E DELLA SUA POESIA
di Vincenzo
Guarracino
Cesare Ruffato |
Può
capitare, in una civiltà subissata di notizie e di informazioni, fino al limite
della bulimia, di non distinguere più il grano dal loglio, di non riuscire più
a soppesare, di prestare attenzione. E così la morte di un autore autentico, di
un poeta vero, passare inosservata. Vincenzo Guarracino supplisce a questa “svista
mediatica” e ce ne ricorda il valore.
Ruffato, ben prima ancora che Cesare, era per me un volto
su una copertina, quella di Trasparenze luminose (1987), da cui mi ingegnavo
di indovinare, come talora impropriamente si fa di fronte a un’opera, qualcosa
del carattere e della qualità umana e intellettuale dell’autore, coniugandolo
con ciò che di lui arguivo avendone già letto qualche libro (Minusgrafie,
1978, e Parola bambola, 1983) assieme a non poca buona critica al
riguardo.
Un volto su una copertina,
dicevo: mi colpiva in quel suo volto scavato la ruga severa in contrasto con i
capelli leggermente mossi e ondulati e l’amabile, ironico sorriso,
l’occhio rivolto nel profilo a un orizzonte indefinito e luminoso, a un
fantasma forse di bellezza e gentilezza posto oltre la cortina della curiosità
e dell’indifferenza dell’osservatore. In quel gioco di contrasti, intuivo un
animo sperimentato e definito nei tratti di una saggezza antica serenamente
esposta anche al vento più impietoso della vita (quello che lo aveva già
pesantemente colpito e che avrebbe anche in seguito continuato a flagellarlo
con pervicace crudeltà negli affetti più cari). Mi importava di meno la sua poesia,
che forse allora non capivo ancora abbastanza, anche se non mi dispiaceva nei
suoi versi la plurima e inquieta verbalità della sua lingua poetica, la strana
commistione di "meraviglia" e scienza, che indovinavo venirgli dalla
sua quotidiana pratica professionale di docente universitario e che conferiva
un sapore particolare, ben diverso da quello di qualsiasi altra scrittura
poetica contemporanea (compresa quella zanzottiana, segnata da una forte
ipoteca simbolista e debitrice nei confronti della tradizione lirica).
Dicevo, una scrittura dal
sapore particolare, per quel suo saper accostare e "ascoltare ciò che non
ha corpo e che pur s’affaccia, per varchi e fessure, sulla scena della
parola", come acutamente puntualizzava Enrico Testa nella sua prefazione a
Trasparenze luminose, col risultato di dar vita ad un corposo idioletto
che fatalmente faceva già allora intuire i suoi sviluppi in direzione di un experimentum
di fusione, a livello formale, tra linguaggio scientifico-tecnologico e materna
lingua pavana sapidamente reiventata al fuoco di una grande passione
espressiva, e a livello contenutistico nell’accettazione e orchestrazione dei
temi più diversi (esistenziali, lirici, sociali, civili, narrativi) nel continuum
di un alveo poematico, governato dal tentativo insistito e ossessivo di
nominare e dare un volto al vuoto che divide parole e cose, dietro il quale si
indovina una forte istanza di senso, nella convinzione dichiarata già nel primo
segmento di Musaico, testo iniziale di
Trasparenze luminose, che comunque “a forza di dire si
riesce a cavare/qualche divinità dai buchi”.È, questa, un’esperienza, da
Ruffato stesso poi definita "risveglio bioritmico dialettale" (cfr.A.
Serrao, 1999, p.31) e progressivamente realizzata con alchemica capacità reinventiva nello spazio di un ventennio in quelle che
costituiscono a mio parere le sue prove più alte, tra Etica declive (1996)
e Sinopsìe (2002), prima del recentissimo Il poeta pallido
(2005), al punto di meritargli da parte di Gianni Giolo (1999, 16) l’appellativo
tutt’altro che retorico ed esornativo di "Dante del dialetto veneto",
reinvenzione e mescolanza su cui (si licet…) io stesso, nel mio piccolo,
avevo fidato e scommesso nel pensare a lui come al miglior traduttore delle Sortes
patavinae, testi anonimi accolti nella mia antologia dei Poeti latini (Bompiani
1993), e successivamente delle ricette in versi
del Liber medicinalis del medico del III-IV sec. d.C. Sereno
Sammonico, poi pubblicate presso UTET (1996).
Quando più tardi, in anni
recenti, oltre che un volto, è diventato anche una voce ed ho imparato
amicalmente a conoscere la sua storia di uomo e di poeta: direttamente da lui,
indirettamente dai suoi libri: ho capito che forse era vera quella prima
impressione: che la sua tensione verso un incollocabile perturbante, verso
un’“ontologia delle assenze”, era ansia di scavare attraverso un’attivazione di
sentimenti e valori un “senso” nel "vuoto desiderante" della vita,
come dice in quella prova necessaria e oltremodo significativa che è Poema
per Chieti (2001): la volontà di captare e auscultare, come il poeta latino
Lucrezio intento a “invigilare noctes serenas”, nello “stellìo caduco
notturno” della nostra lingua (in Verdi ricordi), portandolo “sulla
scena della parola”, ancora un’essenziale “effervescenza di sapere”, a dispetto
del silenzio e dell’avvolgente tenebra circostante. Come dire l’esperienza di
una comunione di pensiero e poesia, per esorcizzare attraverso “cascate di
scrittura” (ancora in Poema per Chieti) il rischio del disfacimento dell’orizzonte
gnoseologico nel segno di una poesia interrogante quale è quella del poeta
antico, e al tempo una risposta conveniente e non evasiva a una situazione
storica di disagio e disarmonia, in un momento di ripensamento di valori e
obiettivi (individuali ma più ancora collettivi): una vera e propria
“professione di fede nella realtà” e al tempo stesso “un’endoscopia di essa”,
giusto come l’aveva definita Gianfranco Folena (Lessico e stile della poesia
di C.R., in “Otto/Novecento”, 1992, n.43-44, p.305).
“L’essere è per certo
vertigine/indelebile presenza bianca disputa/ai margini del tutto non ha pace”:
c’è, in questo segmento della chiusa di una lassa de La giusta ricreazione
(contenuta nella raccolta Etica declive del ‘96), come un’idea di
disfacimento, di scivolamento, di progressivo inabissamento, prima di
un’improvvisa finale riemersione, segnata nell’ictus piano e calmo della
clausola “non ha pace”. Le dramatis personae, gli “agenti” tematici e
stilistici della poetica di Ruffato qui si esaltano in un’essenziale verifica
testuale, disputandosi la scena della pagina per farvi agire un sentimento
della vita e della scrittura chiaramente sbilanciato in direzione della
negatività, dell’inconclusione e della metamorfosi incessante, a dispetto
dell’apparente quieta diffrazione sensoriale. Quali siano questi agenti è
facile intuirlo: è la sclerosi della vita, mineralizzata e cosificata,
in un linguaggio astratto, alieno da presenze attive e vive, e ciononostante
inquietato e internamente sommosso da una velenosa vis agonistica, da un
rifrangersi di echi e scie colloquiali, distribuite prima o dopo il lacerto in
questione; è l’ordine rigoroso, ossessivo, che omogeneizza e aggioga il senso
alla metrica, altrove triturando le parole per ridurle a puri, qui disponendo
un sapiente gioco consonantico, al fine di orchestrare allegoricamente una
mimetica rappresentazione del grottesco della vita sotto specie oniricamente
verbale. Certo, nel caso specifico del prelievo, il furore decostruttivo e
sperimentale ha placato la sua oltranza per lasciare il campo ad una sorta di
“rifondazione” del senso, ad un’ansia lucreziana di “riscrittura” delle cose e
del cosmo attraverso il linguaggio, sguardo insieme retorico e fonetico
sorpreso dagli enigmi di un pensiero che insegue un “senso altrove”. Non è
cambiato il deserto spettrale della scena, il vuoto di uomini ed eventi, ma in
esso, rispetto al passato, si è insinuato qualcosa che pare sempre attendere e
al tempo stesso temere (“comprimere”, dice a p.14) una scoperta essenziale, una
sorta di “miracolo” montaliano in cui tutto si scopra coincidente col nulla
di un riconoscimento inappellabile, in un continuo gioco di “divenire e
dissolversi”. È dentro queste coordinate che prende corpo e fiorisce
l’autentica “rifondazione” dell’ultima poesia ruffatiana che scopre una nuova,
autentica “felicità” nella lingua materna alle soglie di una tappa importante
della sua vita. “Nel sesto decennio/el me xe spanìo da vero sincero/smissià del
precordio e pression/el me ninanana anca nel troto/roto senile, el me liga al
concreto/cavandone i selegati sensa sigarme/par sgorbi de acenti e
ortografia/nel volerlo maridare co la lengua/matricolada…” È un lungo lacerto,
questo dal programmatico Dialetto, tratto da Diavoleria (1993) e
ora raccolto in Scribendi licentia, che dice a mo’ di elegiaco Tristia
il difficile periplo operato dall’autore alla conquista e definizione della
sua cifra poetica più forte ed essenziale. Oltre (e contro) una lingua
“matricolada”, oltre la polvere e il deserto di troppi libri, nella stanchezza
e tristezza della carne, ecco “sbocciare” all’improvviso la “lengua” di un
fecondo scontento che come investe e stravolge l’esistente più abituale e
quotidiano, così riannoda i fili con un mondo rimosso e sotterraneo, tellurico,
di valori, al ritmo di una struggente “ninanana”, di una “parola fiaba”
improvvisamente riaffiorata, nel senso più etimologico del termine, dal “bitume
del progresso escaroso” (Parola fiaba, un Parola pìrola, 1990),
dal Gran Ciarpame che oscura e ammorba ogni anelito di verità e di speranza:
tra indignatio e nostalgia, la “lengua materna” riconquista dignità e
autorevolezza viaggiando “da le vissere a la metafora”, dall’urgenza più
profonda a un’impietosa e franca formalizzazione, incurante “de acenti e
ortografia” per raggiungere “un tesoro de luce fogo acqua aria” e far emergere
un mondo “de fede e emossion”, nella cui sostanza geroglifica si inscrivono
“license e libertà” altrove soltanto intraviste e sognate. A misurare
l’importanza di un simile acquisto, conseguito a costo di assalti e sabotaggi
della lingua “patria” con conseguente impressionante accumulo e collasso di
detriti (un autentico “maremoto metalinguistico”, secondo la definizione di
Luigi Fontanella), valga il carico di distanza e amarezza rivelato
dall’aggettivo “matricolada” che della lingua egemone tradisce una visione
nient’affatto rassicurante e positiva con tutto ciò che comporta di ambiguo e
truffaldino, quasi a dire che è soltanto nell’alone disegnato dall’“eco de la
vose materna” inscritto nel dialetto che è possibile trovare risarcimento e
risposte alle grandi inquietudini di un oggi sempre più vuoto e stralunato,
alle insidie e alle aggressioni di un sistema (quello linguistico del “talian
ufficiale”) che conculca e omogeneizza le differenze, svenando vampirescamente
coscienze e storie d’ogni risorsa sentimentale e fantastica. È sull’impulso di
tale “vose” che nasce e s’afferma, dalle rovine della retorica, una nuova
retorica, consistente nel disporsi con l’orecchio e col cuore accosto alla vita
coi suoi flussi e i suoi spinosi ritmi per intravedere una qualche redenzione e
salvezza, ritrovando nella pietas della lingua un senso al Gran Vuoto
letargico della cosiddetta “civiltà”. Solo sfidando (e sfibrando) il gioco
lessicale e sintattico della lingua “patria” (una lingua “rompibale” e
castratrice) riemerge il “tesoro pulviscolare” (in Etica declive) della prima
lingua, quella agita da una “scarga placentare” potentissima, che non ha
bisogno dei galatei della letteratura per cavare dai precordi i segreti più
gelosi e dar loro corpo in una forma scevra di indulgenze simboliche e
simboliste, fino a proporsi come una lavica colata di suoni, come una
“secrezione di linguaggio”, sulla scena di un Vuoto, che è il vuoto di un mondo
contrassegnato da un’oggettiva perdita di orizzonte e di senso. Spazio della
concretezza e insieme del desiderio, dunque, questa “lengua”, spazio in cui
diventa concreto il sogno e al tempo stesso si sfilaccia e diventa sfuggente
“el concreto”, in un gioco di interminabili spostamenti e condensazioni, come
si addice alle dinamiche dell’inconscio che si fa scrittura. “Allampanata
pallida figura/sguardo scavato nell’orizzonte/degli eventi d’una eterna
gioia/di bellezza a rinascere sentimenti/impronte profonde
d’irripetibili/emozioni d’un presente inesistente/d’un tempo nulla immenso”:
nel margine estremo di Sinopsìe (Marsilio 2002), alle soglie
convenzionali di un silenzio comunque aperto ed eloquente, perché disponibile a
essere forzato e invaso da sempre nuove occasioni e suggestioni, da venti ed
“eventi d’una eterna gioia” rinata nel segno di una memoria di “bellezza”, il
poeta leva il suo sguardo a un nuovo “orizzonte”, a nuove prospettive di
lucidità e saggezza, affioranti già nei suoi libri precedenti (e penso
soprattutto a Poema a Chieti) approdate ormai finalmente a più evidente
consapevolezza. Con l’intrepida fierezza di chi la sua difficile battaglia
esistenziale continua a combatterla, nonostante tutto, giorno per giorno, con
dialettica determinazione. Come sottrarsi alla suggestione di quello “sguardo
scavato nell’orizzonte”, che sembra riecheggiare un’immagine celeberrima del
Leopardi più eroico e rassegnato dell’ultima stagione esistenziale e poetica,
quello di Amore e Morte (“erta la fronte, armato / e renitente al
fato”), proteso a non cedere al male, fissando fieramente in faccia il suo
destino?
Un’esigenza etica e civile,
insomma, la coscienza di dover assolvere un compito essenziale, liberando la
lingua della poesia da ogni rumore di fondo per restituirla nuda e palpitante
alla sua verità testimoniale, al miracolo della sua epifanica sapienzialità nel
mondo dell’insensatezza, quella stessa che Ruffato ora dichiara con forza nella
nuova raccolta, Il poeta pallido, da poco uscita da Marsilio. “La realtà
ipocrita callida/è una metafora di vita/da meditare e depurare”, dice nel primo
testo della sezione che dà il titolo al libro e senti in quei due verbi,
“meditare” e “depurare”, un vero e proprio manifesto di poetica (e di vita),
un’urgenza morale, per così dire, manzoniana (è possibile sottrarsi al ricordo
del celebre “sentire e meditar”, dell’Ode in morte di Carlo Imbonati del
"quadrilustre vate" milanese?), come di uno compreso della necessità
di capire ad ogni costo per affrontare il mondo (la "realtà
ipocrita", nella perdita di ogni fede) con le armi di una fiera
intelligenza, grazie alla quale portare un contributo per la propria parte alla
“costruzione dei mondi” possibili (in Fulminea la psiche), a un progetto
cioè di trasformazione civile e culturale della realtà circostante, a partire
da quella più direttamente fisica delle “molecole semplici/e perspicaci” (in La
vita proviene forse) e dei “tegumenti del creato” (in Dinnanzi alla
tavola di Haechel) e addirittura fisiologica (la “gravità/ insostenibile
del corpo”, in L’accenno a una flessione) per arrivare alle strutture
più intime e sofferenti della “lega umana effimera” (in Viene voglia talora).
“Una metafora di vita/da meditare e depurare”: nella trionfante “vanità di
gruppo” del nostro oggi (in Hai ragione su molte cose) di “crisi
economica e di ghiottona/politica” (in In crisi economica e di ghiottona),
in cui tra “gelidi kalashnikov e bombe umane” (in Viene voglia talora)
si sconta una perdita progressiva di “grazia” (in L’eleganza delle mani)
e l’annichilarsi soprattutto nei giovani di ogni vitalità (in Hai ragione su
molte), il poeta con “il pudore del dolore” (in Fulminea la psiche)
fa intorno a sé il silenzio per ripiegarsi in una “complessa introspezione” e
sulla scorta di “meridiane acute della mente” (in Distaccati dal vissuto)
trae, come l’antico poeta ex praecordiis, la forza lucida e serena di un
verso di tenerezza o di sdegno, che rifiutandosi di “appartenere al ritratto” o
“all’occasione” (in Nella statua ti nascondi), a uno sguardo cioè
mimetico e superficiale sulle cose, vive assorto “nel midollo del passato” (in Restiamo
una scelta), nella fedeltà a un mondo di valori eterni e non degradabili:
giusto come l’archetipo foscoliano del poeta, da cui alla raccolta derivano
spiriti e titolo, l’Alfieri cioè del carme Dei Sepolcri, con sul
volto “il pallor della morte e la speranza” (v.195).
È entro queste coordinate,
tra istanze etiche e sociali, tra “sguardo del desiderio” (in Gli uccelli
stravaganti) e “pena per la verità” (in I pargoli ci vengono), che
si inscrive, in questo libro più che nei precedenti, l’esposizione del poeta
alla “grazia della notte” (in I sensi frammentano), la pacificata attesa
cioè di quella necessaria resa dei conti con la vita segnata nell’ordine delle
cose e cui mente e cuore tendono in un “fiume di emozioni” (in Orpelli le
bollicine), in un misto di sentimenti contrastanti, tra “nodi e
fughe” (in Attendo le pupille), tra timore, accettazione e trepidante
“speranza”, come ad un “impercettibile avvio” (in Mi ripeto costante). È
la morte, il "cuore cordis della morte" (in Anche il silenzio
della morte), vista come “conforto e richiamo” (in Il candelabrum
eloquentiae), il tema che occupa insistentemente tutto il libro e soprattutto
l’ultima sezione, Tot es niens, contrappuntando con la sua presenza “i
riflessi del pensiero verbale” ruffatiano fino a costituirsi come “lirico
finale” (in L’oriolo della morte), come palingenetica attesa oltre i
“libri loculi di lettere” (in La parola affanna) e la “chiasmatica
sabbia” delle parole, lasciando in conclusione emergere, attraverso il profilo
dell’“agonica/figura del Cristo in croce” (in Fiamma cigno airone),
l’auspicio di “sparire/nel suo odore nella scia della sua/resurrezione” che è
desiderio e certezza di ogni credente.
***
Vedo le luci dell’altra riva
avvicinarsi lente sulle acque
e sento il loro tremare nel mio sangue.
Questa notte è solo parole
che varcano sponde.
Le membra sono ulivi
la bocca è una valle le mani un vento.
II mondo non sa il mio segreto
ma tu conosci i miei approdi.
Il tuo volto esce dall’acqua
soave come un’onda.
Preghiamo il tempo
che ci porti lontano.
1962
(Da: Tempo senza nome)
Cesare
Ruffato, è nato nel 1924 a Padova, dove è morto il 23 novembre del 2018.