di Mila Fiorentini
Bernardino De Bernardis |
Conversazione con
l'attore e regista napoletano
Bernardino De Bernardis.
Di
immigrazione e clandestinità si parla quotidianamente e spesso si
sparla: nemmeno Sanremo ne è stato risparmiato. Sul piccolo e grande
schermo l’argomento è ormai uno dei temi delle sceneggiature. Da
qualche tempo anche il teatro si è fatto avanti, forse su questo
fronte con qualche ritardo. Abbiamo incontrato il regista, autore del
testo e interprete della pièce
Immigrati brava gente
con l’occasione che, dopo una stagione a Roma al teatro dei Servi e
a Milano al Martinitt, torna in scena nella Capitale (al Teatro
Marconi dal 28 febbraio al 10 marzo prossimi), per parlare del ruolo
del palcoscenico su questo argomento e dell’interazione con il
pubblico. Sul tema immigrazione e clandestinità, tra l’altro, il
teatro mi pare si sia mosso in ritardo rispetto ad altri mezzi di
comunicazione.
D.
Nella società ‘mediatizzata’, dove quasi tutto è apparenza e
comunicazione, pena non esistere, sempre più condizionata dallo
schermo del computer in un’esposizione e rappresentazione costante
virtuale, qual
è il ruolo del teatro?
R.
“La forza del teatro, ancor più oggi di ieri, è proprio quella di
offrire l’opportunità di una condivisione vera e non virtuale che
garantisca ancora un sincero processo di socializzazione sempre più
minato dall’era dei social.
Il teatro, a differenza di tutte le altre forme d’arte, ha come
peculiarità quella di necessitare della co-presenza hic
et nunc di chi “usufruisce”
dell’evento e di chi lo “fornisce”; questa co-presenza fa sì
che l’evento si trasformi in un rito in cui il ruolo tra spettatore
e attore per certi versi si confonde e si sovrappone diventando
un’unica entità al servizio dell’emozione.”
D. Il
tuo pubblico da chi è costituito principalmente? In particolare mi
piacerebbe capire se i bambini vanno a teatro, come andavano nella
Grecia antica o se c’è una barriera tra le fasce di età.
R. “È un problema principalmente culturale: i bambini vanno se
trovano genitori sensibili che intuiscono l’importanza del teatro,
soprattutto per la loro corretta crescita emotiva; il fatto che
sempre più il laboratorio teatrale venga concepito come strumento
didattico da inserire organicamente nei percorsi formativi scolastici
è la dimostrazione di quanto sia importante per i bambini avere un
rapporto sano con le proprie emozioni; ritengo che il teatro sia
rimasto l’unico baluardo contro l’imperante imperversare di
realtà virtuali di socializzazione in cui le emozioni sono sempre
frutto di filtri che alterano la veridicità dei rapporti, in questo
il teatro, pur essendo paradossalmente tra le più antiche forme
d’arte, si proporne come strumento tra i più trasgressivi,
rivoluzionari e innovativi.”
D. Com’è
cambiato il clima sull’argomento da quando hai deciso di scrivere
questo testo a oggi che torni in scena?
R. Il
clima è cambiato anche in ragione del contesto politico che nel
frattempo si è delineato in Italia; pur non volendo entrare in
questioni strettamente politiche, ritengo che, pur comprendendo
l’oggettiva difficoltà di coniugare l’ineludibile impegno a
garantire l’aiuto a persone innocenti che hanno l’unica colpa di
essere nate in paesi in guerra e in gravi difficoltà economiche con
la legittima tutela alla sicurezza delle singole nazioni che li
accolgono, la soluzione non può essere quella di alzare muri
indiscriminatamente senza porsi il problema di quelle che sono le
cause che determinano i flussi migratori; così come ritengo che il
problema non possa essere considerato una questione esclusivamente
italiana. Il teatro, a mio parere, ha il compito di rappresentare la
vita in tutti gli aspetti sollevando domande più che dando risposte,
mantenendo vigile la coscienza.”
D.
L’interazione che una rappresentazione teatrale determina, come del
resto un concerto, non coinvolge solo il pubblico ma anche gli
attori. Hai
pensato di impiegare attori di origine straniera a raccontare le
vicende di integrazione, clandestinità e immigrazione?
R.
“Non ho un’esperienza
acquisita da regista in tal senso anche se mi alletta molto perché
ho lavorato come attore, allievo del Master
di 1° livello di Teatro nel Sociale e Drammaterapia presso
Università La Sapienza, con persone di provenienze diverse, ad
esempio dei rifugiati. Si tratta di un incontro molto stimolante sia
a livello emozionale i percorso psicologico personale, sia di
arricchimento dei linguaggi del corpo e verbali, oltre che di
contenuti, per lo spettacolo.”
D.
In
qualche modo com’è accaduto portando il teatro in carcere,
potrebbe diventare una fonte di catarsi?
R.
“Ogni forma d’arte è per
definizione catartica, ma il teatro proprio per la sua peculiarità
riesce più delle altre a creare le condizioni, sia per l’attore
sia per lo spettatore, ideali per proiettare e quindi esorcizzare le
emozioni su elementi neutrali come un personaggio permettendo a tutti
di vedere da una prospettiva forse più obiettiva il tema
affrontato.”
D.
Com’è
nata l’idea di affrontare l’argomento nella tua scrittura?
R.
“Direi che il primo spunto
lo ebbi in occasione di uno spettacolo teatrale che affrontava il
tema dell’immigrazione: l’idea era cercare di presentare un
argomento particolarmente delicato in chiave brillante senza però
sminuirlo o peggio ridicolizzandolo. In tal senso la tradizione della
commedia all’italiana, che ci ha reso famosi in tutto il mondo, ci
ha aiutato a coniugare il senso della tragedia con la forma della
commedia creando un genere unico di grande impatto emotivo.”
Una scena dello spettacolo |
D.
Nella tua commedia la scelta
linguistica cade sul dialetto. Il teatro come la vita pone la lingua
come ponte o barriera di comunicazione. In questo senso
la
scelta dialettale mima una lingua ‘straniera’? Facilita o
complica la comunicazione?
R.
“Il dialetto in genere reputo sia il linguaggio del cuore;
un’emozione ha più facilità ad essere espressa nel linguaggio che
ha caratterizzato il proprio substrato culturale e familiare. Nel
caso specifico penso che il dialetto, qualsiasi esso sia, è un po’
la carta d’identità culturale di un luogo. Da una prima
valutazione questo potrebbe sembrare un limite nell’ottica di un
confronto inclusivo, invece ritengo che sia l’opposto, proprio
perché essendo la carta d’identità di un luogo, ne evidenzia
anche tutte le sue influenze e contaminazioni che nel corso degli
anni si sono stratificate. Da questo punto di vista, il dialetto
napoletano è colmo di richiami ad altre esperienze linguistiche
frutto di dominazioni succedutesi nei secoli e in questo si possono
trovare anche molte opportunità drammaturgiche in fase di scrittura,
un chiasmo di culture mediterranee.”
D.
Napoli è tra l’altro una città mediterranea singolare dove lo
spettacolo, la commedia in teatro e la musica hanno un’importanza
clamorosa e ‘paradossalmente’ una grande universalità.
Oggi
come si vive questa tradizione nella città?
R.
“Napoli è una città che
nelle sue mille contraddizioni vive forse più di altre già nelle
sue viscere il confronto con le diversità in genere e le paure che
questo comporta; tuttavia alle mille contraddizioni contrappone i
mille culur
come il grande Pino Daniele cantava in quello che è forse il
manifesto in canzone di una intera città. L’auspicio è che da
questi mille colori possa emergere un affresco di armonia nel
rispetto reciproco delle diversità.”
D.
Su
che linea pensi di lavorare prossimamente?
R.“Ho
qualcosa su cui sto ragionando da un po', mi piacerebbe indagare
quanto si è veramente liberi nelle scelte della nostra vita e quanto
il confine tra il bene e il male a volte sia talmente labile che
possa essere inconsapevolmente superato marchiandoti per il resto
della nostra esistenza.”
La locandina dello spettacolo |