di Giorgio
Colombo
“Che tu possa vivere in tempi interessanti”, che stampato ovunque in inglese (May You
Live in Interesting Times) non fa molta differenza. Con questo antico detto cinese
si è aperta la 58. Biennale
Internazionale d’Arte di Venezia (rimarrà aperta sino al 24 novembre): i
vari Paesi sono rappresentati negli storici Padiglioni ai Giardini, e all’Arsenale, con i singoli artisti lungo
le strutture dell’antico porto intorno alla Darsena Grande, senza contare i
numerosi eventi collaterali sparsi nella città. Alla loro apertura nel secolo scorso le distinzioni espositive dei Padiglioni riflettevano, nelle loro
divisioni, le diverse varianti nazionali, i propri eroi, le conquiste della
indipendenza, le discendenze illustri ecc. Nella metà del secolo scorso si
assiste ad un capovolgimento, la conquista del modernismo, uno strutturalismo
nemico della decorazione, il fastidio di ogni residuo ottocentesco,
l’abbattimento dei confini politici. Qualcosa rimane anche nel nostro presente
globalizzato, ma ora la ricerca ama la complessità di un ‘passato-presente’,
dirige lo sguardo verso un “un
passato negato”. Così minoranze sfruttate, residui incerti, popolazioni
scomparse, oppure deportate in massa come gli Inuit del Canada negli anni ’50 e
’60 che ora chiedono di ritornare alle loro terre e ai loro costumi. Non un
passato decorativo, secondario e subordinato alla trionfante tecnologia,
inficiato magari dalle ‘fake news’ di una “Virtual Reality” (come suggerisce il
Pavillion dell’Azerbaijan), ma i ritmi preziosi delle antiche musiche e danze:
l’attrice (vedi immagine d’inizio) impugna la maschera di carnevale negli
spettacoli di F. Antigua e Barbuda. Oppure, al contrario, un “Mondo Cane” di bamboleggiamenti, come
quelli presentati nel Padiglione del Belgio da Jos de Ggruyter & Harald
Thys, ‘Flap e Flop’ o la ‘Donna-Topo’ che annuncia la morte.
Ma pure un
tentativo di unire la rigidità purista del modernismo, Mondrian e Malevich, con
la presenza morbida di visi femminili, sette ritratti di note artiste di
colore, cantanti, giornaliste, scrittrici:“The
New Utopia Begins Here”, affema l’artista Iris Kensmil nel Padiglione Czeco-Slocvacco .
E ancora una
mescolanza spiazzante tra vero e riproduzione: tra cuscini, stoffe, veli,
contenitori, busti veri e riprodotti
a parete si scopre lei, Mari Katayama, l’autrice giapponese, mutilata di una
gamba e l’altra dolorante, senza una gamba, circondata, quasi soffocata da
forme improprie. I discorsi si moltiplicano. L’uomo non ha manipolato soltanto
se stesso, ma anche gli animali, e in particolare il cane, trasformato in
macchina, non si sa se minacciata o minacciante. Diversi gli esempi di J.
Durhan, USA-Berlino.
Naturalmente non posso riprendere i numerosi casi
interessanti che occupano i grandi spazi dell’esposizione e le diverse
esperienze sparse in città. Mi limito a ricordare le ‘Cosmo-uova’ del Padiglione Giapponese (insieme ad un bel saggio di accompagnamento),
dove l’antica tradizione si ricollega al Grande Masso (Boulder) trascinato dal fondo del mare sulla spiaggia dalla
millenaria forza degli ‘tsunami’, per
continuare con l’elegante spaesamento italiano, “Né altra né questa”, l’ambigua attrattiva del labirinto, oppure il fiorito e allegro ambiente della
Lettonia “Saules Suns” di Daiga
Grantina, i numerosi esempi di pittura naif (“Home as
you see me” di Njideka Akunyili Crosby o la voluta semplificazione e
ripetizione di Zanele Muholi), gli artisti iraniani al Conservatorio di Musica,
l’Indonesia dalle lunghe e ordinate file di cubi trasparenti in vetro, al cui
interno s’intravedono i fogli di ‘lost
verses’, e infine il caso particolare della Filippina: in un ambiente buio
il visitatore, togliendosi le scarpe, cammina circospetto su di un vetro,
sotto il quale si illuminano pilastri dalla lunghezza indefinita, moltiplicati,
succhiati nel fondo, variati con oggetti dalle più diverse forme e significati:
un senso di vertigini. Solo pochi casi di un ricco campionario, nel quale non
mancano anche esempi di troppo (nella retorica) o troppo poco (nel minimalismo)
e l’eccesso di filmati. Potrei
terminare con il “Double Elvis”, la
rozza copia dei due ubriaconi, “The great glorification of low-life hunanity”, dell’americano George
Condo, che ci salutano all’ingresso dell’Arsenale.