Renzismi
di Giovanni Bianchi
“La società liquida produce
partiti gassosi”
L'ossessione della brevità
Vorrei
finalmente essere breve. Per questo mi limiterò a mettere dei pensieri a
capitolo dopo le ultime elezioni regionali. Primo.
Ho dato una mano alla campagna elettorale di amici candidati nell'area del
Premier. Questo non dice il mio tifo per l'inquilino di Palazzo Chigi. Dice
piuttosto la miseria di questo ceto politico. Non mi riesce più, se non
goffamente, di essere veloce. Ho quindi scelto di collocarmi dal lato della
ponderazione e della critica, giudicando che la critica serva anche a una
politica decisionista, mediatica e postmoderna.
Ritengo
che la cosa comunque più utile sia il provvedersi di un punto di vista. Ripeto anche che è meglio avere un punto di vista
sbagliato che non averne nessuno. Anche se l'invito non è di attraversare
Hiroshima con una mappa di prima del bombardamento atomico.
Secondo punto. Vorrei ancora essere breve, ma in
questo caso la materia scivola e si espande in tutte le direzioni. E’ merito
delle giovani sociologhe americane l'avere inventato il termine surfare: come di chi sulla tavoletta
galoppa sull'onda dell'oceano. E’ grande abilità e non poco demerito della
nuova generazione di politici e amministratori praticare quest'arte senza mai
criticare l'onda. Questa constatazione mi porta a dire che siamo chiamati a
fare i conti non tanto con il giovane Matteo Renzi da Firenze, ma con il renzismo in quanto attitudine e voga
vincente, da una parte e dall'altra della barricata. Una generazione per la
quale l'autocritica è diventata critica delle auto. Il Matteo nazionale, più
che rappresentare il "partito personale", impersona il renzismo, ossia ne è il più legittimo e
accreditato precipitato chimico.
Quali correnti
Così
pure per quel che concerne il Partito Democratico sarebbe bene smettere di
parlare di correnti che scuotono il partito. Le correnti sono il vero
costitutivo del partito e non possono che scuoterlo. Quando l'impero romano
crollava – a processo di disgregazione inoltrato – non si trattava più di
porzioni di territorio e di potere sottratte all'impero, ma di nuovi poteri
locali che crescevano sul cadavere dell'impero e si avviavano a sostituirne
l'autorità. L'anomia rispetto al passato diventa l'inizio di una nuova norma
rispetto al futuro.
E
non vuole necessariamente dire che il futuro sarà migliore e più dignitoso del
passato. È e sarà diverso, questo sì. In questo approccio, per la verità fin
troppo aulico, si colloca il problema del partito. Il problema in generale del
partito e di tutti i partiti che ancora malamente si fregiano di questo nome e
di questa etichetta.
In
questo caso i problemi sono nuovamente due. Il primo riguarda gli strumenti
della politica nella fase del turbocapitalismo globalizzato. Come fare le
riforme, come intervenire nelle emergenze senza uno strumento adatto alla
bisogna?
I
leaders delle ultime tornate sembrano non occuparsene, tutti presi dal kairòs e
dalla smania di governare. Nella loro testa, e più ancora nella prassi, il partito
sembra dover seguire come le salmerie. È dimostrato che le cose non vanno così
e che le conseguenze per i leaders disattenti si fanno prima o poi pesanti e
letali. Non si dà disegno politico senza strumenti adeguati. Non si danno
riforme senza un veicolo che le trasporti e le renda possibili.
Le
spensieratezze sono destinate allo scacco. E a quel punto non vince
l'opposizione: in generale e più propriamente vince il nulla. Il secondo
problema riguarda un'enfasi tutta dedicata alle regole e alle procedure. I soggetti
storici sono infatti usciti di scena, destinati a non tornare mai più. Così le
regole vengono continuamente cambiate, senza mai proporre una riflessione
minimamente approfondita sui nuovi soggetti chiamati ad entrare in campo. Se ci
saranno e se è possibile costruirne di nuovi.
Il
renzismo vive di questa atmosfera e di questa prassi "spensierata".
E
del renzismo quel che conta non è la prima radice della parola, ma la desinenza
finale: l’ismo. È la scomparsa dei soggetti che ci consegna la società liquida,
l'impossibilità di distinguere in troppi casi tra destra e sinistra, la
latitanza della politica. È sempre la scomparsa dei soggetti che rende ancora
più poroso, non soltanto nel Mezzogiorno, il confine tra legalità e malavita,
tra comportamenti leciti e illeciti, corretti e scorretti: la diatriba intorno
agli "impresentabili" è nata lì.
I corpi intermedi
Si
ripropone una volta ancora il tema degli strumenti della politica, visto che il
capitale i suoi li ha rinnovati e insediati ai posti di comando. Chi allora è in
grado di resistergli e di mediare?
Non
condivido tanto diffuso ottimismo di maniera, non perché mi piaccia gufare, ma perché credo che la politica,
anche nella stagione della rappresentazione onnivora, debba confrontarsi con le
cose e la dura realtà dei fatti e i disagi e le aspettative dei soggetti più e
piuttosto che con le regole del teatro e dei suoi spettatori.
È
ben vero che i cittadini si sono metamorfosati in consumatori, ma è altresì
vero che il potere della politica e dello Stato (quel che ne resta) sono
chiamati a contendere con il potere economico, con quello finanziario e con
quello pubblicitario. Trovo in particolare sconcertante che venga continuamente
disboscata la presenza di quelli che la dottrina sociale della Chiesa continua
a chiamare "enti intermedi". Senza di essi è impossibile governare il
lavoro e ristrutturare il welfare.
Ha
ragione Stiglitz: non smantellate il welfare, ma correggetelo. Ha ragione
Amartya Sen: la democrazia è il luogo del diritto, ma anche delle uguaglianze;
è lo strumento storico che si è dimostrato più efficace nel combattere le
carestie. Siamo alle solite. Tutta la partita continua giocarsi tra
governabilità e democrazia. Non si ripeterà mai a sufficienza che la democrazia
deperisce senza governabilità, ma che la governabilità può crescere e
prosperare anche senza la democrazia. Anche se non tutti gli appassionati della
governabilità a risparmio di democrazia sono vogliosi di buttarsi lungo vie
autoritarie.
Per
una volta tanto proviamo a limitare il discorso: le ultime elezioni regionali
hanno detto chiaro e forte una volta ancora che i partiti politici italiani e la
loro tradizione sono alle nostre spalle. Che le leadership crescono piuttosto
sulle macerie dei partiti che nei loro cantieri nazionali. Che la disaffezione
al voto discende direttamente dalla mancanza di quelle strutture che un tempo
si incaricavano di rendere progressivamente Stato la società civile.
Un
processo che avveniva sotto tutte le bandiere e a partire da ideologie
politiche non solo diverse ma anche contrapposte. E adesso pover'uomo? Adesso
ammiriamo non le gesta ma le performance di un ceto politico molto leggero, che
ama distinguere amici ed avversari in ottimisti ed in gufi: quasi che le
macchiette della psicologia siano in grado di sostituire gli opliti del potere.
La società liquida produce partiti gassosi. Un destino promesso anche alle
nuove strutture della partecipazione, che non poco dipendono per la loro
esistenza e funzionalità dai partiti o dai loro succedanei. E’ questo deserto
che ha fatto sì che le primarie importate con entusiasmo dagli Stati Uniti
d'America siano risultate sputtanate nel giro di cinque anni.