Taccuino
DELLA SALA
DEL GRECHETTO E NON SOLO
di Angelo Gaccione
Non ero
più stato alla Sala del Grechetto dopo lo spostamento dei grandi quadri, le
ventitré gigantesche tele portate nelle Sale delle Cariatidi di Palazzo Reale
per esporle nella mostra dal titolo Il meraviglioso mondo della natura.
Ero andato a vedere l’allestimento più che altro per verificare, se in quegli
spazi enormi a me tanto familiari, il “ciclo di Orfeo”, come alcuni lo hanno
definito, per la presenza fra quel lussureggiante “giardino zoologico”,
quell’incredibile variopinto mondo di animali di ogni sorta, fiori e piante fra
i più diversi, di una raffigurazione del mitico musico e poeta che regala la
magia della sua armonia a uno stuolo di animali che lo attorniano, avrebbe
funzionato. Non che fossi prevenuto, ma conoscendo a memoria ogni dettaglio di
questo singolare e stupefacente arredo (non so più quante volte mi ero
soffermato a fissare quello strano gatto che agile si protende verso la zampa
caprina di Bacco, o l’occhio vigile del cavallo incorniciato tra i bordi delle
due finestre e che pareva volesse venirmi incontro) per essere un assiduo
frequentatore di quella Sala e anche protagonista attivo in qualità di
scrittore per avervi presentato libri, letto versi, preso parte a dibattiti;
del suo raccolto contesto; della sua oramai secolare collocazione; della mia sedimentata
memoria, nutrivo più di un dubbio. Ed
infatti quella visita al Palazzo Reale mi aveva deluso e infastidito. Fuori dal
loro contesto, dalla loro collocazione storica, dalla ratio e dalle
motivazioni profonde dei loro committenti, quelle tele “scomposte” e isolate,
avevano perso ai miei occhi ogni unitarietà, ogni giustificazione, e
fluttuavano, alcune di esse collocate ad una altezza esagerata, dentro un vuoto
privo di sostanza, un vuoto che le immiseriva, e da cui non ricevevano né
bellezza né forza espressiva. Avevano perso tutta la magia che allo sguardo
unitario e d’insieme la Sala del Grechetto aveva fino ad allora conferito.
Avrei voluto scrivere di questo, ma non lo feci, certo che la stessa
impressione avessero avuto gli altri visitatori e gli stessi propugnatori della
mostra e che col ritorno delle tele al Grechetto, il mio disagio si sarebbe
dileguato. L’ipotesi di una collocazione del tutto diversa e definitiva, ha
spinto alcuni di noi alla creazione di un Comitato e ad interrogarsi sulla bontà
di quella scelta. “Odissea” ha ospitato sulla sua prima pagina gli interventi
contrari di studiosi e appassionati, cercando quanto più possibile di tener
desto il dibattito, e nella speranza che la città più attenta e consapevole si
interrogasse, prendesse parte, dicesse la sua, convinto come sono che “L’amministrazione
di una città consiste nella custodia che ciascuno ne fa per la sua parte”,
come ha ben scritto Licurgo nel suo pamphlet Contro Leocrate.
|
Il libro di Morandotti |
Non ero più
stato alla Sala del Grechetto dove “il diorama botanico-zoologico” (non sono
parole mie, la definizione è della studiosa Vittoria Orlandi Balzari di cui i nostri lettori hanno potuto leggere, su queste pagine, le sue pertinenti riflessioni) ornava così bene le pareti di quella che era stata una Sala
nobiliare, e ne avevano fatto non una semplice Sala, ma un luogo pieno
in grado di sedurre e di stupire i suoi proprietari, i suoi ospiti, e quanti vi
sono finora transitati. Vi sono tornato in occasione della conversazione sul
necessario libro di Alessandro Morandotti: Una mostra, un trasloco. Destini
della sala del Grechetto di Palazzo Sormani a Milano (Scalpendi Editore,
pagg. 106 € 15,00) che ha funzionato come un vero e proprio istant book,
come un libro militante, per richiamarci alla vigilanza, per invitarci ad
essere prudenti su certe scelte irreversibili, per diventare parte attiva nel
civile confronto che si è aperto, e non spettatori passivi o, peggio,
indifferenti. Ben documentato, utile agli studiosi e non solo, il libro dà
conto della storia delle tele, dell’iter che le ha portate dal Palazzo
Visconti-Lunati-Verri (sono i vari passaggi che il Palazzo di via Monte
Napoleone ha subìto) fino a Palazzo Sormani in Porta Vittoria. In linea con
altri studiosi Morandotti da anni studia e indaga per venire a capo dell’autore
(o degli autori, dato che le mani appaiono diverse) del complesso pittorico. Di
ipotesi e di nomi ne sono stati fatti più d’uno e nel tempo quello del genovese
Giovanni Benedetto Castiglione, detto il Grechetto, ha perso quota. Si parla di
scuola fiamminga, di mano polacca proveniente dalla corte medicea di Firenze… e
il dibattito resta apertissimo. Morandotti invita alla prudenza, aspettando
l’emersione di documenti più probanti. La verità potrà venire prestando una più rigorosa attenzione agli elementi dello stile. Ad
ogni modo quello che sappiamo con certezza è il nome del vero committente, si
tratta di Alessandro Visconti di Carbonara per diversi anni capocaccia dei
Medici a Firenze, e chissà che proprio questo incarico abbia contribuito ad
alimentare in lui la passione per quell’universo fatto di botanica e di zoologia.
È
incredibile come le cose si fissano in noi e diventano memoria necessaria.
Ritrovarmi ora in quella Sala dalle pareti vuote, spoglie; asportati quei
duecento metri quadrati di arredo che rivelavano il gusto dell’abitare dei suoi
proprietari, quel salotto si era trasformato improvvisamente in un non luogo:
un non luogo straniato e straniante, senz’anima e con la storia fatta a fette.
Un luogo ferito, un semplice banale spazio vuoto addirittura rimpicciolito. Può
apparire paradossale, ma è proprio così che si è presentato ai miei occhi:
aveva perso di profondità, spazialità, volume. Era diventato un nulla. Se le
tele non ritorneranno più in questa Sala e quando gli imbianchini faranno il
resto, quello che poteva diventare un delicato salotto-museo, sarà
definitivamente una stanza simile a mille altre. Quando un poeta veniva qui,
quando vi veniva uno scrittore, un appassionato di pittura, un frequentatore assiduo
o un visitatore occasionale, sapeva di trovarsi dentro un mondo, un mondo
compatto, unico, coerente, e ne gioiva. Ora quel mondo non c’è più, è semplicemente
sparito. Ho provato la stessa spaventosa sensazione di vuoto, di annientamento,
di manomissione, di estraneità, di perdita, che avevo provato nella primavera
del 2016 ritornando dopo un lungo periodo di assenza, nella mia città di
origine. Era sparito un intero viale di robusti bellissimi platani che ne
ingentilivano il percorso e che si avviavano verso il mezzo secolo di vita. A
tratti i rami sui due lati quasi si toccavano; in alcuni punti avevano formato
una piccola galleria con degli archi a sesto acuto; offrivano ombra, solidità,
bellezza di colori con le loro foglie, concerti sonori con cinguettii e
squittii di ogni sorta, riparo, svolazzi. Come scrittore sapevo che non erano
stati massacrati dalla stupidità e dalla insensibilità semplici alberi; sapevo
che era stato cancellato un angolo di mondo, di memoria che mi era appartenuta.
Quel luogo mi divenne improvvisamente ostile come i suoi indifferenti abitanti,
e questa ostilità, questa perdita, si materializzò in due testi poetici: Requiem
per gli alberi di via Capalbo (20 luglio 2016) e nella ventottesima elegia
della raccolta Lingua mater (8 luglio 2017). Mesi prima del mio ritorno
in Calabria, in quello stesso 2016 mi ero occupato del bellissimo libro dello
scrittore svedese Stig Dagerman La politica dell’impossibile. Uno degli
scritti di quella raccolta, l’ultimo che chiude il volume, si intitola
“Passeggiando per le strade di Klara”.
|
Stig Dagerman |
Riguarda la memoria di
ciascuno scrittore, e penso che chiunque pratichi questo strano ed insano
mestiere, può farlo proprio, a qualunque luogo egli appartenga. Lo scritto
ragiona, con malinconica amarezza poetica, sulla cancellazione ristrutturazione-ammodernamento del
vecchio quartiere Klara di Stoccolma. Poiché “la nostra memoria è sedentaria”,
come scrive magnificamente Proust - e per un certo tipo di scrittore lo è al
massimo grado -, cancellare un luogo, o semplicemente manometterne anche un
solo elemento che è stato parte della sua creatività e della sua immaginazione,
vuol dire alterarne il contesto e dunque eliminare quella che per lui era una
creatura viva. Sacrificare, assieme a questa, anche una parte della vita del
suo creatore.
Personalmente ne so qualcosa, e scrivendo i racconti
de “L’incendio di Roccabruna”, ho conferito una seconda vita, seppure sulle
pagine di un libro, a nomi e luoghi che mi erano stati cari.
Per Dagerman la memoria non si rassegna: “è gelosa
e del tutto irragionevole” e se “la ruspa sa di essere al servizio
dell’espansione, e l’espansione ha sempre ragione”, tuttavia la memoria
resta irragionevole e si mette a strillare: “Non abbattetele, sono le
mie case. Non potete demolire il quartiere di Klara!”. E se la ragione chiede
perché no, la memoria risponde: “Perché è in questa parte di mondo che hai
vissuto i momenti più lucidi e intensi della tua vita”. Quelle case e quel
quartiere sono stati lo “scenario” di “sogni” e “cospirazioni”: in uno di quei
palazzi ormai demoliti ha preso vita la storia di un uomo e della sua morte, e
con quella sparizione definitiva autore e personaggio hanno perso per sempre il
luogo fisico del loro incontro, sono cioè morti entrambi. Per le vie dove ora
lo scrittore-creatore si avventura, è sceso il lutto, un lutto che non si potrà
più colmare, perché Klara era un intero mondo dove si respirava un’aria di
indipendenza e di libertà. Qui aveva sede il giornale anarchico “Arbetaren”;
qui c’era la redazione di “Storm” che Dagerman per un certo tempo diresse, e
qui giovani “cospiratori” proletari e antifascisti, coltivavano la passione
ardente dei loro sogni per un mondo migliore e più giusto.
“Se la rivoluzione scoppiasse in Svezia, il suo
quartier generale sarebbe Klara”, scrive Dagerman. Ora Klara è un’altra cosa,
un luogo freddo e senz’anima; come è avvenuto qui a Milano per il vecchio,
popolare, ribelle quartiere Ticinese, simbolo della nostra inquieta giovinezza.
Quella meravigliosa “enclave” libertaria non esiste più. Al suo posto
moda e movida, speculazione e affari.
|
Alessandro Morandotti |
Anche la mia memoria non si rassegna e “resta
irragionevole”. Perché è parte integrante dei luoghi di questa città:
perché a due passi c’è la “mia” Università Statale dove ho consumato una parte
della mia giovinezza e dove nei suoi chiostri continuo a venire a leggere e
meditare, e nella sua Aula Magna a seguire dibattiti e concerti; c’è la libreria
Claudiana dove ho presentato tanti libri, c’è il Giardino della Guastalla
all’ombra dei cui alberi mi fermo a riposare, a guardare i pesci della
peschiera, a fotografare il gelso bianco i cui frutti squisiti mangiavo da
bambino sulle terre dei miei nonni materni e che i bimbi milanesi neppure
conoscono; c’è la Biblioteca Sormani della cui storia so praticamente tutto,
c’è il monumento a Carlo Porta di cui ho sempre amato la sua splendida lingua,
c’è il Verziere, c’è la piazza della strage di Stato, e ci sono le tante vie, scenari vivi dei miei racconti. La mia memoria non si rassegna e vuole che i
dipinti tornino al loro posto, perché mai, quello straordinario, appassionato,
disinteressato, sensibile, colto, geniale, sovrintendente di Brera che è stato
Ettore Modigliani e di cui ho appena letto le trecento pagine delle sue
incredibili memorie, dico mai, avrebbe acconsentito a questa rimozione e vi si
sarebbe opposto con tutte le sue forze. Avrebbe agito e parlato, contrariamente
alla stragrande maggioranza degli storici dell’arte, dei sovrintendenti, degli
artisti, dei critici d’arte, degli intellettuali, degli opinionisti di questo
nostro brutto tempo, silenziosi, indifferenti, borghesemente pavidi. La mia
memoria non si rassegna. Forse è nostalgia, forse è vecchiaia. O forse solo
rabbia.
|
La facciata della Biblioteca Sormani |
PS
Mi chiedo inoltre se non sia più saggio, e anche più
sicuro, per Milano come per qualsiasi altra città, avere le sue eccellenze
artistiche diversificate nei contesti che le ospitano. Non solo questo mostra
al mondo l’ampiezza dei suoi tesori, la sua ricchezza, ma in caso di disastri
sempre possibili, questa non concentrazione in un unico immenso luogo, può
rivelarsi preziosa dal punto di vista della salvaguardia. Sarebbe tempo di
aprire una discussione seria anche sull’uso di merce da supermercato del
patrimonio artistico, sulle orde che invadono sale con capolavori fragili e a
rischio, sulla concentrazione di giornate aperte che spostano masse umane
enormi tutte in una sola giornata (perché non prevederle quotidianamente in
modo da evitare questi afflussi ingovernabili?), su questo mandare avanti e indietro
per il mondo opere irripetibili. E se si schianta l’aereo che le trasporta? E
se prende fuoco il mezzo che le conduce? Se si verificano incidenti gravi? La
messa in Rete dei capolavori mondiali permette oggi di entrare dentro le sale
dei musei senza muovere le opere. Se si vogliono ammirare i Bronzi di Riace si
vada al Museo di Reggio Calabria, si conosce in tal modo un’altra città e se ne
aiuta l’economia. Dipendesse da me, mai autorizzerei questo “via vai”. E del
resto finora non è mai venuto in mente ad alcuno di spostare per un paio di
mesi la torre Eiffel a New York, o il Colosseo a Londra.