VOLIZIONE E
IMPOTENZA
di Angelo Gaccione
“Sei
tu il milanese, io invece sono un calabrese”. Così mi aveva apostrofato più volte e con bonario
affetto il poeta lombardo Guido Oldani, teorico e ideatore del realismo
terminale, invertendo le parti. Lui saggiamente calmo, controllato, non schiavo
del tempo, rispettoso del suo scorrere e senza forzature. Io, invece, calabrese
contronatura, maniaco della puntualità, ossessionato dal tempo come se non mi
bastasse mai. Il poeta di Melegnano con quelle parole intendeva sottolineare il
mio attivismo ipercinetico, la mia divorante nevrosi per il fare, i miei ritmi
stakanovisti propri degli abitanti di questa città della fretta. Ma così lo
sono diventato o lo sono sempre stato? Ora che ci penso lo ero già da ragazzo e
l’età adulta non ha fatto che accentuarlo questo attivismo. Milano, da parte
sua, ha esasperato in me il binomio tempo-ritmo, tanto da rendermi inquieto se
sono costretto a fermarmi, se non posso essere parte dell’azione collettiva.
Persino il passo ha finito per assumere un ritmo esagerato, e si è contratta di
molto la frazione di tempo che dedico ai pasti. Devo fare, questa è la mia
condanna. L’indolenza mi è insopportabile e ho sempre avuto un debole per gli
uomini d’azione. Invidio la pacatezza di Oldani, io ritrovo la mia quando vado
in cerca della mia Milano, quando la esploro e mi perdo. Allora sento
che il cuore rallenta il battito e il respiro diventa umano. Quando però
agisco, mi butto a capofitto e lo faccio fino allo sfinimento, fino al
traguardo che raramente mi sfugge. Forzo il tempo con impazienza come a volerlo
domare. Ma di recente, trovandomi a fare i conti con un problema di salute, sono
stato costretto a rallentare il passo. È avvenuto ciò che sapevo da sempre e su
cui ho più volte scritto e ragionato. Non c’è volizione che possa tener
testa all’impotenza, per quanto forte, intensa, caparbia, ostinata essa
sia. Quando il corpo diviene debole o incapace di muoversi, anche la volontà si
piega e ogni volizione è costretta alla resa, a riconoscere l’inanità dei suoi
sforzi. “Noi non abbiamo un corpo, ma siamo il nostro corpo” ha
scritto su “Odissea” il saggista piacentino Franco Toscani. Un corpo
estremamente fragile. Etereo, come un sospiro.