(NEL
QUADRO EUROPEO)
di
Franco Astengo
Mentre
i governi italiani, nel corso di questi anni, hanno oscillato tra le
mance degli 80 euro , gli incentivi alla precarietà come job act e
“decreto dignità”, la conservazione della disoccupazione e la
promozione del lavoro nero attraverso il reddito di cittadinanza, i
dati che seguono rappresentano il nodo vero non tanto e non solo
della situazione italiana, ma anche di quella europea.
Nel
frattempo si intensificano, oltre alla già citata precarietà, lo
sfruttamento attraverso una gigantesca operazione a livello globale
di ulteriore creazione di “eserciti di riserva” realizzati
attraverso le guerre e le conseguenti fughe di masse di disperati.
Questi
i dati schematicamente riassunti:
Produzione
industriale italiana in crisi nera,
per un calo tendenziale pari a -5,5%.
I dati Istat diffusi
oggi spiegano che la produzione industriale a dicembre scorso è
diminuita dello 0,8% rispetto al mese precedente, per quella che è
la quarta contrazione consecutiva e per il dato più basso degli
ultimi 4 anni, contro una crescita del 3,6% del 2017.
Su
base annua invece il ribasso della produzione industriale è del
5,5%, il calo tendenziale più consistente da dicembre del 2012.
Sempre su base annua il dato grezzo registra una flessione del 2,5%.
L’Istat rileva che la dinamica in atto nel settore manifatturiero
in Italia è simile a quanto sta accadendo in Germania, la cui economia si avvia verso una fase recessiva.
La
situazione italiana può essere, ancora una volta schematizzata in
relazione alla nostra storia industriale dal dopoguerra in avanti. Si
tratta di argomentazioni già sostenute in varie sedi ma mai come in
questo caso “repetita juvant”. Il punto di partenza non può che
essere quello degli anni’70: la fase dello “scambio
politico”, attraverso l’operazione “privatizzazioni”
realizzate in funzione clientelare rispetto alla politica. Negli
anni’80 le compensazioni delle perdite avvennero a spese dei
contribuenti (ricordate i BOT a 3 mesi?) con la relativa esplosione
del debito pubblico e all’inizio degli anni’90, finiti i soldi
dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti, quando
l’UE impose di trasformare l’IRI in S.p.a. L’esito più grave
della fase dello “scambio politico” infatti, si
realizzò in una condizione di totale assenza di un piano industriale
per il Paese, mentre stavano verificandosi almeno quattro fenomeni
concomitanti:
1)
L’imporsi di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed
economia verificatosi al di fuori di qualsiasi regola e sfuggendo a
qualsiasi ipotesi di programmazione;
2) La
perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di
vista della produzione industriale: siderurgia, chimica,
elettromeccanica, elettronica. Quei settori dei quali a Genova si
diceva con orgoglio “ produciamo cose che l’indomani non si
trovano al supermercato”;
3) A
fianco della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava
nel tempo il mancato aggancio dell’industria italiana ai processi
più avanzati d’innovazione tecnologica. Anzi si sono persi settori
nevralgici in quella dimensione dove pure, si pensi all’elettronica,
ci si era collocati all’avanguardia. Determinante sotto
quest’aspetto la defaillance progressiva dell’Università con la
conseguente “fuga dei cervelli” a livello strategico. Un fattore
questo della progressiva incapacità dell’Università italiana di
fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese
assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi;
4) Si
segnalano infine due elementi tra loro intrecciati: la progressiva
obsolescenza delle principali infrastrutture, in particolare le
ferrovie ma anche autostrade e porti e un utilizzo del suolo avvenuto
soltanto in funzione speculativa, in molti casi scambiando la
deindustrializzazione con la speculazione edilizia e incidendo
moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio.
5) La
totale acquiescenza sia ai meccanismi imposti dall’Unione Europea
in ossequio ai trattati e la conseguente subalternità ai processi di
globalizzazione e di nuova dimensione dello scambio a livello
internazionale.
Sono
questi riassunti in una dimensione molto schematica i punti che
dovrebbero essere affrontati all’interno di quell’dea di
riprogrammazione e intervento pubblico in economia completamente
abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi. Sarà
soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si
potrà tornare a parlare d’intervento e gestione pubblica
dell’economia: obiettivo, però, che una sinistra rinnovata
dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di apparire
“controcorrente”. La stessa questione del “deficit spending”
andrebbe affrontata in questa dimensione, al contrario di quanto
stanno facendo gli attuali partner di governo.
Nel
quadro di una resa ai meccanismi perversi di quella che è stata
definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di
finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza
di una visione industriale hanno pesato in maniera esiziale sulle
prospettive dell’economia italiana.
I
risultati di questi giorni ci indicano ancora una volta ci si sta
muovendo in direzione osticamente contraria, recuperando il “peggio”
degli anni passati: dall’assistenzialismo, alla subordinazione
delle scelte al clientelismo elettorale arrivato, proprio in
occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a codificare su scala di
massa il “voto di scambio”,come pure era già avvenuto su scala
numericamente più modesta negli anni scorsi:ricordando “meno tasse
per Totti” e il solito “milione di posti di lavoro”. Ma forse,
da questo punto di vista, ci trovavamo ancor in una fase artigianale
e il peggio deve ancora arrivare.