UNA NUOVA ODISSEA...

DA JOHANN GUTENBERG A BILL GATES

Cari lettori, cari collaboratori e collaboratrici, “Odissea” cartaceo ha compiuto 10 anni. Dieci anni di libertà rivendicati con orgoglio, senza chiedere un centesimo di finanziamento, senza essere debitori a padroni e padrini, orgogliosamente poveri, ma dignitosi, apertamente schierati contro poteri di ogni sorta. Grazie a tutti voi per la fedeltà, per la stima, per l’aiuto, per l’incoraggiamento che ci avete dato: siete stati preziosi in tutti questi dieci anni di vita di “Odissea”. Insieme abbiamo condiviso idee, impegni, battaglie culturali e civili, lutti e sentimenti. Sono nate anche delle belle amicizie che certamente non saranno vanificate. Non sono molti i giornali che possono vantare una quantità di firme prestigiose come quelle apparse su queste pagine. Non sono molti i giornali che possono dire di avere avuto una indipendenza di pensiero e una radicalità di critica (senza piaggeria verso chicchessia) come “Odissea”, e ancora meno quelli che possono dire di avere affrontato argomenti insoliti e spiazzanti come quel piccolo, colto, e prezioso organo. Le idee e gli argomenti proposti da "Odissea", sono stati discussi, dibattuti, analizzati, e quando occorreva, a giusta ragione “rubati”, [era questa, del resto, la funzione che ci eravamo assunti: far circolare idee, funzionare da laboratorio produttivo di intelligenza] in molti ambiti, sia culturali che politici. Quelle idee hanno concretamente e positivamente influito nella realtà italiana, e per molto tempo ancora, lo faranno; e anche quando venivano avversate, se ne riconosceva la qualità e l’importanza. Mai su quelle pagine è stato proposto qualcosa di banale. Ma non siamo qui per tessere le lodi del giornale, siamo qui per dirvi che comincia una una avventura, una nuova Odissea...: il gruppo redazionale e i responsabili delle varie rubriche, si sono riuniti e hanno deciso una svolta rivoluzionaria e in linea con i tempi ipertecnologici che viviamo: trasformare il giornale cartaceo in uno strumento più innovativo facendo evolvere “Odissea” in un vero e proprio blog internazionale, che usando il Web, la Rete, si apra alla collaborazione più ampia possibile, senza limiti di spazio, senza obblighi di tempo e mettendosi in rapporto con le questioni e i lettori in tempo reale. Una sfida nuova, baldanzosa, ma piena di opportunità: da Johann Gutenberg a Bill Gates, come abbiamo scritto nel titolo di questa lettera. In questo modo “Odissea” potrà continuare a svolgere in modo ancora più vasto ed efficace, il suo ruolo di laboratorio, di coscienza critica di questo nostro violato e meraviglioso Paese, e a difenderne, come ha fatto in questi 10 anni, le ragioni collettive.
Sono sicuro ci seguirete fedelmente anche su questo Blog, come avete fatto per il giornale cartaceo, che interagirete con noi, che vi impegnerete in prima persona per le battaglie civili e culturali che ci attendono. A voi va tutto il mio affetto e il mio grazie e l'invito a seguirci, a collaborare, a scriverci, a segnalare storture, ingiustizie, a mandarci i vostri materiali creativi. Il mio grazie e la mia riconoscenza anche ai numerosi estimatori che da ogni parte d’Italia ci hanno testimoniato la loro vicinanza e la loro stima con lettere, messaggi, telefonate.

Angelo Gaccione
LIBER

L'illustrazione di Adamo Calabrese

L'illustrazione di Adamo Calabrese

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA

FOTOGALLERY DECENNALE DI ODISSEA
(foto di Fabiano Braccini)

Buon compleanno Odissea

Buon compleanno Odissea
1° anniversario di "Odissea" in Rete (Illustrazione di Vittorio Sedini)


"Fiorenza Casanova" per "Odissea" (Ottobre 2014)

venerdì 3 gennaio 2025

CONDIZIONE OPERAIA E MORTE 
di Pierpaolo Calonaci


 
Vincenzo Martinelli

Qualche settimana fa, dopo l’ennesimo omicidio di lavoratori nello stabilimento petrolifero Enel a Calenzano, comune alle porte di Firenze, il quotidiano ‘la Repubblica viene in possesso di una lettera, vergata a mano da uno degli operai (che poi sarà una delle vittime) addetti alle operazioni di carico/scarico delle autobotti, indirizzata ai responsabili della ditta di trasporti per cui lavorava, dove vengono denunciate le precarie condizioni strutturali dell’impianto, le conseguenti (prevedibili) diminuzioni degli standard di sicurezza del luogo di lavoro e la gravosità di turni massacranti ben oltre il contratto. Lamentando - perché la colpa deve sempre ricadere su chi lavora - una lettera disciplinare della ditta di autotrasporti per la mancata consegna di un carico quale conseguenza di quei problemi. A prescindere da tutto questo, se si può, resta un’immagine che è la cifra o semmai lo stigma della condizione di asservimento del lavoro oggi, rappresentato dalla grafia con cui la lettera viene composta. È una grafia effigiante una mano decisa a fare i conti con la propria oppressione, trovando la forza interiore di dire ciò che minaccia il lavoro e la vita. Al netto di qualsiasi enfasi, quella lettera è uno stilema. E forse anche per questo che suscita un sentimento di compassione e dolore davanti alla condizione sociale e umana di ogni lavoratore, di ogni lavoratrice.


La lettera
 
È una scrittura affine a quella dei bambini delle elementari, quando, se ce ne ricordiamo, cercavamo di compiacere gli adulti prestando ossessiva attenzione a non sbagliare la forma sintattica dei suoi fonemi e morfemi. Ortograficamente corretta usa lettere e parole tramite un gesto semplice, pulito, innocente analoga alla coscienza umana di ogni bambino che suole esprimere liberamente sé stesso; il quale non vorrebbe inconsciamente mai perdere e che verrà soffocata inevitabilmente, altrimenti il dominio del mondo degli adulti non potrà educarlo - giusto una nota incidentale -all'accettazione dell'ordine dominante del divenire storico del regime produttivo del lavoro e della sua fenomenologia.



Possiamo immaginare quell’uomo con le mani piagate e piegate da turni di lavoro massacranti con un salario da schiavi e con responsabilità familiari enormi dovute a determinate contingenze cui necessariamente dover assolvere. Contorte eppure salde da un senso della propria vita affetto da gravosità e sofferenza ma in cui rifulge il senso della responsabilità e della ribellione. Ed è bello che fra le righe della lettera non muoia la coscienza con cui trovare la forza e la dignità di scriverla per denunciare uno stato di cose circa l'estrema pericolosità strutturale del lavoro nell'impianto Enel. Eppure quella lettera viene indirizzata a qualcuno. E rimane invariabilmente inascoltata. Chi ascolta oggi gli operai?

 
Al massimo qualche “politico”, nei suoi finimenti istituzionali, potrà concedere l’amabile sforzo di pensare che quell’impianto lì dove sta in mezzo ad una pianura densamente popolata certo non dovrebbe esserci, battendosi magari per farlo spostare (importante, per carità, ma non è certo questo il nucleo del problema); ecco, niente di più. Forse qualche onesto sindacalista.
Come bambini che sanno vedere troppo bene le conseguenze perniciose di un dato discorso produttivo, del progresso, della crescita senza sosta, dell’accumulazione fine a sé stessa - presieduto dagli adulti/padroni che “sanno” - alla mano e alla voce di quell’operaio nessuno presta attenzione.


Morti sul lavoro

I bambini e la classe operaia sono le vittime eccellenti, nascoste accuratamente, dell’attuale società di massa segnata dal connubio tra “capitale e plebe” (Harendt); nel qual sodalizio i bambini introiettano relazioni oppressive e opprimenti in cui il ricatto del mercato pone il principio dell’autoaffermazione individualistica, disumanizzando l’ideale di umanità e dignità dell’uomo e, per converso, i lavoratori sotto forma di atomi, spesso uni contro gli altri, devono lasciare su carta il proprio testamento nella giungla di “popoli trasformati in specie animali” dove produrre e morire.
Ecco dove comincia la morte, nell'invisibilità.

FUGGIRE DALL’ETERNO PRESENTE
di Franco Astengo
 



Sembrano tutti (o quasi) convinti che il tempo scorra in un eterno presente dove si cerca di festeggiare per allontanare l’angoscia: quella che stiamo vivendo però è una crisi diversa dove la connessione tecnocrazia/guerra appare davvero come l’iceberg su cui l’umanità balla la sua fine. È svanito il rimando escatologico, la previsione del futuro e il richiamo al passato che potrebbe ancora formare un ponte. La politica sembra ridotta al problem solving e l’improvvisazione si camuffa da pragmatismo. La sinistra ha bisogno di acquisire coscienza di questo stato di cose e di imporsi fuori dalla pigrizia per cambiare paradigma. È richiesto un tale sforzo di rielaborazione cui nessuna generazione è mai stata chiamata, a partire dalla prima rivoluzione industriale e dal sorgere del capitalismo e dall’organizzarsi della classe operaia nei sindacati e nei partiti di massa. È questo, della presa d’atto dell’avvenuto mutamento di paradigma, il senso di una proposta d’analisi che mi sono permesso di definire come del “socialismo della finitudine”.



“Socialismo della finitudine” per ripartire dall’idea dell’impossibilità, rispetto a quello che abbiamo pensato per un lungo periodo di tempo, di procedere sulla linea dello sviluppo infinito inteso quale motore della storia inesorabilmente lanciato verso “le magnifiche sorti e progressive”.
Il primo punto di programma così teoricamente impostato dovrebbe allora essere quello rappresentato dalla progettazione e da una programmazione di un gigantesco spostamento di risorse tale da modificare profondamente il meccanismo di accumulazione dominante. 
Oggi il ritorno della guerra come prospettiva globale, il riferimento a innovazioni tecnologiche in grado di mutare il quadro di riferimento sociale, l’emergere di tensioni “dittatoriali” sconvolgono l’assetto consolidato in un momento in cui si stava attraversando una forte difficoltà per quell’accelerazione nei meccanismi di scambio che abbiamo definito come “globalizzazione”.

Si è verificato l’ingresso nel novero delle grandi potenze di nuovi attori politici portatori di diversi sistemi di governo della politica e dell’economia, a partire dalla Cina e guardando anche alla spuria aggregazione dei BRICS in tempi in cui nel post-globalizzazione paiono emergere prospettive di consolidamento in blocchi dell'equilibrio mondiale.



La coscienza della propria appartenenza e la volontà politica di determinare il cambiamento rimangono fattori insuperabili e necessari come motore di qualsivoglia iniziativa della trasformazione dello stato presente delle cose.
Attenzione però, lo stato presente delle cose va cambiato sia nel senso della condizione oggettiva della nostra esistenza, sia in quello dell’assunzione di una consapevolezza soggettiva del vivere con gli altri. Da questa consapevolezza tra individuale e collettivo “si realizza la vita d’insieme che è solo la forza sociale, si crea il blocco storico” (Gramsci Quaderno 11). Come auspicava Lukács la coscienza di classe trova il suo superamento nell’universale riconoscimento della propria appartenenza al genere umano. La coscienza della propria appartenenza deve così sfociare nella convinzione di un’umanità che richiede l’uguaglianza. La volontà politica del “soggetto” va allora impegnata nella ricerca di un socialismo possibile nella forma di un nuovo umanesimo. Un umanesimo socialista posto “contro” il modello di quello realizzato e fallito ma anche oltre forme di socialdemocrazia incapaci di porsi anche soltanto nella semplice prospettiva del riformismo.



Punto di partenza dell’umanesimo socialista: rimanere fedeli ad un’etica della trasformazione in quanto opposizione allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’uomo sulla donna, di un genere umano che ritiene senza limiti l’antropizzazione della natura. Va disegnato l’orizzonte di un “Socialismo della finitudine” inteso come valore universale esprimendo l’intenzione di ripartire dall’idea del dover ripensare la teoria della linea dello sviluppo infinito inteso quale motore di una storia inesorabilmente lanciata verso “le magnifiche sorti e progressive”. Socialismo della finitudine” come idea che, nella sua dimensione teorica, riesca a comprendere quanto di “senso del limite” sia necessario acquisire proprio al fine di realizzare quel mutamento sociale posto nel senso del passaggio dall’individualismo competitivo fin qui egemone nella post-modernità verso nuove forme di soggettività collettiva ponendosi l’obiettivo di riuscire a proporre un mutamento di quell’offerta politica che oggi appare così debole e confusa.

CORTEO A SESTO SAN GIOVANNI




A ROMA CON ROSSANI




giovedì 2 gennaio 2025

TECNOLOGIA E FUTURO
di Romano Rinaldi



Pochi giorni fa, un mio “amico di penna”, come si sarebbe detto molti anni fa; in effetti un amico di Web, esperto nel campo della fisica nucleare, mi pose la domanda: “credi che in un prossimo futuro dovremo ricorrere alle risorse minerarie degli asteroidi per sostenere l’economia delle materie prime sulla Terra?” La mia risposta fu inequivocabile. Con buona pace dei sogni (o incubi) di persone come Elon Musk, le risorse del pianeta Terra non sono in esaurimento per il semplice motivo che, quando una risorsa comincia a scarseggiare, la scienza e la tecnologia sono in grado, come dimostrato già parecchie volte, di volgere lo sguardo verso altre risorse, fino ad allora non ritenute tali e sviluppare tecnologie adatte al loro sfruttamento. Gli esempi sono innumerevoli a partire dai vari passaggi che hanno subito le risorse energetiche legate alla combustione: legno, carbone, petrolio, gas. Poi anche le reazioni nucleari, prima la fissione, in futuro (si spera) la fusione. E per quanto riguarda i materiali strategici, una volta il Platino era considerato una sottospecie dell’argento, da cui il nome “platina”, opposto a “plata”. Era infatti una scoria, un residuo fastidioso perché refrattario (alto fondente) alla fusione nell’estrazione dell’argento (plata), dalle miniere del Messico.  



Quando studiavo i minerali del Litio, oltre mezzo secolo fa, si trattava di curiosità mineralogiche, non certo di minerali strategici. Oggi, senza il litio, sembra non poter esistere il trasporto autonomo, su gomma (il cosiddetto “automotive”). Poco tempo dopo, i miei studi su composti che avrebbero forse consentito in un prevedibile futuro, lo stoccaggio dell’idrogeno in modo sicuro, portarono il laboratorio al quale lavoravo, negli USA, ad ipotizzare un tempo non troppo remoto per lo sfruttamento per scopi energetici della risorsa in assoluto più abbondante sul pianeta. Infatti, dato che il 75% della superficie terrestre è occupata dall’acqua e dato che in una molecola d’acqua ci sono due atomi di idrogeno per ogni atomo di ossigeno, la risorsa idrogeno è sicuramente illimitata. 



Bene, quella è rimasta un’utopia anche se si sono già affacciate diverse applicazioni pratiche. A partire dalla propulsione dei motori per i vettori di satelliti e capsule spaziali più potenti i quali utilizzano già da molti anni il costosissimo combustibile idrogeno liquido e l’ossigeno liquido come comburente. Ma le celle a combustibile (infatti a idrogeno, già sviluppate per i satelliti) saranno il prossimo passo anche per la mobilità terrestre e sul mercato esistono già alcune opzioni, anche per la mobilità privata. Insomma la questione non è il materiale che di volta in volta la tecnologia utilizza, ma la convenienza economica allo sfruttamento di una tecnologia piuttosto che un’altra.
Volendo spostare il ragionamento dal piano strettamente tecnologico a quello socio-economico, penso che l’umanità non sia ancora abbastanza intelligente, come comunità di individui per spingere nella direzione di una economia sostenibile per il pianeta che si trova ad abitare. Preso singolarmente, l’individuo umano ha sicuramente l’intelligenza sufficiente per comprendere quanto detto fin qui e per intraprendere, ad esempio in campo energetico, le strategie di sfruttamento delle risorse inesauribili che la natura ci ha messo a disposizione a partire dalla creazione dell’Universo qualche miliardo di anni fa. 



Si tratta chiaramente del sole, dell’idrogeno, del calore interno della terra (anche a bassissime profondità) e di tutto il corollario di materiali utili per le tecnologie atte a fornire a tutti gli umani un ambiente di vita sostenibile e di pace. Il problema purtroppo però è insito nella natura umana che, pur mostrando doti di intelligenza divina individualmente, essendo un animale socievole che si raggruppa in moltitudini di individui a volte esageratamente densi di popolazione, tende a ragionare come orda o gregge o branco. Insomma una tipica mandria al galoppo in cui, il capobranco, a testa bassa e corna tese a colpire qualunque ostacolo, rincorre qualche invisibile obiettivo e trascina tutta la sua comunità nella corsa sfrenata che tutto travolge.



Siamo dunque ancora ben lontani dall’aver raggiunto una intelligenza “di comunità” intesa come la capacità di interpretare, a livello di popolazione generale, gli obiettivi che la società umana dovrebbe perseguire e che sono stati iscritti a caratteri ben chiari nelle costituzioni democratiche e nelle disposizioni degli organi sovranazionali creati appena dopo la catastrofe dell’ultimo conflitto mondiale. Quando si affacciò ben evidente lo strumento che, in una prossima guerra ci avrebbe tutti portato, come parafrasò Albert Einstein, a combattere quella successiva con asce di pietra.
Quale può essere dunque la via d’uscita? Da queste premesse è chiaro che il modello del capopopolo che, con il falso pretesto di assecondare i bisogni del suo popolo, ne segue gli istinti più “di pancia”, non può fare un buon servizio alla comunità di cui è a capo. Perché si comporterà sempre e solo come il bisonte alfa che guida la mandria in corsa. Sì, tanta forza viene espressa con questa immagine ma quant’è l’intelligenza che traspare? Quali i risultati finali? Davvero la mandria si ritroverà pacificamente a pascolare in enormi distese ricche di alimento e pace per tutti dopo quella folle corsa? Dove sono tutti questi spazi sconfinati sul nostro sempre più ristretto habitat planetario?
Qualche sempliciotto potrebbe anche pensare, ormai ricco da far paura, che avendo finito le risorse sul nostro pianeta dovremo andare a cercarne altre, per cominciare sugli asteroidi che i moti celesti ci portano a tiro, poi su Marte e poi su altri pianeti di cui ancora sappiamo solo dell’esistenza ma ancora troppo lontani per una o due generazioni di astronauti che volessero mettersi in viaggio per raggiugerli. Si accomodino lorsignori! Andate avanti voi, che a me per adesso scappa troppo da ridere!

 

KOSOVO MUSEO CIVICO DI MITROVICA
di Gianmarco Pisa
 


Patrimoni culturali per la pace e la convivenza     
 
La mostra etnografica “Una vita in gajtan” è stata inaugurata lo scorso 20 dicembre presso il Museo Civico di Mitrovica (MoM), in Kosovo, raccogliendo, nella regione, curiosità e destando interesse sul versante della comunicazione del patrimonio culturale ai fini della pace e della convivenza. L’allestimento rappresenta infatti, negli spazi espositivi del Museo (uno dei luoghi della cultura più significativi della regione), il ricco patrimonio culturale materiale espresso attraverso l’artigianato dei tessuti e la realizzazione degli abiti.
Il nucleo della mostra è costituito da una ricca collezione di abiti tradizionali del XIX e del XX secolo, tra cui gilet, mintan, xhamadan e dollam, acquisiti nel corso degli anni alle collezioni del Museo, e realizzati, appunto, in gajtan, vale a dire nella tecnica tradizionale della tessitura e dell’intreccio dei fili d’oro, argento o seta, elemento tradizionale di decorazione di origine ottomana e che quindi ha un’ampia diffusione, in particolare in Albania e Kosovo, ma anche in Macedonia e altre regioni dei Balcani centro-meridionali, rappresentando, di conseguenza, un patrimonio comune, un’eredità condivisa, dotata del potenziale di ispirare comprensione reciproca, rispetto e convergenza.
Diverse, come si diceva, le fatture e le tipologie. Ad esempio, il mintan è un soprabito con maniche lunghe e strette, tradizionalmente indossato sia da uomini sia da donne e presente anche nei costumi dei bambini. Gli uomini indossavano camicie di cotone e, sopra la camicia, mintan abbottonati fino al collo. Le donne indossavano mintan sopra la camicia, solitamente realizzata in seta. Nel caso dei bambini, i mintan erano generalmente realizzati in tessuto colorato abbottonato al collo, maniche attillate, anch'esse abbottonate.
Lo xhamadan è invece un capo tradizionale maschile di lana, cui talvolta ci si riferisce come “gilet albanese”; è anch’esso finemente ricamato, talvolta in oro, e tradizionalmente la qualità del tessuto e del ricamo indicava il rango della persona. Originario delle province nord-orientali dell'Albania, è in realtà un patrimonio diffuso; generalmente chiuso sul lato sinistro, ha due tasche, esterna e interna, ed è finemente decorato. Elementi distintivi possono essere associati anche alla provenienza: tipico degli albanesi del nord era lo xhamadan di velluto rosso, ricamato in seta nera o in oro; tipico invece degli albanesi del sud era lo xhamadan di colore crema o blu scuro.  



Sono diversi i contenuti della mostra che richiamano l’attenzione: la bellezza in sé dei beni patrimoniali esposti; il significato rappresentativo della cultura materiale del luogo; il carattere trans-etnico e “regionale” della manifestazione; vi si rappresentano, cioè, elementi diversi che provengono da diversi momenti della storia della regione e che manifestano, in maniera assai significativa, le relazioni sociali e culturali tra le diverse comunità.
Così, ad esempio, diversi studi hanno messo in evidenza che in questi patrimoni materiali è possibile riconoscere processi sia di contaminazione tra le culture, sia di stratificazione delle diverse influenze culturali. Ci sono elementi che ricordano l'abbigliamento medievale, ad esempio con influenze bizantine; altri che risalgono a tempi ancora più remoti, talvolta perfino elementi che potrebbero essere collegati alle culture illiriche; altri ancora, invece, di derivazione più recente. È un fenomeno che si può riconoscere nelle forme dell’abbigliamento tradizionale, ma che è possibile riscontrare in diversi contesti di patrimonio culturale tangibile e intangibile. Nel corso del suo sviluppo, l'abbigliamento tradizionale ha acquisito una serie di caratteristiche, che contraddistinguono abiti, ricami e decorazioni dei diversi popoli.



Si tratta, al tempo stesso, di un’eminente funzione sociale e culturale del patrimonio. Come ricordano le Convenzioni internazionali in materia, infatti, il patrimonio materiale, tangibile, rappresenta l’insieme dei beni storici, artistici e culturali, prodotto dalla creatività e dall’ingegno umano, variamente configurato nel corso della storia, in relazione ai contesti sociali e culturali di riferimento, espresso attraverso oggetti fisicamente esperibili: edifici storici, monumenti e memoriali, siti archeologici, opere d'arte e oggetti storici e culturali. Il patrimonio immateriale, intangibile, è invece l’insieme dei beni culturali o, per meglio dire, delle espressioni culturali che, pur non essendo “oggetti” fisicamente esperibili rappresentano, tuttavia, un contenuto culturale decisivo, vitale per le comunità di riferimento.



Ricadono al suo interno, ad esempio, le pratiche culturali, le rappresentazioni, le espressioni, le manifestazioni, i saperi, come pure gli strumenti, gli artefatti, gli oggetti, e gli spazi culturali ad essi associati, che le comunità riconoscono come parte integrante del loro patrimonio. Essi danno forma a un vero e proprio “complesso culturale”, dal momento che il loro valore precipuo non risiede tanto (solo) nella specifica manifestazione culturale in sé, bensì nell’insieme delle conoscenze e delle pratiche trasmesse di generazione in generazione e continuamente ricreate dalle comunità, in maniera vitale, in risposta al loro ambiente, all’interazione con la natura e le persone, e alla loro storia. Per questo, il patrimonio immateriale veicola un senso di identità e di continuità ed incoraggia il rispetto per la diversità e la creatività, e, in generale, il reciproco dialogo tra le comunità e i soggetti direttamente coinvolti.
Nella mostra del Museo di Mitrovica, dunque, questi tessuti, trame, fili dell’intreccio, raccontano anche gli intrecci della storia, delle influenze e delle popolazioni dell’intera regione, la vastissima ricchezza storica e culturale dei Balcani, e si offrono quindi come un potente strumento di convergenza e di dialogo. Si offrono cioè come un vero e proprio patrimonio culturale al servizio della pace e alimentano di senso le traiettorie della “pace positiva”, pace, insieme, con democrazia, diritti umani e diritti culturali, giustizia sociale.



Riferimenti:

Convenzione per la protezione del patrimonio mondiale culturale e naturale (1972): https://unesco.cultura.gov.it/la-convenzione-sul-patrimonio-mondiale

Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale (2003): https://unesco.cultura.gov.it/convenzione-2003

Convenzione quadro del Consiglio d'Europa sul valore del patrimonio culturale per la società - Convenzione di Faro (2005): https://www.coe.int/it/web/venice/faro-convention

The ethnological exhibition "A life in gajtan" opens in the Museum of Mitrovica: https://telegrafi.com/en/the-ethnological-exhibition-a-life-in-Gajtan-opens-in-the-museum-of-Mitrovica

Sia permesso rimandare a Gianmarco Pisa, Le porte dell'arte. I musei come luoghi della cultura tra educazione basata negli spazi e costruzione della pace - Art doors. Museums as places of culture between place-based education and peace building, Multimage, Firenze 2024: https://multimage.org/libri/le-porte-dell-arte-art-doors

PACE. MARCIA MONDIALE A TRIESTE




mercoledì 1 gennaio 2025

IL SALE DELLA TERRA
di Angelo Gaccione


frate Mauro Billetta

 
Nell’iniziare il suo XXII anno di vita, “Odissea” dedica, come ogni primo dell’anno, la sua prima pagina ad una personalità che ha contribuito a migliorare la vita dei più poveri e dei senza voce, mettendo la propria vita e il proprio impegno al servizio della comunità umana. Sono uomini come questi che rendono più accettabile l’esistenza, che modificano in profondità il nostro sentire. Sono uomini e donne di pace di solidarietà e di accoglienza. Mauro Billetta non è un militante politico, è un frate cappuccino siciliano di Palermo, del quartiere Danisinni che si è battuto in questi anni assieme alla sua comunità per impedire che l’asilo nido, da tempo abbandonato e in degrado, fosse abbattuto. Lui assieme agli abitanti (mamme, papà, bambini, volontari) hanno intrapreso un’opera di resistenza e lo hanno salvato.


L'asilo rinato

Ora l’asilo della speranza, come lo hanno ribattezzato, è stato ristrutturato ed è diventato uno splendido luogo di studio, di accoglienza, di attività educative, ludiche e di bellezza per i bambini e le per famiglie dell’intera Comunità. A quest’opera di bellezza e di decoro urbano presta la sua arte Igor Scalisi Palminteri che con la sua preziosa pittura sta riempiendo di colore le facciate del quartiere che ha cambiato volto. 


Igor Scalisi Palminteri

Onore a frate Mauro per la sua caparbia determinazione, onore a Igor e alla sua arte di strada, onore agli educatori, alle maestre, ai volontari, agli abitanti e a quanti hanno permesso a questo emarginato quartiere siciliano di rifiorire. E onore ai bambini e alle bambine che grazie a questa opportunità saranno da grandi uomini e donne migliori. Ha iniziato da solo frate Mauro, senza mai arrendersi, e piano piano ha trovato dei sodali. Se “Due uomini associati sono un principio di potenza”, come ha scritto Bakunin, ricordiamoci che “Spesso un uomo solo ne vale cento” come ho scritto io in un lontano aforisma. Dunque, mai demoralizzarsi, come ci insegna la bella lezione di frate Mauro. 


Uno dei murali del quartiere

maurobilletta@gmail.com
info@fratemauro.it
insiemeperdanisinni@gmail.com

CONTINUATE A SCALCIARE
di Victor Grossman



 
A quasi 97 anni Victor Grossman fa un bilancio della sua lunga vita. Una vita di militante antifascista e anticapitalista avventurosa e per molti aspetti spietata. Ne pubblichiamo alcuni stralci, quelli più vicini al tempo in cui ci tocca vivere.
 
Nel 1994 ho finalmente potuto visitare la mia terra natale con mia moglie, dopo un breve e indolore briefing a Fort Dix. Non l’ho trovato molto diverso da 43 anni prima. Tutto era così bello, ho conosciuto tanta brava gente (soprattutto quelli coraggiosi dalla “mia parte” delle barricate ancora esistenti), ho amato Central Park con la sua Ramble piena di vecchi amici uccelli, e la verde High Line su un ponte smantellato tratto ferroviario sopraelevato.  Mi meravigliavo degli infiniti scaffali di marche di dentifricio, cereali, formaggi, verdure, frutta e tante tante prelibatezze. Ma poi gli shock: i senzatetto che dormono sulle panchine intorno a Central Park, l’uomo che dorme in una scatola di cartone a un isolato dal quartier generale delle Nazioni Unite, le vecchie signore tristi con tutti i loro averi terreni in un carrello della spesa. E il costo di un trattamento dentale o di un controllo di una notte in ospedale - prezzo: $ 5000. Nei viaggi successivi: ho sempre avuto problemi con i tornelli e le orribili stazioni della metropolitana ed ero scontento della super-commercializzazione di Times Square e delle sue statue viventi dipinte e dei mendicanti fotografici stupidamente in costume. Ciò nonostante, il mio cuore si è commosso per quella che era ancora la mia vecchia città natale - anche se non abbastanza da contrastare un sentimento di sollievo dopo il mio ritorno al mio viale più lento, più tranquillo e persino più sonnolento Karl-Marx-Allee a Berlino. Ma ho quindi due città natali contrastanti. Purtroppo vedo grandi problemi per entrambi, ma anche per i paesi e i continenti che li circondano. Vedo un divario crescente tra ricchi e poveri e, se le teorie sulle crisi cicliche si rivelassero ancora una volta corrette, si profila una possibile depressione economica, presumibilmente peggiore che mai. Più certamente, tutti si trovano ad affrontare un disastro ecologico apparentemente inevitabile. 



E peggio, molto peggio e più vicina, anche se sorprendentemente ignorata, minimizzata o accelerata da alcuni, vedo la minaccia della guerra, anche la guerra atomica. E strettamente legato a tutte e tre le minacce vedo la rapida crescita degli elementi più sanguinosi della repressione - le moderne forme di fascismo - che stanno già guadagnando forza in molti paesi. Dietro ognuna di queste minacce vedo una cabala limitata, una volta di milionari, ora miliardari, a volte rivali ma uniti nella speranza di controllare non metà della fortuna mondiale ma tutta intera, determinando la direzione di ogni governo, indipendentemente dai suoi cambiamenti e ribaltamenti.  Gruppi di tre, sei, otto conglomerati ora dominano quasi ogni campo dell’attività umana in gran parte di questo mondo. E vogliono tutto! Alcuni nomi sono diventati simboli: Musk, Bezos, Gates, Soros, Murdock, Springer, Zuckerberg, Disney. Ma gli imperi si espandono anche cambiando personale: Merck, Pfizer, Purdue, Coca Cola, McDonalds, Mobil, BP, Daimler, Toyota, VW, Cargill, Unilever, Amazon, Meta, Vanguard, Blackstone… I più pericolosi sono Lockheed Martin, Northrup Grumman, Rheinmetall, Krupp-Thyssen... Nuovi nomi compaiono, anche nel nord, nel sud, nell'est e nell'ovest, ma una manciata domina ogni campo – e cerca conquiste ed espansione. E tutti sono assolutamente spietati nella loro avidità, disumanità e disprezzo per la salute e la vita umana!
Il mondo deve liberarsi da queste infezioni! Questa è la sua occasione! Quindi mi rallegro di ogni segno di ribellione dei lavoratori – contro Amazon, Starbucks, VW, fuori dai parlamenti sudcoreani e parigini, intorno a Trafalgar Square, contro le caserme francesi in Niger e Mali… Sono rincuorato nel vedere studenti coraggiosi ad Harvard, UCLA, a Humbold U. e FU qui a Berlino, che osano protestare contro il genocidio e i suoi fornitori. Possono le maggioranze resistere all’oppressione? Riusciranno a unirsi per riconquistare la pace, sfidando i demagoghi dei media, i gas lacrimogeni, gli idranti e molto peggio? Cosa riserverà il futuro? Non ne vedrò molto. Ma posso essere grato che, a parte aver perso la mia Renate troppo presto, ho avuto la fortuna di aver avuto una vita bella e sempre interessante, risparmiata dal bisogno e dal disastro ma testimone di incredibili parti del mondo e della sua storia.
E conservo ancora scintille di speranza che il 2025 non vedrà più guadagni per i biblici Quattro Cavalieri - Guerra, Pestilenza, Carestia e Devastazione - ma piuttosto più lotta, almeno qualche movimento in avanti e verso l’alto. Farò il poco che posso in quella direzione finché potrò. Inshallah!
I migliori auguri a tutti voi - buon cibo, buon bere, buoni libri, bei momenti e buona salute - e pace a tutti voi nel 2025. Continuate a scalciare!
Shalom! As-salaam alaikum! No pasarán! Pasaremos!

 

A TRIESTE PER LA PACE E LA FRATELLANZA




Privacy Policy