ANNA E SILA
di
Zaccaria Gallo
Mi perdonerete se inizio a scrivere questi miei pensieri segnalando che, dopo aver per anni, in tutti i modi, celebrato la Giornata della Memoria, confesso di trovarmi quest’anno in estrema difficoltà. Anche perché è facile non essere compreso completamente e frainteso. Il 27 gennaio 2025 ricorre l’ottantesimo anniversario della Liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. La “soluzione finale”, architettata e tradotta dal nazifascismo con implacabile crudeltà, è stata una delle pagine più buie dell’intera storia umana e monito per l’avvenire, affinché mai più l’odio per il proprio fratello prevalesse sul rispetto della pacifica convivenza. Ma è data che è diventata scomoda da ricordare, per quanto sta avvenendo in Israele e nella striscia di Gaza. Passato è presente, anche loro, sono andati in conflitto. Di fronte all’offensiva portata avanti, in maniera spietata e senza remore, dal governo di Tel Aviv, siamo spinti a fare alcune considerazioni sul significato di questo 27 gennaio. L’esercito israeliano si è reso colpevole di attacchi nei confronti di ospedali (accusati di ospitare basi di Hamas) e della interruzione della fornitura elettrica e idrica. Anche la Corte Penale Internazionale dell’Aia sta indagando sulle vicende in corso, individuando veri crimini contro l’umanità. Allora vi racconto una storia. Quella che mi è stata detta da una coppia di amici tornati in questi giorni dalle vacanze natalizie, passate ad Amsterdam, e vissuta profondamente nella loro anima.
La casa di Anna Frank è al 263 di Prinsengracht ed è diventato un luogo imperdibile di Amsterdam. Il primo settembre 1939 la Germania nazista invade la Polonia. I sei anni successivi fino al 2 settembre 1945 diventano una delle pagine più nere della storia umana: sterminare tutti gli ebrei. Un assassinio premeditato. Di cui anche noi italiani siamo stati complici. Anna proviene da una famiglia di ebrei tedeschi residente a Francoforte che, con l’avvento del nazismo nel 1933, fugge per rifugiarsi ad Amsterdam, vivendo serenamente fino a maggio 1940, cioè fino a quando la Germania invade i Paesi Bassi. Da quel momento, la vita per gli ebrei diventa insostenibile. Il 5 luglio 1942 Margot, sorella di Anna, riceve una telefonata per andare a lavorare nella Germania nazista. I genitori non si fidano e decidono di nascondersi. La mattina seguente, Otto Frank lascia tracce false che possano testimoniare che la famiglia è fuggita all’estero. Otto Frank aveva preparato un nascondiglio nella casa retrostante l’edificio in cui aveva sede la ditta in Prinsengracht 263, seguendo un suggerimento del suo collaboratore Kleiman. La famiglia Frank si rifugia in un appartamento nascosto, creato al di sopra del magazzino e degli uffici delle due aziende dei Frank, che producono addensanti alimentari e spezie. Le spezie devono rimanere al buio; così le finestre sono solo dipinte e, con questo escamotage, si rende invisibile un alloggio segreto. I rifugiati sopravvivranno grazie all'aiuto degli impiegati dell’azienda, che acquistano per loro il cibo al mercato nero. Il 12 giugno 1942 Anna aveva ricevuto in regalo un quaderno a quadretti bianco e rosso che chiamerà Kitty. Iniziò da allora ad annotare in olandese tutto quello che accadeva giorno per giorno e a corrispondere idealmente con le protagoniste di una popolare serie di romanzi per ragazze (Yoop ter Heul) e della scrittrice Cissy Van Marxveldt, di cui lei e le amiche sono accanite lettrici. Non solo. Compare l’emozione per il primo ciclo mestruale e quella del primo amore. I miei amici mi descrivono la casa di Anna Frank. Al primo piano, due piccole camere con bagno e toilette; al di sopra, una camera grande e una più piccola, infine tramite una scala si arriva al sottotetto. La porta che conduce a questo retrocasa, di quasi cinquanta metri quadrati, è collegata con una ripida scala all’ingresso degli uffici e viene nascosta da una libreria girevole. La mattina del 6 luglio la famiglia Frank lascia l’appartamento di Merwedeplein dove alloggiava prima. Dopo una settimana arriva anche la famiglia Van Peltz e, nel novembre del ’42, si aggiunge il dentista Fritz Pfeffer. Intanto i nazisti sono a caccia di ebrei: treni partono verso che campi di sterminio.
Oggi le stanze sono vuote, ma l’atmosfera è rimasta invariata; il pavimento in legno scricchiola ancora sotto ogni passo. C’è la stanza dove dormivano i genitori e Margot e la cameretta di Anna che dovette condividere con Frtitz e che fu causa di frequenti discussioni. Sulle pareti, foto e citazioni dal diario e alcuni oggetti personali. Qui Anna ha vissuto nascosta con la sua famiglia dal 6 luglio 1942 al 4 agosto 1944. Oggi quando decidiamo di camminare lungo la via che porta all’abitazione, a qualunque ora del giorno, si scorge una lunghissima fila di persone, in attesa di poter visitare la casa, diventata un museo che racchiude non solo una storia personale ma una storia di tutta l’umanità. Scivolare ancora oggi attraverso la libreria girevole merita il viaggio ad Amsterdam, come anche ripercorrere, con emozione, i passi di quella straordinaria scrittrice che fu Anna. Solo quando olta si è all’interno dell’alloggio, si comprende quanto le condizioni siano state dure per i clandestini: quel trascorrere ogni giornata in silenzio, evitando di usare la toilette e di far scorrere l’acqua, condividere in stretto contatto gli uni con gli altri spazi angusti, poco areati, senza mai vedere la luce del sole e riuscire, nonostante tutto, a scrivere in un diario la segreta storia di una giovane anima, alla quale sarà tolto il diritto di esistere. La coppia dei due i miei amici ha concluso la sua visita.
C’è un velo di tristezza nelle loro espressioni, ma i due non immaginano quello che sta per accadere. Per rinfrancarsi sono entrati in uno dei caffè che si trovano sulla strada e si sono accomodati a uno dei tavolini. C’è un grande televisore su una delle pareti, ed ecco comparire sullo schermo l’immagine di un uomo, sporco di polvere e sangue, che porta in avanti, verso di loro, un lenzuolo a forma di involto bianco, sorretto tra le braccia. Nell’involto c’è il corpo senza vita di Sila. Una parola che significa “nostalgia”. Sì, nostalgia della propria casa, che non c’è più e non potrà mai diventare un museo nel quale andare a rendersi conto di dove viveva quella bambina, nostalgia dei giochi che non farà più, della scuola dove non andrà più, di un diario che non avrà mai sul quale, come per Anna, raccontare la sua brevissima storia. Con i genitori era arrivata ad al-Mawasi, una zona creata dall’esercito israeliano a sud di Gaza e denominata “zona sicura”.
Sila è morta di freddo! Fuori dalla tenda, in cui si trovava, c’erano nove gradi sotto zero. A nulla è servita la tela di nylon in cui i genitori l’avevano avvolta, a nulla il calore di una copertina e del corpo di Narriman sua madre. Quando suo padre Mahmoud al-Fasih l’ha portata in ospedale, Sila era già morta. Era la notte tra il 24 e il 25 dicembre. Natale! Sulla coppia di sposi, seduta al caffè ad Amsterdam, nel guardare quelle immagini di un padre che tende loro il corpo della piccola figlia cala, nel cuore e nella mente, un gelo mortale. E in noi la domanda: servirà ancora il 27 gennaio celebrare la Giornata della Memoria?
Dobbiamo chiedercelo, ed è necessario, più che mai adesso. Solo vedendo Anna e Sila tenersi per mano, senza alcuna distinzione di luoghi e popoli, forse potrebbe ancora esserci un’ennesima occasione per riflettere quanto l’odio tra gli esseri umani possa portare a conseguenze così mostruose e a non essere, la nostra, una umanità disumana.