MOTU PROPRIO
di
Pierpaolo Calonaci
Nel
2008, per varie eclettiche vicissitudini, mi ritrovai a dovere chiedere
alloggio ad un noto parroco e teologo della chiesa fiorentina a cui era
affidata la cura pastorale di una piccola comunità che si ritrova tutt'oggi,
sebbene quel parroco sia venuto a mancare, sulle colline circostanti Firenze.
L'occasione che ci fece incontrare fu in verità la presentazione di un libro,
in cui avevo scritto un articolo, sul centenario dell'inizio della guerra
nonviolenta che Gandhi cominciò in Sud Africa nel 1906.
Allora
lavoravo come giardiniere e fissai così la pigione. Attigua alla mia stanza,
che faceva parte del complesso architettonico di cui la chiesa romanica era il
fulcro, fu accolto un uomo di nome G., senza fissa dimora, perlopiù gravato
dalla scure dell'alcolismo.
Dopo
qualche mese che risiedevo lì, mi fu chiesto di accompagnare G. ad un gruppo di
auto aiuto composto da persone affette da dipendenza dall'alcol.
Non
sapevo nulla di quel mondo sociale e della sua iatrogenesi; in sintesi, il
fulcro di quel modello teorico/terapeutico era il pieno coinvolgimento
dell'ambiente relazionale/affettivo in cui il soggetto “deviante” vive.
Perciò
fui catapultato a vestire panni a me sconosciuti tra il dover assumere una
postura morale che cominciasse a fare a meno dell'alcol (era una richiesta del
modello iatrocratico) e l'assunzione della figura del sostituto familiare. In
pratica, ciò richiese, per almeno due anni buoni, presenziare ogni settimana all'incontro
di gruppo e per due volte al mese accompagnare G. dal dottore responsabile
istituzionale della terapia.
Apprezzo
il vino in virtù del simbolo culturale che caratterizza la terra toscana. Per
cui, scevro dal dare esempio intemerato di me, non feci molta fatica ad
accettare la richiesta personale di regolarne l'uso, quale interazione di
solidarietà con G. (posto che essa sia mai veramente servita)
.
Il
problema vero fu tanto il consumo molto consistente di vino durante le
libagioni del mercoledì (giorno di ritrovo della comunità) e della domenica a
pranzo quanto la loro asinina indifferenza verso la vita di G. Che tra l'altro
avevano accolto sapendo quali enormi problemi avesse.
Fu
la rapidità della mia consapevolezza che mi fece vedere la correlazione palmare
tra cosa la terapia chiedesse a G. per cercare di curarlo e invitare
contestualmente l'ambiente sociale in cui egli viveva a un cambiamento o
modifica dell'abitudine di consumare vino o altre bevande alcoliche.
La
cura, in senso epistemologico della dignità umana, non è una terapia, è
piuttosto un'attenzione che deve incunearsi tra l'individuo e i rapporti
sociali che lo determinano e irretiscono. Ma questo è un altro discorso.
Per
cui i miei tentativi di spiegare il motivo per cui la terapia di G. non avrebbe
dovuto essere ostruita da una valanga di bottiglie di vino sulla tavola, in
cantina, in frigo non era legata al sentimento religioso, spesso
autoreferenziale, della temperanza ma piuttosto al farsi carico della
condizione umana di G. furono costantemente biasimati.
Speravo
che quella proposta fosse interpretata dal pievano e dalla sua comunità quale break
even point dei rapporti costituenti la comunità. Niente di tutto questo. La
risposta fu una cecità e una sordità tali che cominciai a dubitare
dell'etichetta cristiana che quella comunità soleva appiopparsi, rasentando non
di rado quel disprezzo di cui Dietrich Bonhoeffer (teologo de-teologizzato)
scrisse: “niente di ciò che disprezziamo negli altri ci è estraneo […] Perché finora
abbiamo riflettuto in modo così poco obiettivo sulla debolezza dell'uomo e su
quanto sia esposto alla tentazione? Dobbiamo imparare a valutare gli uomini più
per quello che soffrono che per quello che fanno o non fanno” col fine,
aggiungo, di mantenere salda la reciproca dignità umana.
Per
dare scandalo occorre disobbedire e dunque occorre avere spalle
sufficientemente solide e prepararsi ad accettare lo scherno del mondo. Il dire
no alle aspettative della mia famiglia me le aveva formate e corroborate
(affinché potessi vedere finalmente quanto la metafisica solitudine del “mio”
essere mi stesse oramai aspettando lungo sentieri oscuri dovetti quindi rompere
con quelle aspettative e - motu proprio - “chiedere alla polvere” (John
Fante) di squarciare paure e angosce, rivelandomi l'errore quale condizione
dell'essere umano). Pertanto una domenica feci saltare il tappo; compii quel
gesto con la leggiadria di un danzatore in un pas de bourrée.
Durante
una tavolata imbandita con una notevole quantità di vino, mi alzai e me ne
andai. E da qual momento i rapporti fra me e il parroco e la comunità si
inasprirono fino a toccare situazioni tragicomiche e ridicole. Talvolta fece
capolino anche il ludibrio nei miei confronti.
Dopo
due anni uscì dalla comunità, alla quale non avevo mai preso parte del tutto, e
soprattutto uscì dal cattolicesimo e dal cristianesimo irriflessivo. Gli
studi teologici allora intrapresi - invero il tentativo di ipostatizzare il
pensiero da parte della Scuola - furono un ulteriore volano. Me ne uscì senza
risentimento o odio dopo aver appreso che quel prete avrebbe voluto che lo
ripagassi accettando la via del seminario; seppi distintamente di non essere
stato minimamente irretito da un dato sistema di relazioni e affetti
dissimulato da disinteresse e ciò mi fece gioire.
Alcuni
anni dopo, quando all'Università Statale, incrociai un'affermazione di Pierre
Bourdieu (“interesse al disinteresse” quale pratica razionale fondante i
rapporti sociali e statuali, avente illusione di universalità) non mi sfuggì di
quell'affermazione la protervia che mi vidi, alcuni prima, riversare addosso.
Questa
stupenda (senza retorica) esperienza mi conduce a interrogarmi sulla vexata
questio dell'atteggiamento che la Chiesa (posto che dire “Chiesa” sia
relativizzare una realtà millenaria e poliedrica) ha della dignità umana.
Perciò mi domando se abbia fatto pace con sé stessa sapendo che quella non è un
prodotto della Rivelazione ma bensì dell'intelletto umano. Nessuno vuole
insegnare alla Chiesa come vada il mondo ma la natura stessa dei diritti umani,
la loro inalienabilità e irriducibilità “non derivavano la loro validità da
altri diritti o leggi, non occorreva nessuna autorità per istituirli, l'uomo
stesso ne era la fonte e il fine ultimo” (Harendt).
Dunque, la Chiesa continua a parlare di diritti e dignità umana con un linguaggio che tende a categorizzare le persone secondo la natura sociale in cui queste sono ingabbiate. Inoltre è un linguaggio astratto, molto incerto, moralistico, paludato, carico di proselitismo che difficilmente si espone genuinamente al fianco proprio di coloro cui è stato reciso ogni riconoscimento sociale, ogni cittadinanza. Può darsi che questo atteggiamento dipenda dal pensiero paolino, totalmente teologizzato, che sarebbe bastato invocare l'uguaglianza in Cristo - assioma inapplicabile sul piano sociale e politico - e la Sua “grazia” avrebbe comportato l'instaurazione di azioni materiali e politiche di cui la dignità umana avrebbe beneficiato. La veneranda storia conservatrice della Chiesa mostra che l'uomo nato dai diritti inalienabili rivoluzionari del XVIII secolo (quindi un uomo emancipato da qualsiasi ordine superiore) abbia continuato a essere oggetto di carità (più che soggetto attivo di diritto) dove cristallizzare l'idea che se uno si trova in una condizione di minorità o di mancanza siano da imputare alla “natura” delle cose. L'esempio più fulgido, storicamente, lo si trova, secondo me, nell'atteggiamento che la Chiesa ha avuto nei confronti della schiavitù il cui “principale delitto contro l'umanità non consisteva nel togliere la libertà ma nell'escludere una categoria di persone dalla possibilità di combattere per la libertà […] quando la schiavitù diventava un sistema in cui alcuni uomini nascevano liberi e altri schiavi, dimenticando che era stato l'uomo a privare della libertà i suoi simili e si attribuiva tale condizione alla natura”. Se c'è in sociologia del dominio un concetto antinomico a quello del divenire storico dei fatti sociali è proprio quello di “natura” a cui la chiesa ha sempre creduto. Gli schiavi, come i poveri ci sono sempre stati e sempre ci saranno per una “natura” cattiva: basta quindi star loro accanto con misericordia.
Da
qui l'esegesi sul suo linguaggio e sulla sua azione sociale alla luce del
concetto sociologico di egemonia non può essere elusa. La Chiesa si ritaglia mutatis
mutandis un certo spazio sociale, lasciato pilatescamente libero dalla fine
di politiche sociali di protezione e benessere, di uno stato votato alla guerra
permanente. Vedo sventolare piuttosto degli slogan tradizionalistici:
dover “stare vicino ai poveri, agli ultimi, ai carcerati, ai lavoratori
“morti” sul lavoro” evitando di criticare indirizzi politici e leggi economiche
che ne sono la causa. Avverto sempre un meccanico interesse dietro questo
linguaggio disinteressato, ovvero l'egemonia con cui la dignità umana, i
diritti universali e civili sono ammansiti. Sia chiaro: è stato un bel gesto
pastorale dell'attuale vescovo di Firenze, don Gambelli, quello di essersi
recato nella parrocchia del quartiere fiorentino de Le Piagge (uno dei più
marginalizzati e per certi versi scomodi nello star system fiorentino ma
altrettanto uno dei più attenti alla crescente povertà e precarizzazione
attraverso pratiche solidali tangibili). A quell'incontro della vigilia di
Natale, la dignità umana era l'oggetto di riflessione intorno alla quale hanno
partecipano il presidente della Regione Toscana, Eugeno Giani, e il neo sindaco
fiorentino, Sara Funaro. E non posso rifiutarmi di descrivere il loro stare lì,
le loro abluzioni con le parole di un presule che descrive (mi piacerebbe poter
dire denuncia) una situazione sociale drammatica e sempre più fragile per il
popolo e per il mondo. Sfortunatamente non si fa né riferimento al genocidio in
Palestina: vien da domandarsi se e quanto abbia giocato il diktat teologico
di Giovanni Paolo II circa il considerare il popolo ebraico fratello
“maggiore” del “minore” cristiano non sia stato equivocato per spianare la via
all'equiparazione ebraismo-sionismo né si accenna chiaramente al fatto che lo
stato e il cittadino oramai sono oggetto di militarizzazione.
La
cosiddetta politica del Giani e della Funaro si precipita ad ascoltare cosa non
va di sé; si getta, come in un sacro lavacro, in quelle parole, si ripulisce
beffardamente da ogni interesse, torna poi in mezzo ai problemi della gente
quale medium imprescindibile tra l'uomo e i suoi affanni. Che gioco al
parossismo! Mi preoccupa altrettanto una politica di una parte consistente
della “sinistra” che non sappia nemmeno vedere dove stia il proprio errore, la
propria connivenza, la perdita della propria identità e essenza politica.
Una
Chiesa attaccata al modello “Mission” (dal film omonimo) del rispetto
della dignità umana e i suoi operatori capitalistici: i Gesuiti. Non è un caso
che la comunità indigena venga sterminata dai colonizzatori bianchi -cristianissimi
- in quanto aveva loro già spalancato le porte abbracciando il modello sociale
dei dominatori implementato grazie all'amore “disinteressato” dei soldati di
Cristo.
Nei
svariati modelli assistenzialistici, il cui fine di tutti è curare, segregando,
la dignità dell'uomo, la Chiesa implementa svariati modelli organizzativi dove
la parola rispetto risuona in secondo piano poiché l'individuo dellaprospettiva
greca è identificato col soggetto della maschera, persona, e ciò
permette di applicare un regime di verità che con la libertà dell'ὄντος non ha niente a che fare. A suo modo, quindi con
le dovute differenze, Richard Sennet, in Rispetto, evidenzia quanto
questa natura metafisica e concreta della dignità sia deformata dal principio
assistenzialistico del cattolicesimo dove il soggetto è e rimane tale pur
essendo circondato di protezione e cura.
Ernesto Bonaiuti
Mentre
nei tre volumi di Storia del Cristianesimo, messi regolarmente
all'indice, Ernesto Bonaiuti, sospeso a divinis, delinea il confine tra
questo e la storia della Chiesa. Fra l'amore e il potere, direbbe un bambino.
Delinea l'amore per il mondo e la dignità dei suoi “accattoni” (come egli osa
definirsi in quanto uomo) per tenderli dentro un Amore di Dio che nulla ha più
ha con l'interesse, con il dominio, col potere. In breve, il modo assolutamente
scientifico di questa opera mette in risalto la storiografia del fenomeno cristiano
senza la teologia con cui tornare al vangelo prima della teologia (Avvenire,
2 settembre 2022). Una storiografia che fa tabula rasa della
storicizzazione, ossia l'invenzione speculativa della razionalità teologica
posteriore che usa i fatti storici piegandoli ad una “verità” unilaterale alla
quale sottomettere la dignità dell'uomo.