di
Franco Astengo
In
questi giorni è emerso uno dei nodi più complicati nella gestione del potere in
Italia così come questa si è sviluppato nel corso di molti decenni. È caduto,
infatti, il mito della “supplenza” esercitata dalla magistratura in vece della
politica. Una “supplenza” esercitata nel tempo sui punti più delicati a partire
da quello storicamente riguardante la “questione morale” ma capace di
esercitarsi in molti campi compreso quello, ad esempio, del rapporto tra il
lavoro e l’ambiente. Una “supplenza” che in diverse occasioni si è cercato di
respingere andando a cercare modificazioni legislative e/o costituzionali
spinte al punto da sollevare la questione del rapporto tra i poteri ma comunque
mai realizzate, a partire dall’atavico disegno della separazione delle
carriere.
L’emergere
di un vero proprio “trascinamento” tra la gestione politica e quella della
giustizia, come risalta dai fatti resi pubblici in questi giorni riguardanti il
CSM e le nomine di vertice dell’impianto giudiziario, ha modificato questo
quadro e aperto un nuovo capitolo nella crisi della democrazia.
A
modesto giudizio di chi scrive è questa l’occasione per riaprire una
riflessione di fondo attorno al concetto di “potere”, alle forme e alle
modalità di detenzione dello stesso, sulla distinzione tra “potere” e “governo”
così come oggi può essere realizzata e vissuta nel mutamento di struttura dello
Stato e di crisi della cosiddetta “democrazia occidentale”.
La
concentrazione dello sviluppo tecnologico in funzione quasi esclusiva della
comunicazione mediatica, collettiva e individuale, ha portato a uno spostamento
nella percezione di quello che può essere definito “immaginario del pubblico”
incidendo fortemente sui meccanismi di accumulazione del consenso e di
conseguenza di espressione del potere che si realizza così, appunto, attraverso
l’immagine, al di là del campo di riferimento sia questo la politica,
l’economia, lo spettacolo. Sono nati così fenomeni molto significativi che
hanno dimostrato una crescita esponenziale del concetto di “personalizzazione”
spinto quasi al limite del “divismo”, nel trionfo dell’apparire in luogo
dell’essere e di una nuova forza dell’effimero nel nascondere la realtà
complessa del potere reale.
I
fatti di questi giorni rischiano di spingere ancor di più nella direzione
appena descritta: quando si scrive ad esempio di “Quirinale unica isola sicura”
oggettivamente si spinge verso una riproposizione di una modifica
costituzionale in senso presidenzialista, anche al di là delle intenzioni dei
proponenti e dello stesso Presidente della Repubblica in carica.
Forse
vale la pena riflettere al meglio su questi elementi di novità al fine di
comprendere davvero ciò che sta accadendo attorno a noi.
L’obiettivo
dovrebbe essere quello di attrezzarci al meglio sul piano teorico: sicuramente,
sotto quest’aspetto il concetto e la conseguente percezione esterna del potere
sono mutati nella valutazione di larga parte dell’opinione pubblica, almeno in
Occidente.
Un
elemento sul quale, con ogni probabilità, il fattore globalizzazione ha inciso
in maniera inferiore rispetto ad altre tematiche come, invece, quelle
riguardanti la finanziarizzazione dell’economia, la standardizzazione dei
meccanismi comunicativi, l’apertura ai flussi di migrazione: tutti fenomeni che
nell’ultimo ventennio hanno registrato un forte incremento nel loro peso
specifico sulla realtà politica, economica, sociale.
Nello
sviluppo del pensiero umano il concetto di potere è sempre stato suddiviso in
“comparti” (per così dire).
Aristotele
distingueva nella Politica tre tipi di potere in base all’ambito nel
quale esso era esercitato: il potere dei padri sui figli, il potere dei padroni
sugli schiavi, il potere dei governanti sui governati (vale a dire il potere
politico in senso stretto). In età moderna Locke riprese la classificazione
aristotelica allorquando, aprendo il secondo dei suoi Trattati sul governo,
ribadisce la distinzione tra il potere del padre sui figli, del capitano di una
galera sui galeotti e del governante sui sudditi.
Ancora
Max Weber in Economia e Società distingue tra potere “costituito in
virtù di una costellazione di interessi” (dunque il potere specificatamente
economico) e il potere costituito in virtù dell’Autorità, includendo in questo
il potere del padre di famiglia, dell’ufficio o del potere del principe.
Nella
modernità attorno al concetto di potere abbiamo trovato espressi fattori come
potenza, forza, influenza tutti utilizzati al fine di realizzare il
condizionamento sociale per trovare obbedienza a un comando che contenga un
determinato contenuto. Su queste basi era maturato il concetto fondamentale di
separazione dei poteri (Locke, Montesquieu, Sieyès) destinata a diventare il
cardine dello Stato di diritto.
In
particolare l’abate Sieyès, con la sua teorizzazione dei rapporti tra potere
costituente e poteri costituiti, pone le basi per la teoria moderna della
Costituzione.
Il
testo della Costituzione deve essere così inteso come atto normativo mirante a
definire e disciplinare la titolarità e l’esercizio del potere sovrano.
Da
questa concezione del potere e del suo esercizio che, a questo punto, potrebbe
essere definita come “classica” è derivata concretamente l’attuazione del
principio della separazione dei poteri: tra potere legislativo e potere
esecutivo da un lato, e tra potere giudiziario e potere legislativo dall’altro.
Su
queste basi prendeva corpo l’idea della Centralità del Parlamento, che
sovraintende - tra l’altro - all’intero impianto istituzionale previsto dalla
Costituzione Italiana del 1948.
Oggi,
non soltanto in Italia, questo schema si sta rapidamente modificando.
Lo
Stato legislativo ha ormai lasciato il posto allo Stato governativo che produce
una sorta di “inflazione normativa” nella forma di decreti e decisioni
particolaristiche (è sufficiente esaminare il lavoro del Parlamento Italiano
nel corso degli ultimi trent’anni).
Nello
stesso tempo la Magistratura ha svolto, come è già stato richiamato all’inizio
di questo intervento, sempre di più funzioni di supplenza al riguardo della
determinazione degli equilibri politici e degli stessi orientamenti
legislativi, intervenendo oltre ai temi già citati addirittura su temi di
diretta pertinenza al riguardo delle fonti stesse di legittimazione delle sedi
legislative: si pensi al tema della legge elettorale.
Inoltre
i confini del potere politico appaiono confusi rispetto a quelli del potere
economico: su questo punto è avvenuto, sempre per restare nell’ambito
dell’Occidente e ancor più in specifico del “caso italiano”, una surrettizia (e
non completata) “cessione di sovranità”.
Uno
spunto di riflessione ulteriore può essere suggerito, a questo punto, da un
aggiornamento d’analisi al riguardo della teoria della “microfisica del potere”
elaborata a suo tempo da Michel Foucault per rispondere proprio
all’evidenziarsi di quella “confusione tra i poteri” cui si è appena accennato.
La
teoria del filosofo francese considera il potere come una risorsa che circola
attraverso un’organizzazione reticolare. Si tratta di un punto sul quale
l’analisi non si è ancora soffermata abbastanza a fondo e che vale la pena
riprendere all’interno di una riflessione dettata dall’attualità di questi
giorni.
Una
riflessione sulla folle corsa che la modernità impone alla ricerca di un
verticismo assoluto nella detenzione del potere, nell’assolutismo dell’io come
essere esaustivo della finalità umana come punto di ricerca dell’assolutismo
politico. Emerge un contrasto evidente, si sente uno stridore terribile proprio
tra questa ricerca della verticalità del potere assoluto e l’orizzontalità
piatta dello scorrere della vita umana.
Un’orizzontalità
perenne, che si perpetua nonostante le deviazioni improvvise che un itinerario
di vita trova strada facendo. Questi frangenti impongono di tornare a
riflettere proprio sull’appiattirsi delle relazioni, sull’impossibilità di
riconoscere un ordine e un comando che appaiono inutili nel loro vano
dimostrarsi. L’orizzontalità dell’essere reclama il collettivo, il “noi”, e
respinge l’io. Il potere non si concentra più al vertice ma si disperde nella
società attraverso gli individui: è la tesi della “inflazione del potere” cui
Luhmann risponde considerandola come fonte dell’ingovernabilità con la teoria
della riduzione del rapporto tra politica e società, e di conseguenza con una
sorta di ritorno a forme “decisionistiche” di tipo quasi assolutiste.
La
presa d’atto, in sostanza, della necessità di un potere sovraordinato rispetto
al venir meno di confini netti tra potere economico, politico, ideologico, tra
poteri costituenti e poteri costituiti oppure ancora tra esecutivo,
legislativo, giudiziario. Sorge però a questo proposito una domanda cruciale:
come potrà costituirsi, nel concreto, questo potere sovraordinato?
Una
possibile risposta può venire proprio dall’analisi dell’attualità del caso
italiano. La risposta può venire dalla finzione, dalla messa in scena di un
potere esclusivamente immaginario esercitato in via personale da un attore
capace di interpretare il flusso degli strumenti mediatici (orientati, tra
l’altro, sempre più verso il consumo individuale di notizie e di fittizi
rapporti sociali e di trasmissione di idee).
Una
nuova concezione del potere: “di finzione” sul piano del pubblico e “privato”
nella concezione, ormai apparentemente egemone, dell’individualismo quale sola
fonte di rapporto verso gli altri.
Su
questa base si sviluppa la crisi della democrazia occidentale e si ridefinisce
proprio il concetto di potere: un terreno tutto da analizzare con grandi
difficoltà che s’incontrano nella capacità di proporre sintesi.
Nota
Per redigere questo testo sono stati consultati: Max
Weber Economia e Società, Milano 1974; Michel Foucault Microfisica
del potere Torino 1977, Niklas Luhmann Potere e complessità
sociale, Milano 1979, Roberto Esposito e Carlo Galli, Enciclopedia del
pensiero politico, Roma-Bari 2005.