IL “FAMEDIO”
di Angelo Gaccione
Tutti i cimiteri monumentali italiani presenti in alcune delle
nostre città (da Torino a Genova, da Roma a Trieste, da Bologna a Brescia, a
Milano e via via fino a Cremona, Bergamo…), sono dei veri e propri musei di
scultura en plein air. Ma di sculture di pregio se ne trovano anche nei
cimiteri di centri minori o di semplici piccoli paesi. Perché si è voluto
riempire di opere di artisti luoghi dove ogni vanità umana, ogni miseria, ogni
potere, ogni blasone, si disintegra e si sfalda riconvertendosi in polvere e in
silenzio, non è difficile da immaginare. Indubbiamente il bronzo, la pietra e
il marmo sono più resistenti della carne, e questo ci illude di una memoria più
duratura presso i posteri. Eppure, chi mette piede in luoghi simili, finisce
per essere preso da una specie di stordimento davanti a tanta magnificenza; se
ne fa sedurre a tal punto che non presta più attenzione al motivo profondo per
cui c’era entrato. I miei morti non riposano, almeno finora, in nessun cimitero
di Milano. Men che meno al Monumentale, divenuto oramai un luogo di sepoltura
per famiglie ricche e potenti. E di tombe e cappelle di famiglie ricche,
potenti e celebri è pieno il Monumentale. Quando lo vidi per la prima volta,
dall’esterno, questo cimitero, mi colpì per il colore dei suoi marmi: pareva un
manufatto completamente dissonante rispetto al caldo cotto lombardo delle
basiliche e dei chiostri che tanto mi aveva sedotto. Impressione che mi è
rimasta dentro e che non si è più dileguata. La sua bicromia (bianca e marrone)
faceva venire in mente certe architetture della Liguria e della Toscana. Perché
l’architetto Carlo Maciachini, che era di Induno Olona, abbia scelto uno stile
così monumentale è per me sorprendente. Ma forse non lo è perché il secolo
diciannovesimo è stato un secolo di grande ottimismo e per molti versi di
esaltazione celebrativa dell’individualità eroica ed imprenditoriale. Lo
realizzò in tre anni, dal 1863 e il 1866, e poiché doveva contenere proprio al
centro del suo ingresso il pantheon della città, avrà pensato che il marmo
fosse il materiale adatto per le spoglie degli spiriti magni che doveva
contenere. I milanesi conoscono questo pantheon con il nome entrato ormai
nell’uso comune: Famedio. Famae aedes, dice la sua origine latina, vale a dire:
dimora della fama, o Tempio della fama. Ed in effetti il Famedio
ha la forma di un tempio (di chiesa), con la sua pianta a croce, i suoi
pinnacoli, la sua cupola sovrastante. Si raggiunge percorrendo un’agevole ed
ampia gradinata che tende verso l’alto.
Al centro del Salone, sotto la cupola, è stato collocato il sarcofago dello scrittore Alessandro Manzoni, realizzato dallo stesso Maciachini. A lui è stato riservato l’onore più grande: per dimensione della tomba e per posizione. Alla base una lastra di bronzo con in rilievo il profilo del narratore e due angeli alati che lo cingono con la palma della gloria. Manzoni è stato il primo fra le personalità illustri ad essere trasferito nel Famedio, nel 1883, dieci anni dopo la sua scomparsa.
Assieme a lui anche la sepoltura di Carlo Cattaneo, che sorregge la scultura del busto del teorico delle idee federaliste, capo dell’insurrezione patriottica del 1848, fondatore del periodico “Il Politecnico”, e dell’architetto Luca Beltrami che tanto si adoperò, nel corso della sua vita, per la salvaguardia e la tutela del patrimonio architettonico della città. In quelli che vengono definiti colombari, ci sono i resti del poeta premio Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo, del grande pneumologo Carlo Forlanini, dell’artista e designer Bruno Munari, della ballerina di danza classica Carla Fracci, del comandante partigiano Leo Valiani. Nella cripta sottostante ci sono le spoglie di numerosi personaggi del mondo della cultura scomparsi in anni recenti, fra cui la coppia Dario Fo e Franca Rame. Altrettanto numerosi, i nomi dei trapassati che negli ultimi tempi sono stati incisi sulle lastre del Famedio; alcuni anche molto divisivi e chiacchierati.
Mentre sostavo davanti alla tomba del Manzoni, mi sono tornati in mente i versi di una poesia in cui il personaggio, di cui ci viene descritto il suo quotidiano deambulare, è intento ad una serie di delicati gesti di memoria nei confronti di persone ormai scomparse. Rifiuta, però, di recarsi al cimitero per far visita ai defunti perché per lui le loro vite sono rimaste vive nei luoghi che hanno frequentati. Vale la pena leggerli per intero i versi di questa poesia: “Da qualche tempo ha preso l’abitudine, / di percorrere le vie del quartiere. / Ad una casa abbandonata fa un inchino, / offre un saluto ad un balcone chiuso. / Dà il buon giorno a una finestra rotta, / un cenno col cappello a una serranda. / Si siede sulla panca dello slargo, / sosta davanti al muro della chiesa. / Il suo salmodiare è come un soffio, / quasi un refolo lieve tra le fronde. / Al cimitero non si spinge mai, / per lui, le loro vite, sono rimaste qui”. Succede così anche a me, che pure sono andato in luoghi lontani per rendere omaggio alle tombe di uomini illustri.
Considero molto più raccolti, per il sentimento che ispirano, i
piccoli cimiteri di campagna con le tombe bianche e ben curate allineate sulla
nuda terra. Tristissimi questi mastodontici cimiteri monumentali
presuntuosamente scenografici, troppo mondani, che non invitano affatto al
raccoglimento e alla riflessione sulla precarietà delle nostre vite. Ci si va
come si andrebbe a vedere uno spettacolo di intrattenimento, e si parla
dell’arredo funebre disquisendo freddamente come se si fosse davanti all’opera
di un geniale scenografo. Allora molto meglio fare come il personaggio della
poesia citata, conservando dentro di noi la memoria, di ciò che di loro solo a
noi appartiene.