di
Fulvio Papi
Credo che ogni persona consapevole
deve essere grata alle ragazze e ai ragazzi che manifestano contro una
riproduzione sociale del mondo (che vuol economica, sociale e culturale) che
trasforma in modo miserevole le condizioni materiali che sono state
fondamentali per garantire il modo d’essere della nostra civiltà. Desidererei
solo ricordare che negli Stati Uniti dagli anni Sessanta ad oggi, vi sono stati
innumerevoli movimenti di protesta per motivi largamente condivisibili, ma solo
pochissimi, quelli che hanno assunto una forma durevole nel tempo e organizzata
nell’esperienza sociale, hanno avuto una importanza rilevante nell’equilibrio
sociale delle persone. Prova purtroppo ne è l’attuale governo negli USA con un
presidente, dirò con un solo aggettivo, incomprensibile. Quindi, ragazzi, non
basta conquistare vie e piazze per ottime ragioni, ma occorre essere in grado
di produrre un ordine culturale che diventi senso comune maggioritario e una
organizzazione che si ampli e si solidifichi con il tempo. Non sarà facile perché gli oppositori,
consapevoli o meno, sono molto potenti: basta pensare che collaborazioni attive
tra la politica, l’economia, l’ideologia sociale e anche, in parte scientifica,
hanno impedito che questo tema del “consenso del mondo”, venisse a galla per
decine di anni.
Se fosse accaduto il contrario, non ci troveremmo in questa
situazione. Ma, domandiamoci, era veramente possibile? O le relazioni che via
via si stabilivano tra la riproduzione sociale del mondo e la loro gestione a
livello di poteri essenziali e delle immaginazioni che comunque derivavano dai
“dispositivi” esistenti, avrebbero comunque impedito un’attenzione valida al
negativo che cresceva accanto a noi? In senso religioso questa situazione è
stata definita come dimenticanza del “peccato originale”. In ogni caso il
negativo che si andava diffondendo non è stato studiato e compreso nella sua
crescente emergenza, certamente accecati dal “motore del progresso” valutato
positivamente per i suoi aspetti antropici.
Eppure il concetto di “eterogenesi
dei fini” non affatto ignoto, ma appariva applicabile non senza una certa
sufficienza ironica, solo ad alcuni casi particolari. E il problema del male,
trattato spesso con grande sottigliezza intellettuale, pareva circoscritto al
compito teorico della forma filosofica della cultura. La marginalizzazione nasce
invece da una inconscia collaborazione sociale, ma certamente ha una sua
particolare presenza in importanti spazi della cultura. Certamente questo oscuramento
della mente (e una enfatizzazione del razionale) era molto chiaro nella
“ontologia regionale” dell’economia politica che, per lo più, si considerò come
un sapere autosufficiente, privo di relazioni con l’insieme dei fattori che
costituiscono le forme di vita, lo sviluppo, le trasformazioni, il costume e
anche la crisi di una civiltà. Una misura adeguata è invece sempre parsa nel
calcolo della riproduzione allargata del capitale (le cui crisi venivano
considerate inevitabili, ma anche terapizzabili con manovre che dovevano
necessariamente incidere sulla vita sociale) e, nello stesso tempo, in una
idealizzazione del “progresso” che, con una forte onda ideologica, diventava un
senso comune.
Non mancavano certamente fenomeni discordanti come la bohème o
l’interesse per i paesi più prossimi alla natura più lontani dalle etichette
eurocentriche. È poi del tutto ovvio ricordare che poesia, letteratura, arte e
musica, in forme e stili differenti, ma tutte derivate da una loro
valorizzazione delle possibilità dell’intelligenza, della sensibilità,
dell’emotività antropiche messe in ombra dalla imponente concordanza sui temi
del progresso: mostravano, in nuove forme di idealizzazione, il lato oscuro,
banale, deprimente della concezione diffusa intorno al bene collettivo.
Tuttavia questa era una rinascita laica dell’anima (elitaria)
non una conoscenza obiettiva degli effetti oggettivamente negativi che con il
tempo e la conoscenza sarebbero emersi dall’intensificazione delle offerte di
mercato per lo meno ai ceti abbienti. Questa, se mai, è una prova che il sapere
scientifico, o per lo meno una parte di esso, non è affatto parallelo allo
“sviluppo economico” e alle sue conseguenze. Se il contrario fosse stato vero,
e gli uomini in generale favorevoli a questa verità, non ci troveremmo oggi in
una situazione su cui il consumo del mondo può divenire inevitabile, non in
assoluto, è ovvio, ma in relazione alle nostre condizioni di vita. Probabilmente
non è una concezione sbagliata quella che afferma che non vi è stata mai un’attenzione
corretta e relativa degli effetti negativi per la vita umana in generale,
implicita nell’eduzione di determinate produzioni e quindi nella sollecitazione
di certi consumi.
Non mi pare credibile che sia stato necessario rendersi conto
che i pesci inglobavano nel loro organismo la plastica dei sacchetti gettati in
mare come pagina collettiva, per prendere qualche marginale provvedimento. E
non mi pare nemmeno credibile che mancasse del tutto l’intelligenza sociale per
prevedere che il riscaldamento del pianeta avrebbe portato a conseguenze
disastrose sul regime delle acque. Il fatto più grave è che anche quando la
conoscenza era diventata pubblica, molti potenti non volevano né potevano
mutare orientamenti. Tutti sanno che è stato investito un capitale con il suo
profitto sulle energie rinnovabili. Ma l’estensione di questi provvedimenti non
una incidenza di rilievo sul nostro bisogno di energia o, più in generale del
“consumo nel mondo”. Andrebbe invece analizzato il consumo del mondo poiché
esso è differente: un conto è l’uso dei fossili, un altro la questione dei
liquidi, un altro ancora l’uccisione degli elefanti per l’avorio, un altro
l’uso dei prodotti chimici nell’agricoltura: e si dovrebbero portare da parte
dei competenti molti esempi che mostrano situazioni analoghe.
Tuttavia l’aver solo toccato questo tema induce ad una
elementare ma importante conseguenza. È solo, purtroppo, una buona retorica di
superficie quella che afferma la necessità di cambiare sistema di vita, se non
si tiene presente che il problema passa direttamente da gran parte delle nostre
condizioni di vita. Da tempo si sa che l’incremento del capitale ha condotto
alla necessità dello spreco per accelerare la sua rotazione. Tuttavia oggi
direi, e misuro con prudenza quello che sto dicendo. Ognuno di noi nelle forme
dominanti della sua vita (che vengano esclusi i poveri è ovvio) nel suo consumo
spreca di fatto molto più di quanto non sia necessario. Chiunque non sia un
imbecille o in mala fede sa che il processo che va dalla produzione, alla
distribuzione, al consumo, confeziona tramite la selezione favorevole delle
merci e i prezzi, la figura (un poco ridicola) del consumatore.
Siamo l’ultimo anello di una catena di cui in generale non
abbiamo nessun controllo, e tuttavia siamo i destinatari di un processo che
tramite il nostro assenso può riprodursi. Detto molto semplicemente la formula
“è necessaria un’altra modalità di esistenza”, non parla a un Dio che può fare
miracoli con la sua onnipotenza, si rivolge invece a noi stessi. E per essere
onesti bisogna aggiungere un fatto fondamentale che sottrae queste osservazioni
alla buona volontà e alla pubblica moralità. È quindi necessario ricordare che
le altre forme (semplificando) di consumo del mondo nei vari processi che vi
sono connessi, sono occasioni di lavoro per migliaia di persone che tramite il
salario rientrano in una possibilità di esistenza nel mondo. Quali sarebbero le
conseguenze se la parsimonia diventasse nella realtà sociale, quella virtù che
appare nel mondo delle idee? Tenuto conto poi del fatto che il processo di
informatizzazione dei processi produttivi sta trasformando il capitale
variabile in capitale fisso. Detto in maniera diversa: non è che l’uomo
costringe la sua essenziale finalità a una dipendenza della “macchina” (chi non
ricorda le parole del vecchio Marx), ma piuttosto l’essere umano che deve
diventare la parte operativamente cognitiva della macchina stessa. Quando si
parla, anche giustamente, di lavoro, occorre tenere presenti queste prospettive
che selezionano la forza lavoro in coerenza con la produzione informatizzata.
Con quali problemi riguardo alla disoccupazione alla distribuzione delle
ricchezze?
Probabilmente c’è più d’uno - me lo auguro - capace di
dipanare questo groviglio di problemi che la forma di razionalità di cui
dispongo non è in grado di controllare in una maniera soddisfacente. Come
quando reclamavamo il lavoro (e il salario) per mettere a coltura latifondi
abbandonati al minimo della loro produttività dall’inerzia e dal sufficiente
reddito per i proprietari. Allora il tempo era declinato al futuro, e i nostri
propositi onesti e “umanitari”.
Ora non dovremmo scivolare in una immaginaria ripetizione che
è solo inconscia nostalgia. Dovremmo inventare produzioni e consumi che siano
veramente utili per fermare il precipizio che ci attende, valutare le
conseguenze sociali che sono sicure. Non dimenticare mai che il lavoro, i
prodotti, i consumi sono ormai a un livello globale: l’Europa può riformare se
stessa - non la sua civiltà - per tenere questi nuovi ritmi storici. Deve
dimenticare il suo secolare eurocentrismo. E anche questa esperienza passa dal
modo in cui noi possiamo esistere.