L’Europa
delle autonomie locali
di
Giovanni Bianchi
Miliardi
In Italia, secondo una stima di Piero
Fassino e dell’Anci, sono 17 i miliardi
pagati dai Comuni allo Stato dal 2010 ad oggi. Per un Paese che si
interrogava su come rendere più federalista la propria Costituzione non può
dirsi che non sia una imprevista curva a U. Disallineamento dunque tra le
riforme e il ruolo (di pagatori) dei Comuni. Disallineamento dei territori
rispetto al governo. Per questo un tema permanente, anche se sottaciuto, è quello
che riguarda nelle riforme istituzionali il ruolo degli enti locali. E non dubito
che la transizione infinita risulti da questo punto di vista semplicemente
devastante. Con una assoluta incertezza circa le riforme amministrative e i
loro tempi: a sincopi e singhiozzi. Così diventa sempre più difficile
rispondere alla domanda sociale dei cittadini. Perché a livello amministrativo
gli italiani si presentano come cittadini, mentre a livello nazionale si
presentano come consumatori renitenti al voto. Per questa ragione il
"tono" dei sindaci italiani si è fatto tutto rivendicativo, per non
dire arrabbiato. Tornano allora in campo idee sagge e strampalate circa la
riforma degli enti locali e dei consigli comunali sotto i 1000 abitanti. Un
principio va comunque non dimenticato: le riforme sono partecipate e condivise,
o non sono. La
cosa incredibile della politica italiana degli ultimi decenni è che il
movimento "vincente" dei sindaci abbia imboccato la prospettiva della
centralizzazione. Come a dire che le spinte "epocali" la vincono
sulle residue resistenze della democrazia. Che cioè è una spinta da sopra e da
fuori del sistema a indurre un “comando”
al quale anche le figure che dovrebbero risultare più attente alla
partecipazione non sanno resistere.
Le elezioni
Eppure
l'osservazione dei dati dovrebbe confortare una presa in carico del discorso
delle autonomie. Nelle ultime elezioni amministrative infatti c'è stata più
affluenza di elettori dove si votava anche per i Comuni oltre che per le
Regioni. Mentre un cittadino su sei di quanti avevano votato alle precedenti
regionali non si è presentato al seggio. Insomma, nel Bel Paese il glocale non l'ha ancora vinta sul locale. E udite! In Francia non si danno
fusioni di comuni, ma associazionismo intercomunale che va avanti dagli anni
Ottanta del secolo scorso. Al di là delle geometrie e delle formule ritorna
anche su questi piani e in questa chiave il dilemma epocale: se il ceto
politico ed amministrativo intenda governare il mondo, oppure la sua
rappresentazione. Detto alle spicce: i problemi dei cittadini-consumatori, o le
loro emozioni. Va
anche detto che emerge soprattutto in Europa quanto sia stretto il legame tra
democrazia e welfare, e quindi tra democrazia e riforma del welfare. Assistiamo
invece da tempo a una fase di ritorno all'accentramento, come ai tempi nei
quali si aveva l'abitudine napoleonica di misurare la distanza di una
circoscrizione locale su una giornata a cavallo. Le
comparazioni sono sempre di qualche utilità e quindi guardare alle cifre d'oltralpe
può suggerire qualche prospettiva. In Francia ci sono 38.500 comuni, dei quali
34.000 sotto i 3500 abitanti. Questo dunque sul territorio il modello
napoleonico. I fatti sono sempre più eloquenti delle ideologie e delle
reminiscenze, che non hanno l'abitudine di confrontarsi con i fatti. Ma
ecco il "fatto nuovo": la crisi economica. Bisogna talvolta partire,
per risultare chiari e realistici, da qualche banalità. E la banalità che
propongo è che non si possa considerare -anche
per i non marxisti- la crisi un "fatto naturale". Osservazione che
significa che per intenderne gli effetti anche la crisi va analizzata
criticamente.
L’analisi critica
Non
ci vuole soltanto l'analisi critica dei modelli amministrativi. Ci vuole anche
l'analisi critica della crisi economico-sociale, delle sue cause dei suoi
effetti. Questa critica, quando viene esercitata, è la causa della differenza
di ruolo e udienza del Papa rispetto ai politici.
Il
Papa assume l'aumento delle disuguaglianze come punto di vista. I politici
italiani invece sembrano prendere le mosse dalla velocizzazione necessaria dei
processi di governabilità, con l’intenzione di rispondere in tempo reale, si fa
per dire, alla velocità di caduta delle tecnologie e della civiltà in generale.
Quel che si dice preferire la governabilità alla democrazia e, se è il caso,
"risparmiare democrazia" e i suoi tempi in nome della governabilità.
È
per questo che un Papa, totalmente evangelico e impolitico, sembra essere più
politicamente lucido dei politici e proporre e fare più politica di loro. Al
confronto i politici sono piazzisti
(ribadisco che il termine non è mio ma di Hannah Harendt) che si impegnano in
uscite pubblicitarie. E invece basterebbe tener conto della circostanza che la
crisi economico-sociale non è né il Vesuvio né il lago di Garda. Si è fatto
drammatico il rapporto tra welfare (non solo municipale) ed enti locali. Questo
processo influisce sul modello amministrativo più di quanto il modello
amministrativo influisca sul welfare. Non basta dire che le crisi economiche (e
sociali) lasciano una traccia. Devi decidere se guardare alla crisi del welfare
dal punto di vista della crisi del modello amministrativo, o viceversa. Si
sente dire: "Siamo
messi di fronte a uno Stato più interventista"...
Perché,
e a nome di chi? Non è pensabile lo Stato e in particolare lo Stato europeo a
prescindere dal welfare. In nome di che cosa moltitudini di migranti sfidano il
Mediterraneo e la morte se non per approdare in un continente dove le libertà
della persona sono garantite dal welfare? La crisi infatti, si dice,
"seleziona le domande".
Qui
si apre il confronto tra le tesi e la visione di Klaus Offe e le tesi e la
visione di Niklas Luhmann. Bisogna ancora una volta scegliere con che libro
stare e da che parte stare. Offe versus
Luhmann. Secondo il professor Pastori della Cattolica di Milano l'ente Regione
doveva avere visione di governo di tutto l'ordinamento amministrativo. E Franco
Bassanini si spinse a immaginare un federalismo amministrativo a Costituzione
invariata.
Ma
torniamo al confronto tra Offe e Luhmann. Perché stare con Offe? Perché così la
pensa anche Amartya Sen. E perché altrimenti c'è il rischio paventato dal mio
ineffabile compagno di banco al liceo Zucchi di Monza che, con buon senso
strettamente brianzolo e immaginazione davvero metafisica, aveva l'abitudine di
ripetere che il rischio è quello di "prendere la vacca dalla parte delle
balle".
Un quesito aperto
Il
quesito infatti resta aperto: è possibile pensare l'amministrazione e le sue forme, pensare politiche e
cittadinanza, e democrazia europea, a prescindere dal welfare? Vien proprio da
dire, conclusivamente, che se l'Europa è esausta è perché è esausto il suo
welfare.
A
rincalzo e a rinforzo di questa ipotesi o tesi, non mi fossilizzo sul termine,
arruolo al mio discorso l'ultimo libro di Giuseppe Berta. Un libro su La via del Nord. Libro strano, a detta
di Michele Salvati, perché ripercorrendo le orme e i dati di un libro di sette
anni fa, arriva questa volta a conclusioni affatto diverse e certamente non
ottimistiche.
Cosa
ha fatto cambiare la lettura e l’umore di Berta? Quel che mutato è
evidentemente e anzitutto il punto di vista dello scrivente. Il Nord cioè
appare dal punto di vista produttivo e sociale in una condizione di stallo. Sette
anni fa nel libro si parlava di
metamorfosi; oggi si parla di declino.
Con il rinforzo di una presa di posizione sull'ultimo numero della rivista
"il Mulino" dove Beppe Berta chiarisce le ragioni per le quali la
politica non lo interessa più. Ed ha anche la buona grazia di osservare che
preferisce la complessità ai modelli, e che non si astiene dal portare a
supporto delle proprie posizioni anche materiali letterari.
Gli stimoli inadeguati
della politica
È
dalla politica che sarebbero dovuti venire gli stimoli. Quali ostacoli che hanno indotto allo stallo presente? Berta
sostiene che oltre alla psicologia politica è entrata in azione in lui una
diversa valutazione delle cose e dei dati. La Milano che conosciamo ad esempio
gli pare determinata dall'enorme e potente base del circuito che ha tenuto
insieme edilizia, banche e assicurazioni. Come a dire che il dominus e il vero artefice di questo
sistema milanese ha nome Salvatore Ligresti. Approfondendo ed estendendo il
discorso si deve dunque dire che nel Bel Paese gli interessi esistenti paralizzano gli interessi in formazione. Si tratta di un celebre giudizio di Luigi
Einaudi. Sostiene Berta che c'è da chiedersi come mai due valenti uomini
politici torinesi come Fassino e Chiamparino non abbiano cambiato la lobby
massonica nella città della Mole. Così pure per Berta le medie imprese
risultano non avere nerbo perché dovrebbero saldarsi con le grandi imprese,
mentre l'operazione si è fatta impossibile dal momento che le grandi imprese si
sono trasferite all'estero. È come se gli italiani avessero sparato tutte le
cartucce negli anni Sessanta, fino a restarne privi. Manca da noi il lungo
respiro del capitalismo, quello che per esempio ha condotto al top i 49 milioni
di abitanti della Corea del Sud, assoggettati a un regime certamente non
democratico.
Secondo
Giuseppe Berta la partita dell'Italia si è giocata e persa tra il 1975 e il
1985, tra politica e amministrazione. Come al solito, problema di classe
dirigente. E problema del Mezzogiorno. Carlo Farini, appena sbarcato, in
Sicilia scrive che il nostro Mezzogiorno è peggio dell'Africa... E adesso
pover'uomo? Adesso non è che non ci sia
più il Nord: non c'è più l'Italia. Gli 80 euro in busta con i quali Renzi
stravince le elezioni europee non sono un provvedimento socio-economico: sono Via col vento a reti unificate.
E
invece le politiche industriali si declinano localmente, o non sono. E in
Italia sono troppo pochi i sindaci che intendono fare il sindaco veramente e a
lungo; è invalsa oramai l'abitudine di considerare ogni carica come un
trampolino per quella successiva ritenuta più alta.
Si
tratta di mettere di nuovo in contatto l'imprenditorialità con le sue fonti di
finanziamento e con i progetti politici ed amministrativi. Un contatto che
richiede che i progetti ci siano.
Per
questo l'Europa senza welfare e senza partecipazione amministrativa (oltre che
senza progetto politico) è un'Europa esausta.