Drammatico crollo dell’industria italiana
di Franco Astengo
Riprendiamo i dati dall’articolo di Claudio Conti
apparso su Contropiano.
Ogni
qual volta i dati ISTAT segnaleranno il progressivo disastro dell’industria
italiana sarà il caso di rammentare ragioni e cause di questa situazione
denunciando come da molto tempo non si ravveda volontà di affrontare la
questione: errori di impostazione complessiva, pericolosa tendenza
all’assistenzialismo propagandistico, deficit tecnologico strutturale,
insostenibili squilibri territoriali.
Il peggior crollo
produttivo dell’industria italiana dal 2009, quando stramazzò “soltanto” del
-5%.
“Il fatturato totale
diminuisce infatti “in termini tendenziali” (ossia considerando un anno) del
-7,3%, con un calo del -7,5% sul mercato interno e del -7,0% su quello estero.
Una conferma, oltretutto di due condizioni strutturali entrambe negative: a) il
mercato interno non è in grado di assorbire la produzione per via dei bassi
salari e dell’elevata disoccupazione, b) i mercati stranieri non “trainano”
più, e quindi paghiamo pesantemente l’aver accettato di trasformare buona parte
della nostra attività industriale in “produzione conto terzi” per le filiere
tedesche, tutte orientate all’esportazione. Filiere che oggi pagano anche loro
l’austerità imposta tramite l’Unione Europea (tutto il mercato interno
continentale soffre alla stessa maniera) e i primi danni della guerra
commerciale di tutti contro tutti aperta con il passaggio - causato da una
crisi ultradecennale - dalla “globalizzazione” alla competizione globale.
I dati Istat pubblicati
stamattina dovrebbero costringere tutti a rivedere le proprie idee - pregiudizi
indotti, in realtà - su come funziona l’economia sotto il segno dell’ordoliberismo mercantilista di matrice
teutonica. Ma non avverrà. Più semplice prendersela con la coglionaggine del
governo di turno (che in effetti non ci sta capendo molto) o, come in modo
inaudito continua a fare Confindustria, con il “costo del lavoro troppo alto”
(siamo già arrivati al lavoro gratuito, che cavolo voglio ancora?).
Più in dettaglio. A
dicembre 2018 il fatturato dell’industria è diminuito “in termini
congiunturali” (cioè rispetto al mese precedente) del 3,5%. Nel quarto
trimestre l’indice complessivo ha registrato un calo dell’1,6% rispetto al
trimestre precedente.
Ma la situazione non è
affatto passeggera. Se guardiamo infatti agli ordinativi, la produzione dei
prossimi mesi, si registra una diminuzione sia rispetto al mese precedente
(-1,8%), sia nel complesso del quarto trimestre rispetto al precedente (-2,0%).
Anche qui, il calo mensile
del fatturato riguarda sia il mercato interno (-2,7%) sia, in misura più
accentuata, quello estero (-4,7%). Peggio ancora per l’immediato futuro: la
flessione degli ordinativi è infatti la sintesi di un incremento delle commesse
provenienti dal mercato interno (+2,5%) e di una fortissima contrazione di
quelle provenienti dall’estero (-7,4%). Chi aveva puntato solo sulle
esportazioni (tutto il sistema industriale italiano) si trova oggi sull’orlo
dell’abisso.
Non c’è peraltro un solo
settore in controtendenza. A dicembre tutti i raggruppamenti principali di
industrie segnano una variazione mensile negativa: -1,8% i beni di consumo,
-5,5% i beni strumentali, -1,7% i beni intermedi e addirittura -9,7% l’energia.
Sempre con riferimento al
fatturato annuale, tutti i principali settori di attività economica registrano
cali tendenziali drammatici. I più giganteschi riguardano i mezzi di trasporto
(-23,6%), l’industria farmaceutica (-13,0%) e l’industria chimica (-8,5%).”
Ecco il seguito per non
dimenticare: il nostro moderno “Delenda Carthago”
Si è discusso molto in
questi mesi d’intervento pubblico in economia e alcuni hanno proprio accennato
alla ricostituzione di un soggetto tipo – IRI, all’interno del quale
concentrare le risorse di una rinnovata iniziativa pubblica in grado di avviare
una ripresa di capacità industriale del Paese.
Rammentato il quadro
generale nel quale ci stiamo muovendo caratterizzato dai vincoli europei, dall’enormità
del debito pubblico e dalla presenza di un governo che da un lato si muove sul
terreno dell’assistenzialismo (reddito di cittadinanza) e di una nuova ondata
di privatizzazioni (cioè in pieno regime di confusione) è il caso di riprendere
alcuni di questi temi.
La storia dell’IRI nelle
sue tre fasi: dal 1933 l’istituzione voluta dal fascismo (affidandone però le
sorti a un manager socialista come Beneduce) per reazione alla grande crisi del
’29 e per salvare le banche nazionali; nell’immediato dopoguerra quando l’ente
fu mantenuto in vita e non sciolto (com’era stato deciso anche all’ENI e al
CONI, prima posti in liquidazione e poi ricostituiti) per realizzare le
infrastrutture indispensabili per uscire dal disastro della guerra. Così l’IRI
gestì autostrade, telecomunicazioni, mezzi di trasporto terrestri, aerei e
navali, sistemi di difesa, materiali da costruzione (cemento, acciaio) e
credito (banche).
Poi dagli anni’70 la fase
dello “scambio politico”, attraverso l’acquisizione d’imprese private realizzate
in funzione clientelare rispetto alla politica.
Negli anni’80 le
compensazioni delle perdite avvennero a spese dei contribuenti (ricordate i Bot
a 3 mesi?) con la relativa esplosione del debito pubblico e all’inizio degli
anni’90, finiti i soldi dello Stato, dichiarati incostituzionali i prestiti,
l’UE imposte di trasformare l’IRI in S.p.a.
Fin qui il Bignami ma è
necessario toccare il punto di maggior interesse al riguardo del quale proprio
oggi è necessario recuperare non soltanto una capacità riflessione ma anche di
proposta e d’iniziativa politica.
La fase dello “scambio
politico” infatti, si attuò in una condizione di totale assenza di un piano
industriale per il Paese, mentre stavano verificandosi almeno quattro fenomeni
concomitanti:
1) L’imporsi
di uno squilibrio nel rapporto tra finanza ed economia verificatosi al di fuori
di qualsiasi regola e sfuggendo a qualsiasi ipotesi di programmazione;
2) La
perdita da parte dell’Italia dei settori nevralgici dal punto di vista della
produzione industriale: siderurgia, chimica, elettromeccanica, elettronica.
Quei settori dei quali a Genova si diceva con orgoglio “produciamo cose che
l’indomani non si trovano al supermercato”;
3) A fianco
della crescita esponenziale del debito pubblico si collocava nel tempo il
mancato aggancio dell’industria italiana ai processi più avanzati d’innovazione
tecnologica. Anzi si sono persi settori nevralgici in quella dimensione dove
pure, si pensi all’elettronica, ci si era collocati all’avanguardia.
Determinante sotto quest’aspetto la defaillance
progressiva dell’Università con la conseguente “fuga dei cervelli” a livello
strategico. Un fattore questo della progressiva incapacità dell’Università
italiana di fornire un contributo all’evoluzione tecnologica del Paese
assolutamente decisivo per leggere correttamente la crisi;
4) Si
segnalano infine due elementi tra loro intrecciati: la progressiva obsolescenza
delle principali infrastrutture, in particolare le ferrovie ma anche autostrade
e porti e un utilizzo del suolo avvenuto soltanto in funzione speculativa, in
molti casi scambiando la deindustrializzazione con la speculazione edilizia e
incidendo moltissimo sulla fragilità strutturale del territorio. Un discorso di
programmazione affatto diverso, beninteso, dal semplicistico “sblocco delle
grandi opere”.
Sono questi riassunti in
una dimensione molto schematica i punti che dovrebbero essere affrontati
all’interno di quell’idea di riprogrammazione e intervento pubblico in economia
completamente abbandonata dai tempi della “Milano da Bere” fino ad oggi. Sarà
soltanto misurandoci su di un’idea di progetto complessivo che si potrà tornare
a parlare d’intervento e gestione pubblica dell’economia: obiettivo, però, che
una sinistra rinnovata dovrebbe porre all’attenzione generale senza tema di
apparire “controcorrente”. La stessa questione del “deficit spending” andrebbe
affrontata in questa dimensione. Nel quadro di una resa ai meccanismi perversi
di quella che è stata definita “globalizzazione” e dei processi dirompenti di
finanziarizzazione dell’economia, “scambio politico” e assenza di una visione
industriale è avvenuto il tracollo della presenza industriale in Italia.
Come abbiamo ricordato e
qui ripetiamo: Oggi ancora una volta ci si sta muovendo in direzione
osticamente contraria, recuperando il “peggio” degli anni passati:
dall’assistenzialismo, alla subordinazione delle scelte al clientelismo
elettorale arrivato, proprio in occasione delle elezioni del 4 marzo 2018, a
codificare su scala di massa il “voto di scambio”, come pure era già avvenuto
su scala numericamente più modesta negli anni scorsi: ricordando “meno tasse
per Totti” e il solito “milione di posti di lavoro” oltre all’elargizione degli
80 euro. Forse, da questo punto di vista, ci trovavamo ancor in una fase
artigianale. Oggi verrebbe da scrivere che siamo ben infilati dentro il tunnel.