di Franco Astengo
Il sistema politico italiano attraversa una
fase di vera e propria “crisi verticale”, caratterizzata dall’assenza di
rappresentatività complessiva dei soggetti che lo compongono e dalla presenza
di fortissime tensioni autoritarie collocate ben oltre il concetto di
“democrazia esecutiva e/o illiberale” oggi in auge in diverse parti d’Europa. La testimonianza migliore di questa difficoltà è rappresentata dalla
presenza italiana come quella della Lega nell’attrezzarsi di un’alleanza di
estrema destra in vista delle elezioni di maggio per il Parlamento di
Strasburgo.
Nel frattempo è scoppiato il caso della cosiddetta “autonomia
differenziata” richiesta da alcune regioni italiane, governate sia dalla stessa
Lega sia dal PD.
Un altro segnale di contraddizione stridente e di crisi.
La settimana appena trascorsa è stata caratterizzata da un forte dibattito
su questo tema: al momento i tre disegni di legge che avrebbero dovuto recepire
la bozza d’intesa nel merito sono stati bloccati, a causa di forti divisioni
all’interno della compagine di governo.
Nel corso della discussione si è posto però il problema della natura
costituzionale del provvedimento. Chi scrive ha cercato nei giorni scorsi di
affrontare questo punto delicatissimo attraverso un minimo di ricostruzione
storica partendo dall’esplicitazione del concetto di “decentramento
amministrativo” così come elaborato nel corso dei lavori dell’Assemblea
Costituente.
Adesso però è il caso di affrontare più direttamente il punto politico,
partendo proprio da una valutazione della già richiamata gravissima crisi
istituzionale che sta presentandosi all’interno del sistema politico italiano,
sia sul fronte – appunto – dell’assetto interno, sia della politica estera. In
questo secondo caso, quello relativo alla politica estera, ci troviamo
addirittura in una situazione di “supplenza” esercitata dallo stesso Presidente
della Repubblica (tema da affrontare anche perché ci troviamo di fronte
all’ennesimo tornante di una trasformazione di ruolo del Presidente della
Repubblica rispetto a quello previsto dai dettami della Carta Costituzionale).
All’interno di questo quadro di grandissima difficoltà si distingue un vero
e proprio “buco nero” rappresentato dal fallimento dell’ipotesi di
decentramento dello Stato imperniato sull’Ente Regione che oggi è affrontato
esattamente alla rovescia rispetto a ciò che servirebbe proprio dalle Regioni
economicamente e socialmente più forti.
E’ già stato ricordato come la nascita delle Regioni, prevista nella
Costituzione e poi fortemente richiesta dalle sinistre, in particolare nella
fase del primo centrosinistra negli anni’60, e fortemente ritardata dalla DC
per timore che il Partito Comunista dimostrasse, in quel modo, la propria
capacità di governo fu realizzata soltanto all’inizio degli anni’70 (diversa
ovviamente la storia delle Regioni a Statuto Speciale): le prime elezioni per i
Consigli Regionali si svolsero, infatti, il 7 Giugno del 1970.
Gli elementi portanti della crisi attuale sono sorti, principalmente, nel
corso della legislatura 1996-2001 con il centrosinistra al governo del Paese,
attraverso l’adozione di due provvedimenti rivelatisi del tutto esiziali:
l’elezione diretta del Presidente (da allora denominato da una stampa di basso
profilo come Governatore) e il cedimento alle istanze “storiche” della Lega
Nord attraverso la modifica (tecnicamente sbagliata e approvata dalla sola
maggioranza) del titolo V della Costituzione realizzando così una sorta di né
carne, né pesce tra decentramento e devolution.
La forte spinta che la Lega Nord aveva portato fin dalla fine degli anni’80
prima sul terreno della “secessione” e dell’indipendenza e poi della
“devolution” aveva così portato la sinistra, in particolare quella ex-PCI, a
tradire la propria solida tradizione autonomistica che pure, negli anni’70 del
XX secolo, alla guida delle più grandi città aveva dato prova di “buon
governo”.
Una fase di vero e proprio cedimento e subalternità culturale chiusasi con
l’affrettato cambiamento del titolo V della Costituzione (2001), preceduto
appunto dalla modifica del sistema elettorale.
L’elezione diretta del Presidente della Regione e la modifica del titolo V
della Costituzione hanno rappresentato gli elementi portanti di un fenomeno di
tipo degenerativo che oggi si presenta in tutta la sua gravità: quello della
trasformazione dell’Ente Regione dalla funzione legislativa e di coordinamento
amministrativo a soggetto esclusivamente adibito a compiti di nomina e di
spesa.
L’elezione diretta del Presidente di Regione ha, infatti, finalizzato per
intero l’attività dell’Ente al progetto di rielezione dell’uscente oppure di un
suo delfino favorendo l’elargizione a pioggia delle risorse, distribuendo le
nomine per vie neppure partitiche ma di corrente o di “cerchio magico”,
esaltando la logica di scambio all’interno stesso dell’Ente. Hanno poi fatto
registrare un fallimento clamoroso quei comparti affidati per intero alla
gestione regionale: in particolare la sanità e i trasporti e adesso si starebbe
cercando di far passare la competenza esclusiva su di un altro pezzo
fondamentale come quello dell’istruzione pubblica. Si è elevato alla massima
potenza il deficit, i servizi sono paurosamente calati di qualità, il
clientelismo (in particolare nella sanità) è stato elevato vieppiù a sistema. Fattori
non esclusivamente legati alla conduzione delle Regioni hanno inoltre
determinato un ulteriore allargamento delle disuguaglianze sociali in diverse
parti del Paese ed è questo un punto d’intervento politico completamente
trascurato e che si sta pensando di risolvere, per quanto riguarda la
situazione del Sud, con un rilancio in grande stile dell’assistenzialismo. Le
Regioni sono assolutamente da ripensare in quanto Enti. Un ripensamento che non
può certo verificarsi sul piano semplicisticamente propagandistico della
cosiddetta “autonomia differenziata”.
L’Ente Regione rappresenta un vero e proprio “buco nero” nella crisi del
sistema politico italiano ricordando anche che è rimasto in piedi il valore
costituzionale delle Province confermato da un largo voto popolare che ne ha
bocciata la riforma nell’ambito del (fallito) progetto di revisione
costituzionale del PD (R).