di Alessandro Pascolini*
Le
mie nipotine a tavola con ospiti hanno lanciato il gioco di “dire una cosa che non
c’entra niente” al fine di sabotare la linea del discorso degli adulti. Al
clima surreale che genera tale gioco mi ha fatto immediatamente pensare la
lettura del piano americano “peace to prosperity, a new vision for the
Palestine people”, articolato in un documento di 96 pagine, con un flyer
pubblicitario di 40, presentato dal consigliere speciale di Trump Jared Kushner
nel
workshop “Prosperity
to Peace” svoltosi martedì e mercoledì scorsi a Bahrain. La lontananza del piano dal
discorso sulla questione palestinese, dal suo contesto effettivo, dalla
situazione storica e dai problemi reali dei palestinesi costituisce una vetta
assolutamente irraggiungibile nella gara di “dire una cosa che non c‘entra
niente”, tale da rendere impossibile ogni competizione.
In realtà il documento reso noto è solo
la prima parte, quella economica, del piano americano per “l’accordo del secolo”
fra Israele e i palestinesi, annunciato dal presidente Trump in più occasioni; ignora
completamente la problematica politica per affrontare il presente conflitto, con
tutte le sue ramificazioni: definizione di confini, soluzioni per i rifugiati,
evacuazione degli insediamenti israeliani, lo status di Gerusalemme, la stessa
nozione dello Stato palestinese. La parte politica del piano non verrà
presentata prima delle elezioni in Israele, per non creare possibili problemi a
Netanayahu e alla costituzione di un solido governo di destra. Alcuni
osservatori ritengono che in realtà il documento politico non sia ancora definito
e che reiterati roboanti annunci possano servire per la campagna di rielezione
di Trump.
L’obiettivo del documento economico è
di “dare alla popolazione palestinese la capacità di costruire un futuro migliore
per loro e i loro figli”, trasformando la Cisgiordania e Gaza in una “società
prospera e vibrante”, un “attivo centro commerciale e turistico … modello di
sviluppo a livello mondiale”.
L’idea è di creare un fondo
“amministrato da una banca multilaterale di sviluppo”, controllata dai paesi
beneficiari, che in dieci anni finanzi 215 progetti per un totale di 50
miliardi di dollari; non vi è indicazione dell’origine dei fondi previsti, i donatori
dovrebbero essere i ricchi paesi del golfo o venire dal settore privato.
I progetti sono raggruppati in tre
parti: liberare il potenziale economico (153 progetti), dar forza alla
popolazione (36 progetti) e potenziare l’amministrazione (26 progetti), mirando
a rafforzare il settore privato in tutti i campi. La realizzazione del piano
dovrebbe creare un milione di posti di lavoro, riducendo la disoccupazione
sotto il 10%, raddoppiare il prodotto nazionale lordo, dimezzare la povertà,
aumentare le esportazioni, assicurare disponibilità di acqua ed energia,
ridurre la mortalità infantile, allungare l’attesa di vita da 74 a 80 anni,
ridurre la corruzione, creare un sistema fiscale equo…
Il nuovo fondo intende sostituirsi alle
varie forme internazionali autonome di sostegno ai palestinesi (inclusa la
UNRWA dell’ONU), che dal 2006 al 2016 hanno donato circa 2,2 miliardi di dollari
annualmente. Nonostante questi finanziamenti, 50 anni di occupazione hanno
ridotto l’economia palestinese in una condizione di sottosviluppo e povertà, con
calo della produzione agricola e disoccupazione fino al 30%. Va anche ricordato
che l’amministrazione Trump ha annullato i finanziamenti americani, incluso il sostegno agli
ospedali di Gerusalemme Est, che curano bambini e malati di cancro.
Molti progetti sono riformulazioni di
attività già in corso, altri affrontano evidenti necessità, quali la creazione
di infrastrutture, connessioni stradali, acquedotti e reti elettriche, il potenziamento
degli ospedali e del sistema scolastico, la creazione di registri di proprietà.
Grande spazio viene dato al potenziamento del turismo, con la costruzione di
alberghi e strutture balneari a Gaza, il recupero e la valorizzazione dei siti
storici e religiosi, anche in progetti che integrano attività in Egitto,
Giordania e Libano, paesi con cui dovrebbero essere agevolati i collegamenti e
i movimenti con la Cisgiordania. I finanziamenti sono destinati direttamente
agli imprenditori privati e operatori diretti, escludendo il coinvolgimento
delle autorità politiche palestinesi anche nel potenziamento dei servizi
amministrativi.
Il documento dichiara che i progetti
derivano da documenti di pianificazione governativi, proposte del settore
privato e analisi indipendenti, con modelli presi da Germania, Svezia, Hong
Kong, Lisbona, Singapore, Tel Aviv, Dubai, Polonia, Giappone, Corea del Sud,
Emirati Arabi Uniti, Qatar, Taiwan, paesi Baltici, situazioni che veramente che non c‘entrano niente
con la realtà palestinese di paese militarmente occupato.
Il piano presuppone che gli aspetti
politici, l’occupazione israeliana e lo scisma fra i leader di Gaza e della Cisgiordania
siano semplicemente svaniti e sembra trattare la Palestina come se fosse sulla
luna. Kushner propone di spendere 5 miliardi di dollari per connettere Gaza
alla Cisgiordania, ignorando che non si tratta solo di costruire una
monorotaia, ma di superare l’opposizione politica israeliana. Un’altra proposta
prevede un finanziamento da 2 miliardi per dotare i palestinesi di
un’infrastruttura wireless da 5G, senza indicare come superare l’opposizione
dell’esercito israeliano, che solo lo scorso anno ha permesso di installare in
Cisgiordania un sistema 3G (un decennio rispetto al resto del mondo). Il
miliardo destinato allo sfruttamento del giacimento marino di gas naturale (Gaza Marine gas field) dovrebbe rendere
Gaza autonoma per il fabbisogno energetico, ammesso che Israele,
improvvisamente, permetta all’autorità palestinese di poterne disporre. Viene
completamente ignorato il ruolo di Israele, incombente su tutti gli aspetti della
vita e dell’economia palestinese a rendere irreale tutto il dettagliato piano
di Kushner.
L’autorità palestinese ha deciso di
boicottare l’evento; Mahmoud Abbas ha
dichiarato ai giornalisti stranieri “abbiamo certamente bisogno di aiuti
economici, finanziamenti e assistenza, ma prima di tutto serve una soluzione
politica”. A seguito dell’assenza dei palestinesi, per non creare problemi ai
paesi arabi, gli organizzatori hanno deciso di non invitare Israele, che invece
ha dichiarato il suo favore per il piano; sono stati comunque presenti alcuni operatori
economici privati israeliani.
La delegazione americana all’evento a
Manama ha incluso il Segretario al tesoro Steven Mnuchin, il rappresentante
speciale per l’Iran Brian Hook e gli assistenti presidenziali Kushner e Jason Greenblatt,
che ha definito “apolitico” il convegno. Favorevoli al piano si sono dichiarati
Bahrain, Qatar, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, soprattutto per
rafforzare le relazioni con gli USA in veste anti-Iran. Il Libano e l’Iraq non hanno
accolto l’invito e scarso è stato anche l’entusiasmo di
altri invitati: un diplomatico europeo ha dichiarato che le rappresentanze si
sono mantenute al livello minimo che non apparisse offensivo; Egitto e
Giordania hanno inviato solo dei sottosegretari alle finanze. Gli organizzatori
hanno anche limitato la presenza della stampa internazionale.
Molte parole sono state dette a Manama,
che c’entrano più o meno, incluso “grande successo”, ma, per vincere la gara,
nessuno ha udito alcune estremamente rilevanti: annessione, diritti umani,
insediamenti, rifugiati, evacuazione, occupazione, sovranità, libertà,
uguaglianza ...
*Università di Padova
Riferimento
Peace to prosperity, the economic plan: a new
vision for the Palestine people (2019) The White House, Washington DC.