LINGUE MADRI. L.M. VOLANTE
IN DIALOGO CON
MARCO SCALABRINO
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Marco Scalabrino |
Marco Scalabrino, nato
nel 1952 a Trapani, scrittore e poeta, lo studio del dialetto siciliano, la
poesia siciliana, traduttore in Siciliano e in Italiano di autori stranieri
contemporanei, la saggistica, ne fanno il continuatore della più alta
tradizione della cultura siciliana.
Marco Scalabrino, infatti, traduce in siciliano
autori tra cui Catullo, Bukowski, Masters, Russell, Szymborska. “La traduzione,
oggi, nel dialetto siciliano non è né risulta, una ‘insania’: rappresenta bensì un tentativo riuscito di porre in
risalto “la bellezza, la dovizia, la
duttilità del dialetto siciliano,
nonché, pure nella sua millenaria storia, la straordinaria modernità,
l’innegabile capacità di confrontarsi tuttora a testa alta, in tutta dignità,
armoni, magnificenza, con ogni altra lingua, cultura, civiltà del mondo”.
Questo anche perché, come giustamente afferma Marco Scalabrino, “ciascuno di noi cammina sulle ossa di chi
lo ha preceduto”.
Il Siciliano, con la poesia alla corte di
Federico II, è stato determinante per la nascita della poesia italiana; il
Siciliano è stato altresì strumento letterario di poesia e di prosa: nella
seconda metà del sec. XV diede vita alle Ottave o Canzuni, nel sec. XVIII a un
autentico poeta come Giovanni Meli e nel XIX secolo a Nino Martoglio, ad
Alessio Di Giovanni, al Premio Nobel Luigi Pirandello.
“Il Siciliano è differente dall’Italiano
standard in modo abbastanza sufficiente per essere considerato una lingua
separata; è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di
parlanti bilingui in Siciliano e in Italiano standard.” (Centro Ethnologue di
Dallas).
Si avvicendano nel tempo il greco-siculo, il
latino-siculo, l’arabo-siculo, il franco-siculo, l’ispano-siculo, ma
sostanzialmente sempre una lingua, una sola: il Siciliano.
“Quali sono dunque le origini del Siciliano?”
Lucio Apuleio, scrittore siciliano del II secolo d.C., asseriva che i Siciliani
parlavano tre lingue: il Greco, il Punico e il Latino. Ma da allora, e fino al
XIX secolo, ne sono passati di “ospiti”!
Il “sentire
siciliano”: ci soccorre daccapo Salvatore Camilleri, “esprimersi con forme, con spirito, con immagini profondamente
siciliani e non già con scialbe traduzioni dall’Italiano”, significa “liberarsi
dal preconcetto che il dialetto debba solamente rivolgersi alle piccole cose,
al folclore, al ricordo”, giacché “il dialetto può esprimere tutte le complesse
realtà: la storia, la filosofia, la sociologia, tutte le scienze, non in quanto
tali ma come patrimonio culturale che chi scrive consuma nell’atto della
creazione.”
Ai lettori non resta che assaporare “A tu per
tu” dallo stesso Marco Scalabrino.
[Laura
Margherita Volante]
1. Se mai fossi tenuto a parlare di me
stesso non potrei iniziare se non a partire dalla mia terra, dalle mie radici, dalla
mia lingua; e come meglio se non per voce dei poeti (di taluni di loro
ovviamente) che la mia Sicilia da sempre hanno celebrato; Giovanni Meli magari o, chissà, qualche passo della
migliore tradizione popolare siciliana o, perché no?, il testo di un autore
dialettale calato nella nostra contemporaneità. Esempi probabilmente che, agli
occhi del lettore, finirebbero col risultare slegati, ben differenti fra loro
per collocazione temporale, per scansione metrica, per taglio contenutistico; ma
che, nella loro complementarietà, potrebbero tuttavia assurgere a campione emblematico della composita realtà
siciliana.
Da
questa schematica prolusione credo traspaia già la principale combinazione a fondamento
dei miei interessi culturali: la Sicilia nella sua interezza di natura, storia,
arte, cultura, folklore, costume e, nello specifico, il dialetto siciliano e la
poesia in dialetto.
Non stiamo qui a tergiversare e glissiamo,
quindi, sulla vexata
quaestio lingua o dialetto; ma, a onore del vero, non possiamo né vogliamo sottacere
circa lo stato attuale nel quale versa il dialetto
siciliano. Esso difatti, secondo uno studio recente dell’autorevole Unesco,
è una lingua che rischia di
scomparire entro la fine del corrente secolo. Un tempo lingua molto utilizzata – tant’è, affermava
il Centro Ethnologue di Dallas, che
si poteva parlare di parlanti bilingui –, esso è oggi un idioma che
giorno dopo giorno va perdendo i pezzi, che paga un prezzo salatissimo alla
scienza, alla tecnologia, alle contaminazioni. Nel volgere del Novecento e in questo
inizio del terzo Millennio, in Sicilia si sono alternate le civiltà
rurale-artigianale e quella finanziaria-industriale, entrambe a loro volta
soppiantate dalla civiltà mediatica-globale. L’uomo per conseguenza cambia
(nella quotidianità, nello stile, nella tensione ideale) e la lingua (che l’uno
e l’altro, il mondo e l’uomo, è chiamata a rappresentare) deve fare di continuo
i conti col proprio ultra-millenario spendersi, col fronte magmatico dei “tempi
moderni”, con l’arrembante tecnicizzazione e inglesizzazione. È d’uopo perciò,
ne va della stessa sua sopravvivenza, che si attrezzi, si espanda, si adegui.
E allora?, mi si potrebbe ragionevolmente
obiettare. Allora, è presto detto, non sono stato io a scegliere il dialetto; è
stato lui che ha scelto me! La prima lingua che ho ascoltato, la prima lingua
che ho imparato, la prima lingua con la quale ho interloquito con i miei simili
è stata la parlata siciliana della mia città; la lingua d’‘a minna (la lingua del seno materno), come l’appellò il
nostro illustre poeta ramacchese Vito Tartaro. È stato un atto naturale;
nessuna strategia, nessuna forzatura è stata praticata. L’italiano l’ho appreso
dopo, a scuola; l’italiano si è sovrapposto al dialetto, si è imposto sul
dialetto, si è sostituito al dialetto. Per lunghi anni è stato così. Poi (d’un
tratto?) il dialetto, evidentemente mai del tutto piegato, mai del tutto
sconfitto, mai del tutto sbaragliato ma solamente sopito, ingabbiato,
proscritto, s’è presa la sua rivincita! S’è scrollato di dosso decenni di
abbandono, di negazione, di rifiuto e, in tutta la sua bellezza, dovizia,
duttilità, nel rigoglio delle sue nobili radici greche, latine, arabe, si è
fatto, si è elevato, si è eletto, prepotentemente, a lingua della mia poesia.
Mi viene in proposito da considerare che sono in buona sostanza bilingue, ho
adeguata competenza in entrambi i registri linguistici; perché mai,
arrendendomi peraltro a una devastante sudditanza culturale in voga, dovrei
rinunciare a uno di loro, a quello per giunta che più mi appartiene, a quello
al quale più appartengo? D’altronde, sappiamo bene, la bontà di ciò che si
dice/scrive non insiste per assioma sullo specifico codice di comunicazione che
si adopera quanto sulla qualità intrinseca del pensiero che esso esprime e
sulla forma che tale pensiero assume.
Si situa in
quest’ambito, entrando nel merito del nostro incontro, la poesia dialettale. In
ciò peraltro confortato dall’assunto di Giovanni
Vaccarella: “La poesia dialettale oggi è poesia di cose e non di parole, è
poesia universale e non regionalistica, è poesia di consistenza e non di
evanescenza”. Oltretutto – rileva con acume Antonio Corsaro – “i dialettali non
sono mai stati estranei alle vicende della cultura nazionale, anche se
disuguale è il loro piano di risonanza”.
Quanto a me, fatti salvi forme e contenuti circa
i quali va affidata “ai posteri l’ardua sentenza”, scrivo in siciliano perché
il mio sentire è siciliano, i miei pensieri nascono in siciliano, il mio animo
è profondamente, convintamente siciliano.
2. Il linguaggio da me
schierato può (talora) profilarsi, nel suono e nel senso, di primo acchito poco
comprensibile. Ciò perché, nel mio impari cimento con l’atto della creazione,
sono andato a ricercare nelle vastissime plaghe del dialetto le parole, le
locuzioni nominali, verbali, aggettivali, giusto quelle e non altre, che
potessero al meglio rendere i concetti e i frangenti che esso andava a
veicolare, che potessero costruire una sintassi di immagini atte a ri-creare
non solo il senso ma anche il “tono” del mio pensiero. Ebbene, riguardo a ciò,
probabilmente, esso pare esorbitare quello comunemente spacciato nella esangue
e frettolosa prassi quotidiana. Una precisazione nondimeno, al fine di evitare
di incorrere in facili equivoci e di scongiurare erronee impressioni che
potrebbero derivarne e a beneficio soprattutto di coloro non iniziati alle
finezze linguistiche, è doverosa. In effetti io non pratico e non adopero parole
rare o desuete, arcaiche o dismesse; tutti i miei termini sono frutto di una
lunga, assidua, entusiasta frequentazione del dialetto, di ieri e di oggi,
dell’occidente e dell’oriente dell’Isola, degli studi dei testi di quei poeti,
letterati, cultori che nel tempo, nei secoli ormai, al nostro dialetto hanno
votato le loro esistenze. E pertanto, essi sono termini tutti del dialetto
siciliano; termini, come poc’anzi detto, che al meglio realizzano il mio
pensiero.
3. Siffatto dialetto perciò,
e ci accostiamo così al secondo risvolto del mio lavoro, la traduzione, non
teme tenzone. Ci potremmo inoltrare nell’argomento, se ne avessimo tempo e
spazio, mediante taluni adattamenti desunti dal mio lavoro del 2014 Na farfalla mi vasau lu nasu, silloge alla
quale comunque vi rimando.
La traduzione di poesia è un’operazione delicata
e complessa, che implica problemi teorici e pratici non sempre di facile
soluzione. “Un concetto, assevera Attila József, è lo stesso sia per un
filosofo cinese che per uno ungherese o inglese. Chiunque può esporlo con le
proprie parole. Il concetto quindi, in quanto spiritualità, è dell’umanità
intera. Ogni filosofia infatti è traducibile in ogni lingua, perché importante
è che vi sia concordanza concettuale, non verbale e se in una lingua non vi
fosse una parola specifica per un concetto, noi possiamo sempre parafrasarlo ed
esprimerlo, ciò nonostante, perfettamente”.
Ho affrontato l’attività di traduzione dopo accurati studi e dopo avere fatto
miei parecchi degli assunti che nel tempo ho appreso. Luca Guerneri rilevò che
“il confronto con l’altra lingua diventa spesso un braccio di ferro con la
propria”; Alba Olmi che “si tratta di una trasposizione di testi, non di parole
o frasi, da una cultura all’altra e che è l’opera stessa da tradurre a
suggerirci i percorsi”; Paul Ricoeur che “il traduttore forza la propria lingua
a rivestirsi di estraneità e la lingua straniera a lasciarsi de-portare nella
sua lingua materna perché non solo i campi semantici non si sovrappongono, ma
le sintassi non sono equivalenti, l’andamento delle frasi non veicola le stesse
eredità culturali”. Tradurre poesia è dunque (per me) impresa nella quale, per
quanto impegnativo, è gratificante e perentorio riuscire. Ciò perché la
traduzione, questo genere letterario a sé, è per forza di cose re-invenzione in
certa misura del testo originale, è un passe-partout
che ci introduce a un inusitato trip
letterario, è uno star-gate che ci
spalanca l’altrui universo. Un universo composito, intriso di fantasia e parimenti
radicato nella attualità, crudo e allucinante e altresì tenero e sognante, un
universo che se per taluni caratteri rinveniamo sotto casa per taluni altri ci
svela spaccati, scene, luoghi esoterici, misteriosi, mitici: la poesia di ogni
latitudine, di ogni lingua, di ogni vocazione. Gli esiti non lascino trasparire
il lungo studio e il grande amore che sono stati necessari, i vantaggi e gli
svantaggi connaturati al passaggio da una lingua all’altra, l’iniziativa
personale richiesta al traduttore e induca anzi il lettore alla considerazione
che le poesie sembrano essere state concepite, nel nostro caso, in siciliano.
La mia attività di traduzione coincide con
un’opera di promozione scaturita da una consapevole assunzione di
responsabilità nell’implicito giudizio positivo di poeti senza limiti
geografico-temporali e linguistici. Autori che si collocano dalla classicità,
Orazio e Catullo, ai nostri giorni, taluni addirittura viventi: Peter Thabit
Jones, Iacyr A. Freitas e Jacques Thiers; autori di disparate regioni
dell’Europa e delle Americhe: Peter Russell, George Bacovia, Nat Scammacca,
Horacio Castillo; alcuni planetariamente noti: Charles Bukowski, Edgar Lee
Masters, Wislawa Szymborska, fianco a fianco ad altri scarsamente conosciuti o
pressoché sconosciuti in Italia: Duncan Glen, Paul Snoek, Robert Garioch e Hugh
Mac Diarmid. Tutti autori nondimeno di spessore, di valore, che trovano, tramite
il mio devoto tributo, una piccola ribalta, un’angusta finestra mediante la
quale affacciarsi ed entrare a far parte della cultura siciliana. Le mie
traduzioni, preferisco però che le si appellino adattamenti, si propongono di
restituire l’inconfutabile nobiltà, la straordinaria contemporaneità pur nella
millenaria storia, l’innegabile capacità del dialetto siciliano di confrontarsi
tuttora a testa alta, in tutta dignità, armonia, compiutezza, con ogni altra
lingua, cultura, civiltà del nostro pianeta. Oltretutto, “Tradurre poesia, attestò Eugenio Montale, è uno dei
possibili modi di fare poesia”.
4. Direi adesso di porre
un argine al viaggio fra le “cose” di mia
pertinenza e di concludere col solo menzionare uno dei miei volumi di saggi,
datato 2013, dal titolo Parleremo
dell’arte che è più buona degli
uomini; la saggistica difatti costituisce la terza e ulteriore branca del
mio lavoro. Come è successo che vi sia approdato? Cresceva spontaneamente
dentro me, man mano che andavo scoprendo, man mano che andavo leggendo, man
mano che andavo studiando quei poeti (una buona fetta dei quali figurano in
quel volume), una irrefrenabile curiosità, una sana voglia di saperne di più, un
reale interesse all’approfondimento. Fu così che una traccia dopo l’altra, uno
studio dopo l’altro, un anno dopo l’altro un bel giorno mi sono ritrovato in libreria
una ragguardevole, in quantità e in qualità, mole di documentazione, acquisita
dalle più svariate fonti: le riviste, le frequentazioni letterarie, le biblioteche;
materiali che nel tempo, singolarmente, videro luce qua e là su periodici nazionali
di settore. “Perché, mi venne un bel dì suggerito, non ne rivedi alcuni nell’ottica
di una raccolta unitaria da pubblicare?” In verità non vi avevo mai pensato anche
perché, trattandosi perlopiù di autori di fine Ottocento e della prima metà
Novecento e per giunta in dialetto siciliano, non credevo potessero appassionare
tanti oltre che gli addetti ai lavori. Raccogliendo ciò malgrado la sfida, allestii
la raccolta, mutuando un passo dalla corrispondenza fra Alessio Di Giovanni e
Silvio Cucinotta la denominai Parleremo
dell’arte che è più buona degli uomini e, per una fortunatissima congiuntura,
la proposi alquanto titubante a un illuminato editore lombardo il quale, senza
indugio alcuno, piacevolmente stupendomi, accettò di pubblicarla.
Chiudo questa essenziale chiacchierata, facendo un rapido accenno ai progetti ai quali attendo in questo momento. Sto curando, presso una
associazione culturale della mia città, una rassegna denominata “Galleria Letteraria”
che si protrarrà fino a tutta la primavera; di recentissima pubblicazione a New
York la mia traduzione in siciliano della raccolta di poesie, The Divine Kiss, dell’autrice anglo-statunitense
Carolyn Mary Kleefed; nel corso di questo 2018 conto di pubblicare, sempre a
New York, una selezione trilingue (siciliano, italiano e inglese) dei miei
testi.