Il daimon alla macchina
per scrivere
di Claudio Zanini
Chiamiamolo daimon
del linguaggio, questo spirito umbratile che ci pervade, ci colma la mente e ci
signoreggia costringendoci a trascrivere parole e immagini che suggerisce.
Di lui scrive James
Hillman, sulle le tracce di Jung:
“Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie
un’immagine, un disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che
ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro.” (1)
Suggestiva ipotesi in cui, tuttavia,
si parla di anima prima della nascita; un concetto ambiguo questo che, a
mio parere, sarebbe da maneggiare con cautela; mi sembra di gran lunga preferibile
ciò che scrive, parecchi anni prima, Giacomo Leopardi nello Zibaldone (1827):
“Io veggo dei corpi che pensano e che sentono. Dico dei corpi;
cioè uomini ed animali (...). Dunque dirò: la materia può pensare e sentire;
pensa e sente.” (2)
Confortati da Leopardi,
possiamo sostenere che il daimon non
sarebbe prima e al di fuori di noi, vale a dire un’entità metafisica, di cui
tutto si può dedurre, ma assai poco resta di certo; bensì è parte profonda della
nostra psiche (inconscio inteso come ne parla qui Leopardi), quindi estensione
di ciò che noi chiamiamo materia e di cui abbiamo limitatissima cognizione. Dunque,
una parte dell’io che è ben presente, tuttavia, sconosciuta e sconfinata; che
non registra la realtà empirica (termine peraltro sfuggente e d’incerta
definizione), poiché per tal compito funziona la nostra parte dell’Ego cosciente;
un io, quindi, che fa parte integrante della nostra personalità. Il daimon
è “quel qualcosa che esiste in ciascuno di noi, che ci rende unici e
irripetibili, e che contrassegna i nostri vissuti e i nostri agiti in modo
irriducibile.” Qui, ancora Hilmann citando Platone, delinea, appunto, il
concetto di personalità.
Ritornando a Leopardi, egli di nuovo afferma
che “noi sentiamo corporalmente il pensiero:
ciascun di noi (…) sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col
suo cervello, come egli sente di vedere co’ suoi occhi, di toccare colle sue
mani.”(3)
Questo sentire corporalmente,
è importante in quanto implica l’intera nostra fisicità confermando l’unità
della persona, e ben s’attaglia a una figura di daimon consustanziale al
nostro essere.
A proposito di un daimon che nasce dal nostro inconscio
più segreto, Franco Romanò (4) cita Garcia Lorca quando afferma che il duende (daimon in spagnolo) è “un potere misterioso”, inspiegabile, che
sorge dall’interno, “nelle più recondite stanze del sangue (…) prossimo alle
profondità dell’inconscio”. A tal proposito Lorca narra un famoso aneddoto che
Romanò riporta e, in sintesi, così dice: La cantaora spagnola Pastora Pavon si esibiva in una taverna di
Cadice. Il suo canto, modulato con sapiente maestria e grande capacità tecnica,
lasciò tutti freddi e indifferenti. Uno di essi sbottò dicendo qualcosa in cui
s’intendeva che tecnica e mestiere non bastavano, che ci voleva qualcosa di
più. La Pavon, sferzata da tali parole, si alzò come una folle, ingoiò un
bicchiere d’acquavite e, stravolgendo la canzone, cantò con la gola riarsa e la
voce rauca, ma con “un duende furioso
e rovente” che conquistò gli spettatori suscitando il loro entusiasmo.
Questo episodio mi ha
richiamato alla mente il momento in cui ho sentito la voce selvaggia del duende: ne L’amor Brujo (L’amore
stregone) di Manuel de Falla, scritto per orchestra e cantaora, su richiesta di Pastora Imperio, famosa danzatrice di
flamenco.
La sensibilità della
poetessa Claudia Azzola individua un’ulteriore aspetto del multiforme daimon, in “un che di mezzo
tra il mortale e l’immortale”, come dice Socrate. Una figura, prosegue Azzola,
che ci chiama e “che dà il senso, il senso nell’urna poetica, del tragico
esistenziale, negato.”(…) Suscita in noi “il senso recondito del fare.” (…) “Il forte e primordiale daimon capisce, prende in mano la situazione e domina parti del sé,
domina la materia grezza, raw material,
incontra l’ombra che si vorrebbe non vedere, il senso astruso della morte. È la
penetrazione nella carne viva della parola.”
(Un’avvertenza, qui giunti,
urgentemente s’impone: l’essere posseduti o pervasi dal nostro daimon
consustanziale - sia esso venuto da un’altrove trascendente, ovvero sia emerso,
come noi riteniamo, da qualche riposto penetrale della nostra coscienza -, non
è condizione sufficiente per produrre alcunché di profondo né d’interessante;
anzi spesso esso genera banali e oscuri guazzabugli. Diffidare, dunque, di chi,
estatico, si proclama posseduto dal daimon. Il daimon folgorante
e geniale si riconosce dai risultati.
Assunta la natura umana
del daimon, si può, quindi, condividere
il concetto paradossale ma fulminante espresso dallo scrittore Philip Dick
quando scrive:
«Diciamo che io sono ispirato a scrivere quello che scrivo da
un’entità creativa al di fuori della mia personalità cosciente. (…) Non c’è
dubbio che in tutta franchezza io non scrivo i miei romanzi nel vero senso
della parola: essi provengono da qualche parte di me che non sono io.» Dick continua, giungendo addirittura ad affermare
paradossalmente che «I miei libri sono falsificazioni. Nessuno li
ha scritti. È stata la dannata macchina da scrivere, è una macchina da scrivere
magica». (5)
Tale macchina stregata è autonoma nel suo agire e mette in discussione
la figura dell’autore quale organizzatore cosciente e razionale di un materiale
che domina e di cui dispone a suo capriccio.
Siamo nell’epoca in cui il soggetto (vedi Beckett) smarrisce la propria
individualità, scomponendosi e frantumandosi nel mondo. Nell’operazione di
dissolvimento di questa figura demiurgica, Michel Foucault, sostiene che: «L’autore,
o ciò che ho provato a descrivere come la funzione/autore, è probabilmente
soltanto una delle specificazioni possibili della funzione/soggetto»
«Si può immaginare (scrive ancora Foucault) una cultura dove i discorsi circolerebbero e
sarebbero ricevuti senza che la funzione/autore apparisse mai. Tutti i
discorsi, qualunque sia il loro statuto, la loro forma, il loro valore e
qualunque sia il trattamento che si fa loro subire, si svolgerebbero
nell’anonimato del mormorio».(6)
Si potrebbe ipotizzare il ready
made (l’oggetto trovato delle Avanguardie Storiche, di cui oggi si
fa eccessivo e banale abuso. Per esempio il marchio pubblicitario “trovato”
agli inizi da Warhol, che forse si rifà ai collage Dada); dunque, si può
pensare il ready made quale spia e immediato segnale del bisbiglio anonimo
di un’epoca.
A questo mormorio collettivo (di
cui tutti inconsciamente abbiamo sensibilità più che intelletto) in cui la
figura dell’autore sfuma ai margini d’un più vasto scenario complessivo, non è
fuorviante accostare il concetto di Kunstwollen (7), elaborato dallo storico dell’arte
Erwin Panofsky (amico e collega del filosofo Cassirer); Kunstwollen, cioè il volere artistico vigente, il quale nasce dalla
visione del mondo dell’epoca ed è assunto
quale ispiratore di un periodo artistico (emblematico il titolo della sua opera
più nota: La prospettiva come forma
simbolica, che potrebbe riassumere l’intero Rinascimento). Kunstwollen, ovvero territorio in cui il
daimon scorrazza e di cui approfitta;
ne scopre i confini e, nel migliore dei casi, li viola oltrepassandoli verso
nuovi orizzonti.
Un daimon, dunque, che stimola, ispira
alla funzione/autore l’elaborazione
dei materiali della realtà (empirica e “spirituale”) come spunto per dare nuova
forma allo sconfinato mondo che il suo io cosciente intuisce ma non vede, per
esprimerlo in potenti “falsificazioni”, formidabili macchine teatrali
dell’immaginazione, “maschere” in grado di lavorare per “rendere visibili” quei
significati su cui il pensiero umano si è da sempre arrovellato.
Intravediamo, dunque,
un daimon che si esprime
obliquamente, parla per immagini ed elabora finzioni; il suo non è un discorso
razionalmente critico, il sogno potrebbe essere una sua specifica modalità di
comunicazione.
Abbiamo appena
accennato allo stimolante concetto di falsificazione
nell’agire artistico; a tal riguardo, facciamo attenzione ai versi di Ferdinando Pessoa:
“Il poeta è
un fingitore./ Finge così
completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero
sente.”
Versi sibillini che mi hanno
suscitato un’osservazione guardando la scultura delle Tre grazie di Antonio Canova. Questi ha dovuto fingere, nel marmo, la pressione delle dita sulla carne, per
rappresentare un corpo più vero di quello reale. Noi, vedendo il cedere della
carne sotto il tocco dei polpastrelli, immaginiamo una carne viva; la realtà
più autentica, dunque, non può che essere rivelata nella finzione.
A proposito di finzione
quale sostanza e artificio dell’opera estetica, si può pensare al teatro, che mette in scena la realtà; finge, cioè,
un accadimento per rivelarne i meccanismi più segreti, basta pensare a
Shakespeare; mentre la grande arte barocca
della Controriforma dimostra, per esempio, nei suoi esiti migliori, nell’estrema
finzione dei suoi scenari l’ineludibile contraddizione tra vita e morte.
(Borromini e la figura della Merope in Parlare
a Gwinda, di Claudia Azzola) Si può essere d’accordo con Nietzsche, quando
dice: “Tutto ciò che è profondo ama la maschera”, e in essa si rivela,
aggiungiamo noi.
Il concetto di
“finzione” richiama anche il distacco dell’artista dall’opera una volta
compiuta, poiché egli sa, “sente” che è finzione; e il controllo finale sulla
materia linguistica che, insieme al coinvolgimento emotivo e alla sorpresa per
ciò che di nuovo e inedito appare - quei fogli scritti che la magica macchina
di Philip Dick ha prodotto - denotano il fare artistico.
A proposito di ciò cui
l’opera si riferisce, permetto di citarmi:
“Io non dipingo ciò che vedo. Neppure ciò che penso, poiché il pensiero
dovrebbe venire prima, (ma prima è qualcosa di molto diverso). Neanche ciò che
so, o credo di sapere, perché quando dipingo comincio a sapere quello che sto
dipingendo mentre lo faccio. Forse dipingo quello che vedrò, quello che penserò
e saprò una volta finito il quadro.” (C.Z. Il servizio Mason’s)
René Magritte sa
perfettamente che la pipa dipinta non è la pipa reale (infatti lo scrive: Ceci n’est pas une pipe!), ma neppure la
pipa reale è il referente; il referente è l’enigmatica finzione del linguaggio
pittorico.
Tra l’altro, neanche lo
storico dell’arte Ernst Gombrich, in Arte
e illusione (1957)(8) identifica come referente dell’opera artistica la
realtà empirica quanto il linguaggio figurativo delle opere precedenti (il
susseguirsi delle finzioni). Attenzione, questo riferirsi alla storia dell’arte
non vuol dire negare il continuo corpo a corpo che l’artista ingaggia con il
brutale apparire della realtà empirica, con la sua opaca quotidianità e le sue
catastrofi.
Paul Klee, infine,
scrive che “L’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile” e “l’arte (…)
si finge situazioni più ricche (…)”(9)
poiché, aggiunge Merlau Ponty, esiste una “visibilità dell’invisibile”.
Una notazione. È forse
questo invisibile (più ricco e
complesso, ma in fermento incessante, tanto da costituire una costante e implicita
critica del presente, dell’empirico quotidiano) a essere sgradito a tanta cosiddetta
arte attuale? Forse perché l’invisibile
è irrimediabilmente opposto alle categorie dell’omologazione?
Oggi, a mio parere, nella dispersione e molteplicità dei codici (figurativi,
letterari, musicali, ecc.) funzionali al consenso globalizzato, alla narrazione
si è sostituito l’aneddoto, l’episodio, la trovata eclatante. Non il linguaggio
ma la lingua dei copy “da dépliant turistico (…) Anzi, stile da baccalà, così
stirato, secco, essiccato” (come scrive Bargellini) oppure il balbettio, spesso supponente e fastidioso
di una critica estenuata. A tal proposito, commenta
Massimo Recalcati, oggi, nell’epoca cosiddetta postmoderna, alla natura
verticale della sublimazione (che affonda nella storia e con gran travaglio la
trasforma) si sostituisce quella orizzontale della desublimazione materialista.
Non ci s’immerge più nella complessità della storia ma si celebra l’attimo
decontestualizzato. Non si lavora più all’icona “alta” ma alla celebrazione
della “bassa” materia del presente. L’opera deve coincidere con l’azione
dell’artista, con la banalità luccicante della sua vita squadernata
clamorosamente dai media. L’oggetto, l’opera, spariscono; prolifera
l’incessante narrazione delle sue spiegazioni
Nella produzione dell’icona
“alta”, lo scarto tra la finzione che rende
visibile, e la pretesa mimesi del reale empirico, del puro visibile,
nell’icona “bassa”, avviene nel linguaggio.
Per dare visibilità
all’invisibile è necessaria una
scrittura in grado di farsi carico della storia per affrontarla. Allo stesso
modo, per avere una “macchina da scrivere magica, che scrive finzioni” essa
deve poter rovistare entro un serbatoio linguistico (che qui chiamiamo per
comodità madrelingua) pressoché
illimitato che, tuttavia, permette un’elaborazione
“forte”, coerente e complessa.
Questo è il territorio dove il daimon
dovrebbe scorrazzare con felice ebbrezza, rapinare i materiali più ricchi e farli
propri.
Il linguaggio ha il compito di sovrapporsi alla realtà empirica (proprio
in quanto è altro, estraneo rispetto
ad essa); lavora nello scarto che da essa lo divide, “non ne dà nessuna
spiegazione, anzi le rimanda il riflesso conferendole un senso” (Mariano
Bargellini); cerca disperatamente di
riempirlo; finge, nello spazio di
tale scarto, altri mondi.
È un potente sistema di
“simulazione” in cui è riflessa la concezione dei rapporti tra gli esseri e gli
oggetti (10), che istituisce una dialettica tra ordine dato e sua violazione; trasgredisce
un ordine (e un codice vigente) acquisito e consolidato, trasformando l’esistente e introiettando
elementi inediti, estranei, perturbanti, “perversi” (Roland Barthes, nell’accezione di diverso dalla normalità, deviato rispetto al senso comune). Assorbe potenza
dalle sue radici per diventare narrazione stratificata, verticale, densa e
complessa. Nella storia si originano le grandi fratture, i rovesciamenti
decisivi e liberatori, non al di fuori di essa.
Un’ulteriore e ultima riflessione feconda di stimoli è suscitata dall’intendere
lo scarto come rifiuto. Rifiuto nel senso di cui parla W. Benjamin, vale a dire
quello che il mondo vuole ignorare:
il micrologico, l’insignificante, il marginale, il superfluo. Attenzione e conoscenza
devono, oggi, rivolgersi soprattutto verso “ciò che è rimasto per via: ai prodotti
di scarto e ai punti ciechi che sono sfuggiti alla dialettica della (storia);
all’essenza del vinto, il quale appare “nella sua impotenza, inessenziale e ridicolo”
(11) e, in quanto non riducibile alle logiche del globalizzazione neoliberista,
pericoloso e da cancellare.
“L'arte è pura interrogazione, una domanda retorica senza la retorica”
scrive Beckett negli anni ’30. Deve affermare l’indicibile,
testimoniare l’enigma incessante su cui costantemente ci s’interroga. Quell’epifania che dilegua non
appena si volge lo sguardo, ma di cui si ha una costante e segreta nostalgia.
Note
1) James
Hillman, Il codice dell’anima, Adelphi,
(1997)
2) Giacomo
Leopardi, Zib. 4252
3) Ibid.
Zib. 4289
4) Franco Romanò, La bottiglia di Klein (pag.127/28), in Das unheimliche nella
Letteratura - Costruzioni Psicoanalitiche a. XIV n. 27/2014
5) Philip K. Dick, L’esegesi, Fanucci
Editore (2016)
6) Michel
Foucault, «Che cos’è un autore?», in Scritti letterari, Feltrinelli,
Saggi
UE 2010. Il testo di Dick e quello di
Foucault sono tratti dall’articolo Autore…
chi? di Giuliano Spagnul
sul Blog di Daniele Barbieri La bottega del Barbieri,
21.02.2017
7) Erwin
Panofsky in La prospettiva come forma
simbolica (1927)
8) Ernst
Gombrich, in Arte e illusione (1957)
9)
Paul Klee, in Confessione
creatrice, (1920)
10) Jurji M. Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia (1972)
11) Theodor W. Adorno, Minima Moralia, Einaudi (1954)