di
Franco Astengo
Nicola Zingaretti |
Se
mai ce ne fosse stato bisogno gli episodi di questi giorni rappresentano un
ulteriore disvelamento della natura del PD, della logica del potere che ha
mosso l’intenzione della “vocazione maggioritaria” e della “governabilità”.
Altro
che “la maionese impazzita” richiamata a suo tempo da Massimo D’Alema. La
questione non sta tanto nella “qualità” di vera e propria mostra delle miserie
umane evidenziata dalle intercettazioni riguardanti il giro degli
“aggiustatori” del CSM e delle Procure, con tutto il loro corollario di cene
segrete, turpiloqui, millanterie miranti addirittura a coinvolgere il
Presidente della Repubblica. Il punto sta nella reazione che il PD ha
dimostrato anche in quest’occasione nella quale sotto l’antica spoglia di
consuete malversazioni si delinea una crisi di credibilità della magistratura
che rende ancor più debole il già fragile impianto del sistema politico
italiano mandando in pericolo (più ancora di quanto non lo fosse già qualche
giorno addietro) la democrazia repubblicana. Da notare, inoltre, che al centro
di questa pericolosa dinamica stanno personaggi protagonisti del tentativo, a
suo tempo, di modificare la natura parlamentare della Repubblica attraverso
riforme costituzionali per fortuna respinte dalla maggioranza di elettrici ed
elettori.
La
reazione del PD è sconcertante: si permette al protagonista-principe di questa
vicenda di usare la formula ambigua “dell’autosospendersi” e da notizie
giornalistiche il nuovo segretario sta cercando di fare in modo che una parte
del partito coinvolta oggettivamente in questa vicenda non provochi addirittura
una scissione.
Da
dove deriva questa preoccupazione di Zingaretti? Dal fatto che la corrente di
Lotti controlla anche tanti pezzi di partito sul territorio (citazione testuale
da articoli di giornale nei quali si sottolinea anche la divisione in correnti
del gruppo parlamentare e dell’Assemblea Nazionale).
Compreso
bene? Il timore è quello di perdere pezzi di cordate di potere in giro per
l’Italia: perché di questo si tratta senza nessun accenno all’enormità della
questione che si sta ponendo che, ripetiamo, non è tanto quella dell’intreccio
(già tante volte visto e mai affrontato) tra “questione morale” e “questione
politica” ma della credibilità dell’intero sistema soprattutto sul nodo
delicatissimo della divisione dei poteri.
Calenda,
dal canto suo, non è capace di dire altro che “Riformare il CSM”: anche in
questo caso non si avverte la profondità della situazione, i rischi per la
democrazia, l’alimento ulteriore per l’antipolitica che ormai - in via di
esaurimento la sbornia del M5S - sta sempre di più assumendo i tratti della
cosiddetta “democrazia illiberale”.
I
segnali ci sono tutti e rappresentano i frutti avvelenati della confusione tra
governabilità e gestione del potere e dell’assemblaggio indiscriminato sul
piano dei valori e dei contenuti che inevitabilmente sta dentro all’idea della
“vocazione maggioritaria” e della dismissione del ruolo di “parte” dei partiti
(altro discorso quello della politica delle alleanze, tanto per intenderci).
Il
pericolo riguarda, prima di tutto, la qualità della nostra vita democratica:
sarà il caso di rifletterci prima di tutto a sinistra.