Dialogo con Fabietti
di
Fulvio Papi
Ugo Fabietti |
L’ultimo
numero della rivista “Antropologia”
(n.1/2019) porta per titolo “Per caso e per sagacia. Dialoghi con Ugo Fabietti”.
È una testimonianza ricca, colta, intelligente, che mostra quanto ampia e
raffinata sia stata l’area di lavoro culturale e di insegnamento di Ugo, tale
da investire la ricerca antropologica di giovani e meno giovani. Il titolo
forse va spiegato. La ricerca antropologica si trova per lo più in questa
circostanza: la sagacia è indispensabile perché, detto con un linguaggio un
poco astrale è l’atteggiamento proprio della morale epistemologica. L’oggetto
individuato, quali che siano le più diverse ragioni, deve essere esplorato in
tutte le sue forme relazionali, solo così è possibile una conoscenza. Eppure
questa sagacia e l’Ethos che la alimenta possono non riuscire a raggiungere il risultato
pieno. In questo spazio residuo si può manifestare la rivelazione del caso: una
conoscenza che non ha organizzato in uno spazio concluso, ma si mostra, al
contrario, come una scoperta inattesa e tuttavia importante a livello del
sapere, lo compone, lo riorganizza o può, addirittura aprire una fessura di
crisi. Forse sono riuscito a descrivere l’anima con cui l’antropologo deve
affrontare il suo campo, e questo animus non è una solitaria e doverosa
intenzione, ma una disciplina teorica, il costume della ricerca che appartiene
alla comunità scientifica, e, proprio in quanto tale, è un oggetto di dialogo,
una reciproca interrogazione. Il dialogo non appartiene al gioco linguistico
delle interpretazioni, ma può nascere solo dall’esperienza stessa, ed è dal
raffronto dei risultati raggiunti sul campo e dal “come” della loro
possibilità. Il dialogo antropologico avviene sul terreno del fare, non su
quello della contesa dei significati di cui, se mai, è una parte. Questa
prospettiva in “Antropologia” si apre
ad una straordinaria quantità di ricerche che mostrano l’apertura intellettuale
di Ugo, la sua capacità di stimolare le energie intellettuali e di aiutare piani
così differenti di ricerca. Un filosofo percepisce questi contributi come una
lezione sulle differenze del mondo che devono agire sulla trama filosofica
quando essa rischia di semplificare il suo comprendere in un gioco linguistico.
Né tuttavia s’inquieta il filosofo, poiché sa che si può certo parlare di
verità filosofica, ma come un compito che traduce in un lessico
“trascendentale” la pluralità di dimensioni culturali, del resto sempre in
trasformazione: un sapere degli orizzonti simbolici: così la matematica, gli
orizzonti estetici, le problematiche morali, le realtà economiche e le loro
conseguenze sociali. Provate a pensare merce e scambio nella nostra civiltà
senza elaborare i concetti necessari, o in altra dimensione antropologica,
usare i medesimi concetti. È la chiusura del mondo del comprendere. Ugo
conosceva molto bene il problema di queste distinzioni concettuali che devono
aderire a “un mondo”, e la sua attenzione alla storia dell’antropologia mi pare
proprio derivasse dalla conoscenza delle figure intellettuali che, nel loro
“conflitto” aprivano scenari antropologici differenti. Ed è dalla storia
dell’antropologia dai meriti e dai sospetti che essa provoca, che deriva lo
spazio agibile, la fiducia nel proprio produrre sapere antropologico. E qui
interveniva un certo contributo decisivo: la considerazione storica di una
condizione di cultura. La lezione della storia rendeva più facilmente
comprensibili le conseguenze del proprio metodo di lavoro. Ugo non amava le
teorie totalizzanti: è nella stessa pluralità che è inevitabile l’intreccio
delle vicende storiche, l’equilibrio specifico tra questi elementi non è
materia di alcun manuale, ma fa parte del proprio essere antropologico, la
propria personale (e in parte autobiografica) “ontologia regionale”. Per questo
l’insegnamento è più difficile, mentre la mimesi educativa fondamentale. Sono
elementi che ho individuato (come i miei insuperabili limiti consentivano), più
o meno, nei preziosissimi saggi in onore di Ugo, così ricchi di una solida
cultura, di bibliografie tanto affascinanti quanto inarrivabili. Mi pare di
rivedere il sorriso gentile di Ugo, sapiente almeno quanto
sia abile il nascondimento di questa ricchezza.
Ripeterò
anch’io come i suoi scolari, vecchio filosofo dai viaggi senza alcuna Itaca
che “cosa ne penserebbe Ugo”.