Stava.
Il crimine dei colletti bianchi
di Giovanni
Bianchi
Trent'anni dopo
Sono passati trent'anni dalla tragedia di
Stava, quando alle ore 12.22 del 19 luglio 1985 i bacini di decantazione della
miniera di Prestavel ruppero gli argini scaricando 160.000 m³ di fango sull'abitato
di Stava, piccola frazione del comune di Tesero, provocando la morte di 268
persone. Una delle più grandi tragedie che abbiano colpito il Trentino in epoca
moderna. 268 morti, di cui 28 bambini con meno di 10 anni, 31 ragazzi con meno
di 18 anni, 89 uomini e 120 donne. I corpi di 13 persone non vennero mai
ritrovati.
Il
numero esatto dei morti del disastro di Stava fu accertato solo un anno dopo la
catastrofe. Molte salme infatti non poterono essere riconosciute e fu quindi
necessario ricorrere alle dichiarazioni di morte presunta.
La
dinamica della tragedia è stata esattamente ricostruita. Alle 12.22 del 19
luglio 1985 l'argine del bacino superiore dei due invasi costruiti sopra il
paese cedette e crollò sul bacino inferiore, che cedette a sua volta. La massa
fangosa composta di sabbia, limi e acqua scese a valle a una velocità di quasi
90 km/h spazzando via persone, alberi, abitazioni e tutto quanto incontrò fino
a che non raggiunse la confluenza con il torrente Avisio.
All'opera
di soccorso parteciparono oltre 18.000 uomini, di cui oltre 8000 vigili del
fuoco volontari del Trentino e 4000 militari del Quarto Corpo d'Armata Alpino.
Primi ad accorrere furono i vigili del fuoco volontari di Tesero e della Valle
di Fiemme.
Presso
il municipio di Tesero fu quindi istituito un quartiere generale della Protezione
Civile dal quale coordinò i soccorsi lo stesso ministro per la Protezione Civile
Giuseppe Zamberletti. La maggior parte delle vittime fu recuperata nelle prime
ore, ma la ricerca si protrasse per tre settimane.
La fatalità non esiste
Fatalità?
Anche in questo caso la fatalità non esiste e non può essere invocata. In oltre
vent'anni quelle discariche non furono mai sottoposte a serie verifiche di
stabilità da parte delle società concessionarie o a controlli da parte degli
uffici pubblici cui compete l'obbligo del controllo a garanzia della sicurezza
delle lavorazioni minerarie e dei terzi.
Anzi,
nel 1974 il Comune di Tesero chiese conferme sulla sicurezza della discarica.
Il distretto minerario della provincia autonoma di Trento incaricò della
verifica di stabilità la stessa società concessionaria (la Fluormine,
appartenente allora ai gruppi Montedison ed Egam), che la effettuò nel 1975.
Pur
trascurando una serie di indagini indispensabili, la verifica permise di
accertare che la pendenza dell'argine del bacino superiore era
"eccezionale" e che la stabilità era "al limite". Nella sua
prima relazione il tecnico incaricato della verifica sembra in sostanza
affermare: "Strano che non sia già
caduto".
La
commissione ministeriale d'inchiesta e i periti nominati dal Tribunale di
Trento accertarono in seguito che "tutto
l'impianto di decantazione costituiva una continua minaccia incombente sulla
vallata. L'impianto è crollato essenzialmente perché progettato, costruito,
gestito in modo da non offrire quei margini di sicurezza che la società civile
si attende da opere che possono mettere a repentaglio l'esistenza di intere
comunità umane. L'argine superiore in particolare non poteva che crollare alla
minima modifica delle sue precarie condizioni di equilibrio".
Fin
qui la ricostruzione che il lettore può anche ritrovare nelle righe
cronachistiche e distaccate di Google.
Domanda:
ma esiste una logica diversa dal rimando alla fatalità in questa incredibile
tragedia tutto sommato dei giorni nostri?
Il libro e le associazioni
Me
ne sto occupando a seguito di due circostanze. La prima è la pubblicazione di
un libro scritto per i tipi della Fondazione Centro Studi del Consiglio
Nazionale dei Geologi da Daria Dovera, allora giovane ricercatrice dell'équipe
degli esperti incaricata di procedere alle perizie. La seconda è che nel 1985
ricoprivo il ruolo di presidente regionale delle Acli della Lombardia e che uno
degli edifici travolti dall'esondazione era una Casa per Ferie delle Acli
milanesi. Nacque in seguito alla tragedia – come sovente accade in circostanze
analoghe – una associazione dei parenti delle vittime che faceva capo e si
radunava nel salone milanese di via della Signora appartenente alle Acli provinciali di Milano,
allora rette da un leader sindacale e cattolico del calibro di Lorenzo Cantù.
Qui
si apre una riflessione di carattere nazionale e addirittura “epocale”. Perché
l'Italia è da tempo abitata dalla figura collettiva di associazioni che
attraversano con un fardello civico doloroso le nostre recenti stagioni
politiche?
Proviamo
a fare un elenco limitato ed approssimativo: i parenti delle vittime di Stava,
del Cermis, della Moby Prince, di Ustica, di piazza Fontana, di Piazza della
Loggia, della Stazione di Bologna, di Linate, dell'Italicum... Sono davvero
toppe, e testimoniano di un dolore che attraversa come un fiume carsico la
Nazione, che parla di problemi sempre messi all'ordine del giorno e mai
risolti, della latitanza colpevole di una classe dirigente.
I
sottotitoli del libro prezioso di Daria Dovera hanno la forza di una denuncia.
Eccoli: incultura, imperizia, negligenza,
imprudenza. Una accusa senza mezzi termini e circostanziata contro
l'assuefazione alle tragedie e ai responsabili delle tragedie.
Contro
quell'inerzia che fa sì che le immagini ripetute svolgano un "effetto
Mitridate" su una platea di cittadini che si comportano sempre più da
consumatori. E da consumatori di banalità pubblicitarie. Le prefazioni al testo
non a caso parlano di "vergogna" del Paese.
Quale Paese?
Quel
Paese appunto nel quale sono sorte nei decenni troppe associazioni di parenti
delle vittime. Perché indubbiamente il ricordo della tragedia è doveroso e può
sortire effetti catartici e di cambiamento, purché risulti un'efficace e brusco
invito alla responsabilità in un’Italia abituata a rimuovere e a insabbiare. A
passar sopra a pesanti responsabilità.
E
invece scopriamo con l'autrice che a gestire lo sfruttamento delle risorse
minerarie della valle si era cominciato nel XVI secolo, per la produzione di
galena argentifera. Nel 1934 si era passati all'estrazione della fluorite. Dopo
la seconda guerra mondiale troviamo a gestire l'invaso un colosso delle imprese
italiane che risponde al nome di Montecatini, cui subentrarono fino al 1978
società del gruppo Montedison e quindi Egam ed Eni.
Soltanto
nel 1980 si affaccia come gestore Prealpi Mineraria; ossia dopo i giganti
blasonati della grande industria arrivano i Brambilla.
La
logica a tutti comune è quella di spremere i territori come se vivessimo in
un'Italia virtuale, che è invece ancora quella della famosa inchiesta dello
Jacini (1884), delle tragedie del Gleno e del Vajont. Come dimostrano
ampiamente gli atti dell'inchiesta giudiziaria, il fato dunque non c'entra;
c'entra invece un "approccio esclusivamente speculativo". È questa la
ragione profonda di tante vite stroncate e di molte più vite ancora di parenti
e sopravvissuti drammaticamente segnate per un'intera esistenza.
È
tempo di mettere a tema questo rapporto tra vittime e memoria che segna la
nostra vicenda storica quotidiana. Più attenti di noi sembrano in materia i
francesi e i tedeschi. Anche se in altri paesi europei non sono mancati né i
crolli né i segni premonitori inascoltati.
Un dramma antropologico
Quel
che emerge a tutto tondo è ancora una volta il dramma antropologico del nostro
Paese. Siamo ancora a Massimo d'Azeglio che invitava a fare gli italiani dopo
l'Italia, e al citatissimo (da me) Giacomo Leopardi del 1824: gli italiani mancano
di dimensione morale e classe dirigente. Sono dunque queste che vanno
ricostruite.
E
il libro di Daria Dovera e il supporto all'opera del Consiglio Nazionale dei
Geologi vanno in questa direzione, ossia propongono esplicitamente l'esigenza
di un salto culturale. L'operazione
in corso è seria e fondata dal momento che si propone un'operazione di stampo
weberiano: lavorare perché le professioni -nel caso specifico quella dei
geologi, e i più giovani in particolare- diano il loro contributo alla crescita
di un'etica di cittadinanza. Senza una responsabilità generalizzata in tal
senso continueremo a imbatterci in amministrazioni locali che non avevano mai
compiuto serie verifiche di stabilità, peggio, le avevano messe in burla per
bypassarle. Vale la pena ripetere che non si tratta soltanto della latitanza
della politica: questo è un difetto palese di classe dirigente a tutti i
livelli e che attraversa le diverse competenze e professionalità. Coglieranno perfettamente il problema il
professor Federico Stella, docente di diritto penale all’Università Cattolica
di Milano, e il professor Floriano Villa, coordinatore degli esperti e
presidente di Italia Nostra, quando nelle aule trentine del processo
individueranno le responsabilità e inviteranno a compararle con gli studi e le
indagini compiuti in materia negli anni Trenta negli Stati Uniti d'America. Vi
sono inchieste e riflessioni oltreoceano che hanno condotto alla individuazione
di un white-collar crime: crimine dei
colletti bianchi. Con una casistica che calza a pennello con la tragedia di Stava
e una conclusione degli esperti e dei giuristi americani che approda a un
principio estremamente semplice e popolare: non si devono costruire invasi
sopra i paesi e sopra le teste degli abitanti.
Leggere la sentenza
È
sufficiente a questo punto leggere alcuni brani della sentenza dei giudici
della Corte d'Appello di Trento, Sezione penale Sentenza n. 789/89:
"Tanto gli uomini
della Montedison e della Fluormine quanto quelli del Distretto Minerario non si
sono curati delle regole chiare e precise dell'arte e quindi dell'elevato
rischio di rottura degli impianti, mostrando massima noncuranza e colpa". Di maniera che "il patto originario tra l'uomo e l'universo è stato violato
perché la logica del profitto è prevalsa su quella del vero e del giusto".
Sempre
nelle conclusioni della sentenza viene evocata la parola prudenza, come il luogo nel quale possono congiungersi
professionalità e coscienza umana, e quindi anche civica e politica. Viene pure
citato il don Abbondio che si schermisce dalla rampogna del cardinale Federigo
osservando che uno il coraggio non se lo può dare. Indubbiamente vero,
soprattutto se ad essere messo in discussione è il coraggio necessario a non
impostare tutta la vita come devozione all'idolo dell’avidità e della carriera.
Andare nella direzione contraria sarebbe un primo passo verso una società
civile un po' meno liquida è un po' più umana, perché consapevole che senza
elementi di comunità e di fraternità il civile si dissolve, trascinando nella
deriva le stesse istituzioni. E indubbiamente mette qualche brivido ricordare
come Montedison fosse la più grande industria chimica di quegli anni. Ma il
percorso della storia nazionale non è solo costellato di tragedie e fuga dalle
responsabilità. Non è esagerazione né paradosso notare come la battaglia
condotta dentro e fuori le aule del tribunale Trentino da Villa e Stella sia
oggi condotta nientemeno che dal vescovo di Roma.
Papa
Francesco ha speso un'intera enciclica per invitare pressantemente a una
coscienza e a una responsabilità ecologica. Già in precedenza aveva ricordato,
come ammonimento epocale, che Dio perdona sempre, gli uomini talvolta, mentre
la natura non perdona mai.
Stava
costituisce un esempio paradigmatico.