di Gabriele Scaramuzza
Con questa intervista a Gaia Varon e Nicola Pedone, del filosofo Gabriele
Scaramuzza, “Odissea” approfondisce la recente rappresentazione di Attila con cui il Teatro alla Scala ha
aperto la sua stagione musicale.
Gabriele Scaramuzza - Ho visto Attila, ma solo alla televisione. La mia impressione personale è
stata positiva, in generale. Il mezzo
televisivo mostra da vicino dettagli che a teatro sfuggono; perde l’insieme
però, e il senso della presenza viva della visione diretta. A voi vorrei
chiedere innanzitutto di descriverci quali sono i tratti caratterizzanti di
questa rappresentazione che ha inaugurato la stagione scaligera 1919.
Nicola Pedone - Il regista Davide Livermore ha
voluto ambientare Attila in un
Novecento non ulteriormente specificato (“distopico” per usare la sua
espressione), in cui vediamo subito fronteggiarsi un esercito di occupazione e
un popolo che vi si oppone. I riferimenti cinematografici, caratteristici in
Livermore, rimandano qui a Visconti e soprattutto a Rossellini, di cui mi è
sembrata evidente in apertura una citazione da Roma città aperta. L’inizio è davvero emozionante, epico, di grande
impatto: soldati occupanti, tentativi di resistenza, fucilazioni in piazza.
Sembrerebbe facile a questo punto distinguere i buoni dai cattivi e schierarsi
di conseguenza. Ma le cose non stanno così; e non stanno così perché l’Attila sfugge secondo me a una simile
contrapposizione manichea. Con chi dovrebbe identificarsi l’ascoltatore? Per
chi provare simpatia? Chi sono i “buoni”? Odabella, nevroticamente dominata da
una fissazione vendicativa? Ezio, che propone al vincitore un compromesso per
spartirsi il potere, prototipo dell’italiano pronto al tradimento? Foresto,
profilo di patriota velleitario quanto scialbo? Ecco allora giganteggiare via
via la figura di Attila, che si presenta sì come un conquistatore sanguinario,
ma si rivela poi uomo capace di innamorarsi, di riconoscere il valore
dell’avversario e finanche di perdonarlo. È lui il protagonista, il “title
role”, sua la superiorità morale su tutti gli altri. Anche se ciò porta a quel
“corto circuito di campi valoriali” di cui ha parlato Emilio Sala nella diretta
radiofonica su Radio3. Ora, tenere insieme, registicamente, questi aspetti
complessi e persino contraddittori non deve essere facile. La mia impressione è
che con il procedere della vicenda, con il regredire sullo sfondo della “grande
storia” per lasciar emergere quella dei personaggi, la regia abbia talvolta
faticato a mantenere una coerenza narrativa, finendo per mettere in scena
citazioni pittoriche (l’incontro tra papa Leone e Attila, da Raffaello) e
cinematografiche (Il portiere di notte della Cavani, per esempio) con
grande eleganza e opulenza di mezzi, ma forse minore efficacia rispetto
all’inizio.
Gaia Varon - La produzione di Attila firmata da Davide Livermore è
indubbiamente ‘spettacolare’: teatralmente efficace, densa di spunti, stimoli,
sollecitazioni. Livermore è uomo di teatro, che ha esplorato da prospettive
differenti (è, o è stato, oltre che regista, cantante, attore, ballerino,
direttore di scena, scenografo e light designer), e porta con sé un’autentica
sapienza della macchina teatrale. Io non ho visto la ripresa televisiva, ma
posso figurarmi che abbia saputo non solo dare conto, ma anche valorizzare la
ricchezza di dettagli dello spettacolo. Ciò che presumo ne sia invece,
necessariamente, andato perso nel passaggio allo schermo è il gioco di
interazione fra linguaggi: l’uso innovativo ed efficace del video (dell’agenzia
d-Wok) messo in un serrato e costante dialogo con la scenografia imponente di
Giò Forma, ma ancor più con l’intrico di rimandi fra ciò che si concretizzava
sul palcoscenico e il nostro immaginario legato allo schermo. Nell’Attila di Livermore erano molti i
richiami al cinema, da Rossellini a Visconti: ritrovandoli su un altro schermo
si perde quell’attimo di stupore, di piccola gioia quasi bambinesca che si
prova vedendo animarsi con cantanti/attori in carne e ossa una scena che
avevamo conosciuto attraverso una proiezione, viene meno la rottura del
diaframma che, per quanto immersiva possa essere l’esperienza cinematografica,
separa al cinema spettatore e azione rappresentata, il brivido del collasso fra
due sistemi mediali storicamente distinti. La capacità di gestire con
impeccabile controllo il molteplice di linguaggi nell’uno del palcoscenico
operistico è, secondo me, il vero talento di Davide Livermore, la
consapevolezza, senz’altro per intuizione artistica e probabilmente anche per
lucidità intellettuale, di quanto oggi l’esperienza d’opera sia multimediale e
crossmediale, di come la tecnologia non si limiti a contenere, a incrementare o
prolungare, ma interagisca e trasformi e in ciò riveli la nostra
contemporaneità ormai, come suggerisce Ruggero Eugeni, postmediale.
Mi è parso
invece problematico lo spostamento della vicenda in un Novecento che non
risultava “distopico” come promesso, bensì fin troppo identificabile col
nazismo. Forse la mia difficoltà nasceva dall’eccessiva prossimità, ma
senz’altro anche da ragioni più esplicitamente politiche, dato che la
collocazione del Tamerlano di Händel
nella, anch’essa non dichiarata ma identificabile, Russia comunista operata da
Livermore per la produzione scaligera di due anni fa mi era parsa efficace e
convincente. Ora, è vero che tanto l’eroe del titolo quanto le sue vicende
storiche appartengono a un orizzonte geografico e temporale per me più distante
che non quelli di Attila, e che il
linguaggio musicale di Händel non produce l’avvicinamento emotivo che è
centrale nella drammaturgia verdiana, ma credo che il mio disappunto in questa
produzione abbia piuttosto a che fare con la scelta di evocare proprio il
nazismo. Per quanto lo scivolamento in dittatura e negli orrori che essa
inevitabilmente comporta sia sempre un male, personalmente non appartengo a
quanti equiparano i catastrofici regimi del secolo scorso: continuo a
giudicarne uno, il comunismo, come disastrosa risposta a un’ideale aspirazione
a giustizia e progresso, e l’altro, il nazismo appunto, come realizzazione di
una negatività assoluta e irredimibile. Il nucleo dell’Attila verdiano però, come lo stesso Livermore ha sottolineato
nelle sue dichiarazioni d’intenti, sta nello svelamento della rettitudine
dell’eroe “negativo”, messa in risalto anche nel confronto con ciò che appare come
l’opportunismo di chi incarna l’Italia invasa, ossia il generale romano Ezio.
Se la traduzione teatrale di questo tratto italico, da parte di Livermore, era
evidente e comprensibile, non risultava chiaro invece, almeno per me, come
dovesse leggersi l’intenzione registica riguardo ad Attila come esponente e
guida del regime irredimibile, una rappresentazione che portata alle estreme
conseguenze condurrebbe a estendere al nazismo quella rivalutazione che nella
drammaturgia verdiana riguarda solo il protagonista, non la sua etnia e
politica. Forse l’abbondanza di riferimenti a disposizione e l’efficacia del
loro uso nel suo teatro multi- e cross-mediale ha finito col produrre
un’associazione fra Attila e il nazismo oltre le intenzioni di Livermore, che infatti
nell’ultimo atto la lascia cadere, lasciandone però così irrisolta la presenza
nei due atti precedenti.
G.S. - La mia impressione di profano è
che in Attila non manchino momenti
alti, ma soprattutto che esistano spunti buoni, ma che non vengano adeguatamente
sfruttati, vengano come sprecati. Massimo Mila - in un suo libro edito di
recente, ma il cui contenuto risale a un corso di mezzo secolo fa - annovera Attila tra le opere “brutte” di Verdi.
Cosa ne pensate, a prescindere dalle rappresentazioni che di quest’opera si
sono date, o si possono dare?
N.P.
- Anche per me ci sono in Attila
momenti molto alti e momenti in cui si avverte lo sforzo, non sempre riuscito,
di superare le convenzioni dell’epoca per approdare a soluzioni originali. Tra
le pagine migliori metterei senz’altro il Preludio, anche se Mila la pensa
diversamente e si chiede perché mai Verdi abbia scritto una pagina così “fine”
e dagli “accenti dolenti” per introdurre un’opera tanto truce. La risposta sta
forse nelle contraddizioni di cui si diceva prima. Tornando al libro di Mila,
che raccoglie il corso dell’anno accademico 1963-64, va forse ricordato che ai
tempi Mila era preoccupato per una sorta di snobismo di ritorno che aveva
investito Verdi. L’Italia della cultura, questo in sintesi il ragionamento di
Mila, aveva amato Verdi appassionatamente per poi allontanarsene a un certo
punto, quasi vergognandosi “del suo passato operistico come di un’eredità
borbonica” (cito testualmente). Da questa repulsione si salvavano a mala pena
le opere della vecchiaia, Otello e Falstaff. Poi, sulla scorta della
Verdi-Renaissance nata in Germania negli Anni Venti, c’era stato in Italia un
ritorno a Verdi che, come spesso avviene nelle mode culturali, rischiava di
diventare un’esaltazione acritica di tutto Verdi, dalla prima all’ultima nota.
A riparazione quasi del disprezzo precedente, la tendenza era quella di
magnificare gli aspetti più “incolti e primitivi” del primo Verdi, quasi
fossero la cifra più autentica del genio verdiano. Ecco, Mila reagisce a tutto
ciò mettendosi di buona lena al pianoforte con i suoi studenti (allora non
c’era l’abbondanza di incisioni di cui disponiamo oggi) per analizzare sullo
spartito, battuta per battuta, le opere “brutte” di Verdi. E questo è stato un
contributo fondamentale da un punto di vista critico anche se, ripeto, si può
dissentire da alcune singole valutazioni.
G.V. - Senza “snobismi di ritorno”, io
amo profondamente il primo Verdi. Non credo che l’autentico genio verdiano si
manifesti più lì che altrove, ma neppure viceversa: l’evoluzione del linguaggio
è manifesta, se si considerano le opere in successione; semplicemente, non sono
convinta - siamo in molti, del resto - che in musica il ‘progresso’ sia di per
sé miglioramento e tendo a vedere e ascoltare ogni opera per se stessa, a
cercare le coerenze di sistema che ciascuna opera istituisce, sia pure in
maniera provvisoria. L’impressione che provo alla lettura di ciò che ha scritto
sulle “opere brutte” e sull’Attila, è
che Mila, che pure le mette in fila e le inserisce in un itinerario di
progresso come miglioramento, cogliesse, con un’acutezza rara, esattamente
l’essenza della specifica invenzione della singola opera verdiana.
G. Scaramuzza. - Uno sguardo ai personaggi
G.V. - I quattro personaggi principali di
Attila hanno un tratto comune, una
duplicità che è anche, come in tanti altre figure dell’opera verdiana, il
nucleo del loro sviluppo drammatico e musicale. Che Attila sia il protagonista
lo dice, più del titolo, proprio la sua evoluzione nel corso dell’opera, quel
progressivo emergere e maturare di un lato umano imprevedibile, se non
addirittura inconciliabile, rispetto all’efferatezza con cui si presenta
inizialmente. Verdi offre solo pochi appigli per salvare Ezio e Foresto dal
finire appiattiti l’uno nella doppiezza di un proditorio opportunismo, l’altro
in un’incertezza incolore. Per Odabella la situazione è più complessa. Mila
descrive splendidamente l’ingresso nell’opera della «vergine guerriera smaniosa
di vendetta», il cui virtuosismo vocale si identifica «con l’eroismo del
carattere», la «fiera amazzone, che unico personaggio femminile dell’opera, è
il più virile di tutti» e come in seguito, nel I atto, acquisti «una dimensione
più intima e affettuosa», ma racconta come limite dell’invenzione verdiana la
«poca lena» del Terzetto dell’ultimo atto in cui «il fenomeno dell’incendio
musicale, la passione che divampa in melodia, praticamente non si produce, o
per lo meno, l’incendio si spegne sul nascere». Il teporino senza fiamma di
Odabella per Foresto ricorda però quello di Donna Anna per Don Ottavio, al
quale infatti infine lei si sottrae: semplicemente la passione è altrove.
Vietata, e dunque negata, perché rivolta all’uccisore del padre. Moderna
Giuditta, come spesso è stata descritta, Odabella agisce l’omicidio riparatore
e con ciò salva la patria, ma, ad ascoltare la musica di Verdi, sia masochismo
o lucidità, solo Attila fa ardere in lei la fiamma che Foresto non accende mai.
Senza scavare nel dissidio interiore di quell’attrazione ambigua e colpevole,
per l’affondo nella psicologia del personaggio Livermore si affidava ancora a
un dispositivo della macchina spettacolare: un filmato della scena in cui,
davanti a Odabella bambina, Attila uccide il padre, un filmato dalla presenza
ossessionante e insanabile come una scena primaria. I padri verdiani, suggeriva
Nicola Pedone, incombono anche nell’assenza!