi che curano come recita il titolo di un recente libro di Paolo
Inghilleri (I luoghi che curano, Ed. Cortina, 2021).
Dicevo
del punto di partenza, della ricerca del Sé, come orizzonte espansivo dell’Io.
A questo proposito così scrive Gabriella: “Sentivo di dover vivere
quell’esperienza di temporanea latenza dell’Io che in molte culture c. d.
primitive è considerata un momento psichico necessario alla formazione della
personalità”.
La
cultura occidentale non basta più (lo “strappo necessario”), lo
psicanalista lo si lascia (dopo aver pagato le sedute concordate ma che non si
faranno) e il viaggio ha inizio, alla ricerca
di quella “dinamica archetipica interna” che Gabriella connota subito come femminile, ispirata cioè
al culto della fertilità, da lei rivisitato nell'accezione che ne dà Heider
Gottner Abendroth, studiosa delle società matriarcali, e cioè come mysterium
ciclico della vita, della morte e della rigenerazione. Gabriella parte,
guidata da un sogno (il Sé che si rivela oniricamente) dove compare una
tartaruga cosmofora (creatura fortemente simbolica in tutte le culture,
specialmente greca e indiana) che punta verso il Mediterraneo orientale per poi
riversarsi sul ripiano del tavolino di casa, proprio lì dove Gabriella
incomincia ad ammonticchiare i libri per il viaggio, in uno stato di “beatitudine
aurorale”.
(Archivio Odissea)
Gabriella Galzio
(Archivio Odissea)
E
il viaggio comincia, letterariamente, da un espediente, un classico della
letteratura romanzesca: il ritrovamento di un giornale in una valigia, dove
compare una lettera rivolta ai lettori, vero viatico a tutto ciò che seguirà
dopo.
E
sarà un viaggio salvifico se si pensa da dove la viaggiatrice era partita e che
cosa aveva scelto di lasciare, quella nostra normalità “esserci, produrre,
vendere” avvertita come un progressivo sfilacciarsi delle radici, come un
suicidio, dove “si può invecchiare rimanendo larve”, avvizzendo e
rimpiangendo.
La
ricerca della propria autenticità comporta pagare un prezzo: vivere in
uno stato apolide, di non appropriatezza per ricercare la propria
verità in attesa che venga ciò che Gabriella definisce come: “il tempo della
mia civiltà, della mia polis”. Vero e proprio “ritorno a se stessi”
(c’era un libro intitolato così di Guido Cavani, del 1960), questo viaggio
inizia a ritroso - come intitola Gabriella i numerosi piccoli capitoli che costituiscono le tre
parti in cui il libro è articolato - ad indicare che non c’è nessuna vera
partenza senza una preventiva discesa (la morte, prima tappa del Mysterium, o
la nigredo dell’opera alchemica) dove si incontra quel “muro di impotenza”, più
invisibile di quello di Berlino, (la prima, simbolica tappa) ma non meno duro e
possente, che anche a noi tocca sfondare, andando oltre le “estetizzanti
soluzioni di una Milano da bere e la
triste obsolescenza di certi riecheggiamenti della sinistra”.
Il
cuore è gettato oltre il muro, il vero viaggio a ritroso ora può partire e sarà
dispensatore di una ricchezza di emozioni, sensazioni, pensieri, evoluzioni.
La
prima emozione inaugurale è il viaggio in kajak, sulle coste della Normandia,
tra flutti e banchi di scogli frastagliati, cercando di evitare intrighi di
alghe che afferrano la pagaia e rallentano l’andare. L’acqua tumultuosa, la
lotta per avanzare, si profila l’albedo, la seconda trasformazione alchemica,
che preannuncia l’incontro con la parte femminile di sé, quella annegata nel “folto
esercito di giacche e cravatte” del lavoro alienante ormai alle spalle.
Tappa
dopo tappa, Gabriella sente che guadagna “sicurezza e territorio”, come
nella chiesa di Santa Caterina di Alessandria a Galatina, o nella passeggiata
di Gallipoli, dove provare “lo sconfinamento, l’assenza di limiti, lo spazio”.
In
nave, sul canale di Sicilia, annota: “Da sola. Io e il mondo... le donne
hanno paura di tutto, per fortuna sempre di meno...”. E per
dimostrare a sé stessa che la paura l’ha vinta, a Cala Pozzolana, rimane dentro
il fondo del cratere, lasciandosi attraversare dalla paura, e uscendone più
forte, una “fierezza senza oltraggio”, anche di fronte agli uomini.
(Archivio Odissea)
G. Galzio
nel suo Salotto letterario
Fuori
dal tunnel della paura c’è l’incontro con Afrodite, figura della bellezza.
Com’è
possibile, si chiede Gabriella, che le donne siano state così alienate dalla
bellezza, irretite dal corpo palestrato, salutista, medicalizzato, in una
parola internato nella gabbia dei significanti maschili?
Ed
ecco l’immersione negli hammam, negli harem, luoghi inviolabili di donne, che
affondano la loro origine in epoca matrilineare, luoghi del corpo collettivo,
madre corale a cui fare ritorno per rintracciare quella “fanciulla della
razza nuova” di cui Gabriella ci parla nel suo testo poetico “La discesa
alle Madri”, scritto 10 anni fa. Solo da qui, da questa nuova signoria che
“smaesta” la mente occidentale e si ricongiunge a un coro di donne, di
braccia salde in comunione (“orizzonte di genere” l’ha definito Luce Irigaray),
è possibile procedere verso le “nozze sacre con l’uomo, che finalmente
ricompongono la scissione dell'eros dal sacro, avvenuta con la
patriarcalizzazione”. E qui si chiude anche la terza fase alchemica, la
rubedo, con la rinnovata, auspicata ricongiunzione di maschile e femminile.
L’approdo
del viaggio è anche il suo punto di partenza, Milano, piazza XXIV Maggio, il
molo delle partenze dove l’acquisizione interiore del viaggio, la sovranità, si
confronta ancora una volta con il vuoto per concludere, con una di quelle
enunciazioni fulminanti che ci sorprendono fin dalle prime pagine, che “Reggere
il vuoto è reggere questa sovranità”.
E
l’invito con cui Gabriella si congeda, nella illuminante poesia del finale, è,
voltairianamente, quello di coltivare segretamente il proprio giardino e di
accogliere l’anima che viene a visitarci, l’anima che anima il mondo, la
mistica Anima Mundi, perché si possa transitare (un’immagine che mi piace
molto) dal giardino segreto alla città giardino.
Per
concludere una notazione sulla scrittura. Come avrete notato dalle numerose
citazioni è, la scrittura di Gabriella, ottocentescamente descrittiva
(un’attenzione quasi caduta in disuso con la civiltà dell’immagine), ma anche
sensitiva, lucida e intuitiva, analitica e densa: procede per affreschi sempre
più ariosi, luminosi, cangianti, come nella descrizione della sua salita alla
montagna dorata di Linosa, “un piede scettico, l'altro rapito”, che
sta ad indicare sia la misura della sua
ricerca stilistica, sia l’alternarsi tra discese e risalite nel movimento di un
eterno ritorno che non si avviluppa su sé stesso, ma si espande via via ed è
cifra dell’intero libro, fino al
disvelamento finale (che dà conto dell’amnesia iniziale) e che lasciamo a voi
scoprire.
nel suo Salotto letterario